“È morto e non certo de freddo, ma guardate voi commissa’. È tutto vostro”.
Nessun dubbio, quell’omicidio è un suicidio, l’ha scritto pure il giornale, quattro righe in cronaca, poi niente più. Sopra un “montarozzetto de neve”, il corpo si presentava decisamente in “figura di cadavere de morto”, ma l’hanno dimenticato tutti in fretta. Non Mario Quattrucci, però, che gli ha dedicato un romanzo, Quel delitto del ‘56, pubblicato da Oltre edizioni nel 2020 (134 pagine).
Era imbiancata Roma, il 19 febbraio del 1956. La capitale era sotto la neve da più di una settimana. Temperature polari, notte e giorno. Un evento infrequente per l’Urbe Eterna. C’era un cadavere - e questo è un evento più frequente in una grande città - nel quartiere Appio, sotto il ponte di un’antica via consolare che scavalca la ferrovia. Un tranviere, passando “per sbajo”, aveva notato “quarcosa de nero”, che affiorava da un cumulo bianco. Un cappotto, una manica, poi una mano, alla fine una faccia. Morto era morto. Come, era un’altra faccenda. Non si capiva. Ma non era stato ucciso nel luogo in cui era stato trovato.
In queste poche battute si fa strada il giallo, ch’è pure politico e che Quattrucci ha reso mirabilmente nel suo lavoro, proposto da Diego Zandel nella collana Letture dal mondo, che cura insieme alle altre della casa editrice di Sestri Levante. Non tra i polizieschi, quindi, perché l’episodio non è un semplice crimine, entra tra i misteri italiani, come altri, tra mafia, strategia della tensione, terrorismo. Un fattaccio di quelli che capitano nella città dei “pasticciacci brutti”, un fatterello però, una macchia minuscola sulla tela del tempo.
Il caso, rubricato nel gergo giuridico-poliziesco come “fatto suicidiario”, venne presto abbandonato e non tornò più alla luce, nonostante le evidenti contraddizioni rispetto alla presunta morte per atto volontario. Oggi Mario Quattrucci offre la verità su quella vicenda, maturata in un contesto politico e partitico e che non fu mai conosciuta, o meglio, non fu mai rivelata.
Quattrucci, classe 1936, impegnato dal 1953 nella vita politica e sociale, ha insegnato nell’istituto di studi comunisti, è entrato nel comitato centrale del PCI, è stato consigliere circoscrizionale, comunale, provinciale. Da giornalista ha collaborato con testate e riviste di sinistra, da autore è il papà del commissario Marè, protagonista di una quindicina di romanzi di indagini cocciute e da cittadino è figlio di un sottufficiale dei Carabinieri decorato in guerra e per la partecipazione alla Resistenza, che pure invitato a lasciar perdere non trascurò di condurre indagini, in quel 1956.
Nel romanzo il padre c’è, è il maresciallo Conciarelli, 57 anni, prossimo alla pensione, già partigiano. E c’è anche il figlio, che nelle pagine si chiama Mimmo, a volte Dom, un ventenne che milita in Giustizia e Libertà, la formazione resistenziale del Partito d’Azione.
Tocca alla Questura l’inchiesta sul morto, defunto altrove e “apparecchiato” da qualcuno e per qualche motivo sul montarozzo di neve, nei pressi di una sezione del Partito Comunista. Ma il maresciallo Conciarelli vuole sapere, non si accontenta della traballante versione del suicidio accreditata senza se e senza ma. Vuole andare a fondo, tanto più perché ha saputo che il caso è stato avocato della Sezione Affari Riservati, gli “spioni” della Direzione Generale della Pubblica Sicurezza, i mastini della legge Scelba.
La bufera che colpì quell’anno la capitale era niente in confronto al terremoto internazionale che ebbe per epicentro nel 1956 Mosca e l’Ungheria e che sconvolse le coscienze di tanti comunisti. Fu “l’anno in cui divenimmo altra cosa”, scrive l’autore. Impegnati in un profondo travaglio, seppero poco e tardi di quella storia minima, nelle immediate vicinanze. Forse nemmeno volevano sapere.
“Un uomo di circa 70 anni, per ora sconosciuto, è stato trovato morto per suicidio lungo la via consolare, appoggiato alla spalletta del ponte che la suddetta strada forma sulla ferrovia. Il suo corpo era quasi del tutto ricoperto dalla neve, quindi il suicidio risale certamente alla notte tra il 18 e il 19. La Questura indaga”.
Un trafiletto e niente più, senza dire nulla sulla causa del suicidio, sull’arma, né foto né particolari, perfino il luogo restava non detto: una via consolare, un ponticello sulla ferrovia. Quale fosse, tra Roma e chissà dove, veniva lasciato all’immaginazione.
Avevano ucciso ed esposto il cadavere sotto i loro occhi, a un passo dalle loro case. Una “morte inferta con studio”, rimossa, cancellata.
Quella storia vera è rimasta sotto la sotto la pelle di Mario Quattrucci e lo ha tormentato, perché aveva a che fare col suo essere comunista. Oggi ha fatto pace con la verità. A distanza di decenni, la vicenda si può raccontare e chiarire. Anzi, si deve, anche per lasciare una traccia dell’Italia di allora.