L'albero delle immagini

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14/11/2020, ore 11:52

Fu una strage. Per altri terribili eventi naturali usiamo le definizioni di catastrofe, disastro, cataclisma, ma quella che accadde nei tre giorni di tempesta Vaia, alla fine di ottobre del 2018, quando il vento abbatté 14 milioni di alberi tra Dolomiti e Veneto, non potemmo chiamarla altro che strage.

Chi vide quei boschi straziati, atterrati e ridotti a un gigantesco malefico gioco di shanghai, provò sentimenti di orrore e compianto e angoscia che somigliavano molto al lutto umano.
E questo accade perché se diciamo albero ci viene in mente di tutto, tranne la definizione da Treccani di “pianta perenne legnosa con fusto colonnare”. Gli alberi non sono botanica ma antropologia, ce li raccontano gli occhi e la mente, la percezione e la cultura.
Ce li raccontano dunque ora un fotografo e uno scrittore, Roberto Besana e Pietro Greco, in un libro che s’intitola solo L’albero, un libro di genere indefinibile, immaginato ovviamente camminando fra i boschi, quelli della val Rendena.
Camminando e discutendo sul fatto che né le parole né le immagini, separatamente, riescono a dare conto del posto che abbiamo concesso agli alberi di occupare nel nostro immaginario. Le parole, per rischio di troppa astrazione (fate la prova, domandate a bruciapelo: dimmi il nome di una cosa qualsiasi: nove su dieci la risposta sarà “albero”); le fotografie, per troppa individualità (puoi fotografare un certo albero, o molti alberi, ma mai l’alberità).
Mancarono dunque il bersaglio sia i poeti laureati, quelli che per Montale si degnano di accogliere nelle loro stanze solo piante dai nomi strani, bossi ligustri o acanti. Mancarono il bersaglio i fotografi, soprattutto i primi, che le chiome degli alberi mosse dal vento facevano impazzire perché mutavano un paesaggio in una confusa bambagia scura.
Mentre ecco che, per miracolo, il blend tra i due imperfetti sistemi descrittivi, disposti a pagine alterne, funziona: ogni singolo albero fotografato è un individuo, e la fotografia diventa il suo ritratto, ma nello specchio dell’altra pagina le parole ne cavano fuori una morale, un apologo, una citazione, o anche solo una buona informazione. Così per 65 dittici. E non si corre più il rischio di vedere solo l’albero e non la foresta, o viceversa, come suol dirsi. Alberi2
Cosa vediamo, invece? Storie di alberi concreti e raccontati. Alberi antropomorfi, che pregano con le braccia nodose alzate al cielo e i piedi radicati in terra (sono importanti, le radici…), ulivi contorti a braccia conserte, salici che piangono, cipressi che corrono come giganti giovinetti in duplice filar.
Sono alberi che ci somigliano, si comportano come noi: “un bosco è una pacifica riunione di alberi”; ci sono foreste che camminano lentamente scavalcando le catene montuose, alberi che emigrano da un continente all’altro.
Sono nei nostri ricordi ancestrali di scimmie scese dai rami, ma da bambini qualcosa (il richiamo della foresta…) ci attira di nuovo lassù, arrampicati come baroni rampanti: “l’albero a cui tendevi la pargoletta mano…”, chi non ha mai desiderato una casetta sull’albero?
Poi alberi che vivono e respirano (e ci danno da respirare…), alberi che soffocano urbanizzati, incastrati in un buco del marciapiede, che poi si vendicano gonfiando l’asfalto a spinta di radici.
Alberi intellettuali, alberi del pensiero e della conoscenza, il primo fu quello dell’Eden, niente male neppure il fico di Siddharta, ma vogliamo laicamente ringraziare il melo di Newton per averci donato la scienza moderna?
Alberi testimoni della storia, vivono molto più di noi e li invidiamo per questo, anche migliaia di anni (il più longevo pare abiti in California, il luogo è segreto per proteggerne la serena vecchiaia, e avrebbe 4700 primavere), che quando poi li tagliano contiamo i cerchi e diciamo vedi?, qui abbiamo scoperto l’America… E che dire di brivido così còlto quando ci rendiamo conto di respirare, sotto la sua quercia, la stessa ombra del Tasso?
Ce ne sono tremila miliardi sulla pelle del pianeta. Spiace per Lao Tzu, ma non è così vero che fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce, perché il rumore dei 15 miliardi di tronchi segati ogni anno dalla nostra ingrata fame di legna non lo sentiamo proprio, o facciamo finta; forse aveva più ragione Berkeley, ammesso che l’abbia detto lui: “Se un albero cade nella foresta e nessuno è presente, fa rumore davvero?”.
Ci sono quelli che abbracciano gli alberi, per gratitudine o misteriosofia: questo libro ansiolitico fa a meno di stupidaggini new-age, le parole incontrano con semplicità le fotografie come la mano incontra la corteccia ruvida di questo nostro simile, coinquilino terrestre, paterno forse più che materno, che ci ha generati come l’albero di Jesse, ossia l’albero genealogico di Cristo.
Li abbiamo adorati come divinità, e li abbiamo tagliati a fette per farci il comò; li abbiamo temuti come selve oscure in cui si smarrisce la via e poi li abbiamo usati come bacheche per messaggi d’amore; ci hanno rallegrato vestendosi di decorazioni natalizie e noi li abbiamo presi in giro come accadde al povero incolpevole Spelacchio…
Forse la nostra schizofrenica relazione con gli alberi dice qualcosa sulla nostra ciclotimica, disforica relazione col pianeta.
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