Sedici racconti ambientati sullo sfondo della città di Trieste narrano di altrettante e più esistenze che si ritrovano a dove fare i conti con la lotta del vivere e la sua complessità. Non è un caso, infatti, che l’antologia prenda il nome proprio da uno dei racconti ovvero La catena spezzata. In questi racconti tutte le vicende, tutti i personaggi si trovano ad aver tra le mani una catena spezzata, una vite, una relazione o un legame interrotti ma anche una vita arrivata a determinato momento da chiudere in attesa di un cambiamento voluto, subito o necessario. Giorgetta Dorfles riesce con grande delicatezza a narrare di questi animi turbati e precari che, pur nella loro fragilità, manifesta sono di un coraggio e di una forza incalcolabili. Tutti i protagonisti di queste sedici storie devono fare i conti con sé stessi, con le loro vite, le loro scelte, le loro decisioni prese o mancate. Azzardate e coraggiose. Tutti affrontano il loro presente senza fuggire dimostrando ancora un coraggio da leoni. Tanto nella passione quanto nella razionalità. Una dicotomia questa assai presente nei racconti di La catena spezzata. E l’Autrice con la sua profonda sensibilità riesce a spingersi oltre il profondo animo delle sue creature e delle loro storie che sembra conoscere così bene e a fondo da sembrare una voce inserita e
melodiosa di questo coro di vite ed esperienze.
La presenza d’animo della scrittrice, però, non deve trarre in inganno il Lettore poiché essa non risulta mai invadente nei suoi riguardi ma sua complice e confidente. Una presenza/assenza di grande poesia e importanza. Ciò lo si nota soprattutto in quei racconti dove con dolcezza e tenerezza narra della malattia sia di un genitore e del rapporto che viene a (ri)crearsi o modificarsi tra questo e la sua prole sia di un uomo che vedendosi impotente davanti all’ineluttabilità del male (pure se non accertato) decide di farla finita. Nel primo caso la pudicizia, il non detto, gli sguardi narrati, i pensieri dall’uno e l’altro verso mostrano le difficoltà reali di una realtà vera, autentica, possibile, più o meno accettabile per il suo dolore e per tutto ciò che da questi rapporti non è arrivato né nato. Nel secondo, invece, resta tanto rispetto e il dovere naturale di non giudicare. Solo di “osservare” e capire. Da qui non appare difficile comprendere perché l’Autrice abbia deciso di chiudere la sua antologia con il breve racconto La cura in cui una giovane donna bionda estrae dal mare una piccola lumaca di mare e sembra riversare su quest’ultima tutte le attenzioni e le carezze possibili. Tanto che l’osservatore di questa scena inizia a chiedersi cos’è la cura, in cosa consiste, da dove deriva soprattutto quando, come in questo caso, si traduce in attenzioni non richieste ma donate, elargite così… spontaneamente senza poterne avere nulla in cambio. Forse questo atteggiamento è solo un modo di recuperare tutte quelle attenzioni non date quando era il momento di donarle? Magari a un genitore malato o a un affetto in difficoltà… chissà.
Eppure è in questi semplici e incondizionati gesti che si nasconde tutto il senso della vita e anche dell’antologia di Giorgetta Dorfles. Forse, nella vita l’unica cosa che davvero conta è l’amore in ogni sua forma, manifestazione ed esternazione. Forse quell’attenzione in più, quella carezza o quello sguardo in più possono fare la differenza. Forse la catena si spezzerà comunque e comunque richiederà un nuovo nodo da fare e tanto lavoro per crearlo. Forse, però, la vita così può assumere un diverso senso e un più profondo significato che si traducono in un continuo e perpetuo modo di cambiamento. Ma nonostante la nostra meschina conformazione, mi piace pensare che ci sia qualcuno che osserva quei miseri granelli di universo con lo stesso sguardo tenero e intenso, abbia cura di noi in modo imperscrutabile e, con pazienza infinita, attenda che ci decidiamo a uscire dal nostro guscio per guardare al mondo e a noi stessi con rinnovata consapevolezza. La giornata al mare è finita, dò una ultima occhiata alla fanciulla che coccola la conchiglia appoggiata sulla coscia. Ed è proprio questa coccola e, quindi, questa cura che Giorgetta Dorfles dona al suo Lettore. Con onestà, delicatezza e sincerità. La sua scrittura così autentica e precisa lo dimostra.
Incontro con l’Autrice
Come è avvenuto il suo incontro con la scrittura? Forse il fatto di essere stata avviata alla lettura fin da bambina mi ha suggerito la possibilità di poter creare anch’io delle storie. Infatti già da adolescente avevo iniziato a comporre delle poesie, che la poetessa triestina Lina Galli aveva apprezzato, incoraggiandomi a continuare. I racconti sono arrivati più tardi, quando ormai avevo varie esperienze di vita da cui trarre ispirazione.
Come è nato il progetto editoriale di La catena spezzata? È stato in certo senso un prodotto della pandemia. Visto l’isolamento coatto ho pensato di ripescare dei vecchi racconti per rielaborarli, scegliendo quelli che più aderivano a quel clima plumbeo, anche se non è stato difficile… A quel punto per farne una raccolta dovevo aggiungerne altri. Il tema doveva restare impostato su una chiave di basso e proprio il titolo di uno dei racconti, La catena spezzata appunto, mi ha dato la traccia su cui proseguire.
Tra quelli contenuti ne La catena spezzata, qual è stato il racconto più complesso da ideare e tradurre su carta? E perché?
Penso il racconto Canzoncine, che descrive gli ultimi anni del rapporto con mia madre, ormai segnata dalla demenza senile. Intanto, dovendo rivivere dei momenti molto intensi emotivamente, non volevo cadere nel patetico o nel morboso. Era anche difficile mantenere un equilibrio fra la descrizione del decadimento mentale e la volontà di restituirle la sua dignità, nonostante tutto. Ho voluto mantenere un punto di vista abbastanza distaccato, anche se ero direttamente coinvolta, per non cadere in una pura autobiografia, senza valenze letterarie.
Tra i protagonisti di La catena spezzata vi è anche la città di Trieste. In che modo è stata influenzata ma anche ispirata da questa sua amata città?
Poiché l’identità di Trieste è stata spezzata dalla storia rientrava perfettamente fra i vari personaggi. Una città in bilico su un confine labile e minaccioso non può che stampare sui suoi abitanti un imprinting di instabilità, se poi ci aggiungiamo l’impatto dirompente della bora non è strano che i triestini vengano considerati dei mezzi matti. Per fortuna Basaglia è venuto a curarli e ad aprire le porte del manicomio, così i matti sono stati liberati e sono potuti entrare anche nei miei racconti. Scherzi a parte, alcuni personaggi in bilico fra normalità e follia derivano dalla mia frequentazione come volontaria in alcune strutture legate alla nuova psichiatria.
Nei suoi racconti assai presenti sono il simbolico, l’onirico assieme a una profonda attenzione per la psicologia dei personaggi. Qual è stata la difficoltà maggiore che ha riscontrato nel rendere tutto questo attraverso uno stile armonioso e musicale?
Il mio modo di scrivere funziona in questo modo: lascio in sospeso un abbozzo di traccia, poi le parole e le situazioni giuste compaiono da sole, spesso mentre cammino o alla mattina al risveglio, quindi non c’è nessuna intenzione a priori di ottenere un determinato effetto. L’impostazione del racconto s’impone da sola: è la magia della scrittura. L’unica fatica perciò sta nelle rifiniture e nelle varie revisioni a distanza di tempo. Per approfondire l’aspetto psicologico dei personaggi posso dire che sono stata aiutata dai vari corsi che ho fatto sul tema, compreso un diploma di Counseling acquisito in una scuola di psicoterapia.
C’è qualcosa che vorrebbe ancora “dire” a uno o più protagonisti della sua raccolta di racconti?
Non credo di avere taciuto qualcosa ai miei personaggi. Forse potrei dire a Cassandra di smettere di prevedere alcunché e di affidarsi allo scorrere della vita.
Il suo essere fotografa e sceneggiatrice ha influenzato l’impostazione e la struttura dei suoi racconti?
Suppongo che il fatto di aver acquisito una certa padronanza della scrittura attraverso il lavoro può aver giovato anche alla creatività. Quanto alla fotografia, il fatto di riuscire a individuare un’inquadratura di per sé significante anche in senso simbolico, può avermi instradato verso una scrittura che sappia incidere nella realtà ma anche suggerirne le dimensioni nascoste.
Lei è giornalista, poetessa, sceneggiatrice, autrice di racconti e di romanzi. In quale stile e genere di scrittura sente di essere più a suo agio? E perché?
Siccome amo esprimermi in modo sintetico, e non so dilungarmi troppo nelle descrizioni, sicuramente la poesia e i racconti sono il mio registro più congeniale. D’altro canto nel giornalismo ho potuto esplicare la mia curiosità verso le persone, intervistando molti personaggi di rilievo, ma anche indagando alcuni fenomeni del costume con una serie di inchieste, corredando il tutto con delle fotografie.
Non dobbiamo dimenticare anche la sua fotografia: quanto è importante il rapporto tra immagine e parola?
Per me sono due cose strettamente collegate, infatti nelle mie mostre fotografiche i titoli non erano meno significativi delle immagini, e anche un mio libro di poesie è “illustrato” dalle mie foto. Per sfruttare ancora meglio questa connessione, per me naturale, nel 2006 ho realizzato una serie di video poesie dal titolo Inclusioni, che è stata proiettata in alcune rassegne nazionali.
Quali sono gli Autori e le opere che hanno influenzato e formato il suo essere scrittrice e lettrice?
Penso che le influenze siano perlopiù inconsapevoli, per cui sta alla critica individuarle. Posso descrivere un po’ a grandi linee il mio percorso di lettrice: da giovane amavo molto Proust, Dostoevskij (identificazione con L’idiota) e naturalmente Svevo. Fra gli italiani mi hanno probabilmente ispirato Buzzati, Calvino e Giuseppe Pontiggia. Più recentemente ho scoperto i racconti di Elizabeth Strout e di Anthony Doerr assieme al piccolo gioiello di Silvio D’Arzo (Casa d’altri); altri autori che ho trovato interessanti possono essere Colum McCann, Romain Gary e David Foster Wallace.
Quali sono i suoi prossimi impegni professionali ed editoriali?
Come giornalista collaboro a un blog per l’Aris, un’associazione di volontariato che vuol promuovere l’invecchiamento attivo. Riguardo alla mia produzione ho invece già pronta una nuova silloge di poesie che devo rivedere; poi inizierò la ricerca di un editore.
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