Le società neolitiche del Vicino Oriente concepirono strategie di costruzione delle identità sociali capaci di prevenire lo sviluppo delle disuguaglianze cui furono esposte dalla crescente diversificazione delle attività quotidiane e dalla possibilità di stoccare le eccedenze alimentari.
Questa la tesi espressa nel saggio Identità preistoriche, pubblicato dal filosofo Stefano Radaelli per Oltre edizioni (pp. 272, euro 24,50). L’idea di fondo, che elabora le prospettive aperte da Graeber e Wengrow in L’alba di tutto, ricostruisce l’autodefinirsi di Homo sapiens a partire dal suo rapporto con la sfera materiale. Cosa fu, allora, la Rivoluzione neolitica nel Vicino Oriente? Di certo, non venne con una cesura netta. Si trattò invece di un lungo e irregolare cabotaggio che condusse intorno al 6400 a.C. alla standardizzazione dello sfruttamento agricolo e dell’allevamento e alla comparsa su un ampio territorio di nuclei insediativi con una popolazione in progressivo aumento. Ma non fu la catastrofe, come fantasticato da Rousseau e recentemente da Harari, per i quali l’allontanamento da un presunto Eden coinciderebbe con l’avvento della civiltà, associato all’esperienza di un conflitto primigenio da scontare in eterno, tra epidemie e guerre scatenate dalla sedentarietà e dalla sottomissione ai cereali.
L’arroccamento su proprietà privata e gerarchia, e con esse l’accettazione delle classi sociali, degli stati autoritari e del patriarcato, non fu una contromisura obbligata da una brutalità costitutiva. L’archeologia – scrive Radaelli – lo dimostra: «anche società che adottano economie di produzione, che sperimentano dinamiche demografiche espansive e che producono una complessa cultura materiale possono esistere per periodi molto lunghi senza per forza dare origine a istituzioni politiche oppressive». E il confronto con le società preistoriche lo insegna: le alternative esistono; una maggiore giustizia sociale è perseguibile anche quando le collettività umane non sono più piccole e semplici; la felicità non è solo prerogativa del buon selvaggio degli illuministi.
I giganteschi avvoltoi dipinti sulle pareti di Çatalhöyük, nel settimo millennio, incombono su corpi umani privi di testa per simboleggiare la natura matrigna della morte e delle stagioni. E basta. Senza umiliazione. Nella stele sumerica degli avvoltoi, risalente al 2500 a.C., identici rapaci calpestano sì teste umane, ma ormai sono sicari dell’umana armata del re Eannatum di Lagash. Nel frattempo, in quei quattro millenni, le cose non accaddero però allo scopo di affermare autocrazia e alienazione, come se il tramonto della preistoria fosse già scritto e se il progresso fosse scorsoio per teleologica definizione. Nel frattempo, avremmo invece osservato una sbalorditiva creatività sociale. Dovremmo riscoprirla, studiando Gerico e Göbekli Tepe, i campi-base gravettiani e gli insediamenti natufiani.