Non ho mai amato il jazz, non ne ho mai fatto un mistero e Nicola lo sa bene.
Non so perché ho sempre considerato la sua estemporaneità come una mera esibizione di maestria e i fan di questo genere musicale persone intente più ad apparire intelligenti, che a provare le emozioni vere che la musica deve dare, un po’ come gli appassionati della noiosissima musica da camera o, peggio ancora, della lirica, generi che non comprendo e che considero clisteri auditivi.
Probabilmente questo modo di vedere le cose è dato dalla mia assoluta ignoranza musicale ed alla mancanza di un retroterra culturale che non mi consente di apprezzare questi generi, ma anche un uomo attempatello come me, può acculturarsi e così ho tentato di fare leggendo Arrivano le parole del jazz.
Conosco Nicola Vacca e gli riconosco da sempre un’intelligenza ed una sensibilità artistica e poetica fuori dal comune e proprio in virtù di questo mi sono accostato ad alcuni dei pezzi musicali ai quali fa riferimento nel suo libro Arrivano parole dal jazz
Non è stato semplice per me: rivedere le convinzioni maturate nella vita non lo è mai, così come è estremamente difficile aprire la mente a ciò che si è sempre rifiutato, ma Nicola è uomo onesto, che non ha bisogno di apparire intelligente, anzi di apparire intelligente non gli frega proprio nulla e proprio questa considerazione mi ha spinto a cercare ciò che non vedevo.
Sulle prime il semplice ascolto non è bastato, continuavo a non trovare nulla che mi coinvolgesse, così ho provato ad ascoltare mentre leggevo i versi di Nicola e questa è stata la chiave di volta.
La mia impressione è che il libro non parli di jazz, delle sue note in apparenza disordinate e sconnesse, ma delle ragioni del jazz, del suo perché, di quella sensazione di libertà che condusse un uomo a staccarsi dai canoni consolidati della musica “comprensibile” per sperimentare un estremo, una terra di nessuno.
E probabilmente la radice del jazz, la sua ragion d’essere, sta proprio nella sua inintelligibilità, nel considerare per la prima volta chi ascolta non un semplice fruitore, ma un partecipante attivo di qualcosa che è origine e fine di sé, di un momento irripetibile che non accadrà più.
Nicola ha calcolato tutto questo con maestria luciferina, non ha regalato nulla, scaricando sul lettore i suoi versi asciutti, dai quali strappare a morsi brevi squarci da elaborare con la propria sensibilità
Non entro nel merito della poesia di Nicola, altri lo hanno fatto e lo faranno ancora e poi lui non ha certo bisogno di ulteriori riconoscimenti, il sangue con cui scrive i suoi versi, la quotidianità che dipinge tra le righe senza cedere mai alle lusinghe dell’aggettivazione lo hanno reso ciò che è, non sono certo io a scoprirlo.
Ma in questo libro va oltre, i versi che colorano le illustrazioni appena accennate, non sono il nucleo di “Arrivano le parole del jazz”, la vera sostanza è altrove, tra le note che accompagnano la contemplazione e la conoscenza delle vicende umane degli artisti, il loro “sentire” la musica ed il loro interpretarla come cassa di risonanza di qualcosa di intimamente percepito, fino a rendere le note una sequenza di immagini che si sovrappongono a dare un senso all’apparente non senso.
Probabilmente il messaggio è proprio questo: il jazz è traccia di un caos primevo dal quale scaturisce la creazione di nuovi confini ed ogni nota, all’apparenza spettinata, porta con sé l’imprevedibilità che è l’esoscheletro di una percezione reale e sofferta della realtà che ci circonda.
Forse non amerò mai il jazz, ma Nicola mi ha fornito gli strumenti per metterlo in valigia, smettendo di sdoganarlo sdegnosamente, ho letto la prima pagina con un po’ di spocchia e sono arrivato alla fine ritrovandomi con le pive nel sacco.
Essere diabolico questo Nicola vacca!
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