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Diario della Grande Guerra (9 dicembre 1917 - 6 giugno 1918)
 di venerd 27 febbraio 2015
tn_dospassos.jpg

Leggere una grande guerra #12

"Leggere una grande guerra" intende essere il breve spazio in cui segnalo dei libri sulla Prima guerra mondiale. Il quinquennio 2014-18 coincide con un lungo periodo di celebrazioni, commemorazioni ed eventi a livello internazionale. Segnalare semplicemente dei titoli di libri, brevi o meno brevi, passati o attuali, reperibili o non reperibili, italiani o stranieri, può essere un buon antidoto contro le fanfare e i tromboni che stanno pericolosamente giungendo un po' da ogni parte. Le segnalazioni saranno sintetiche, poco più di una scheda bibliografica. (In coordinamento con World War I Bridges).

Chi ha letto l'acclamato Stoner di John Williams ha avuto una chiara percezione di quel che è stato l'impatto della "guerra in Europa", già a partire dall'invasione tedesca del Belgio nel 1914, per le generazioni più inquiete di giovani americani. Hemingway falsificò l'anno di nascita pur di navigare verso l'Europa, finire a Schio prima e a Fossalta di Piave poi a distribuire cioccolata e altri generi di conforto alle prime linee (“I am a boy of the Lower Piave… I’m an old Veneto’s fanatic and I’ll will leave my heart here” scriverà in una lettera a Bernard Berenson, trent'anni dopo la fine della guerra). Molti altri giovani scrittori che avremmo conosciuto poi partirono (Malcolm Cowley, E.E. Cummings, Sidney Fairbanks, Julien Green i nomi che forse ritornano più spesso) e Harvard fu uno dei centri di maggior propulsione. Tra questi nomi di giovani imbarcati per l'Europa registriamo anche John Dos Passos, che dopo il tempo trascorso prima sul fronte francese e quindi al cospetto del Monte Grappa, tra le province di Vicenza e Treviso, scrisse ben due romanzi incentrati su quegli anni di guerra, One Man's Initiation del 1917 (proposto in traduzione italiana da Piano B edizioni col titolo L'iniziazione di un uomo) e il successivo Three Soldiers del 1921 (che invece manca in lingua italiana da troppi anni). Come lettura importante, alternativa e non "ancillare" di quel periodo di formazione dello scrittore americano dallo strano cognome portoghese, possiamo ora leggere "L'allegra montagna di menzogne". Diario della Grande Guerra (9 dicembre 1917 - 6 giugno 1918) pubblicato da Gammarò, sigla editoriale di Oltre edizioni, per l'ottima cura e traduzione di Silvia Guslandi (pp. 138, euro 16). La traduttrice ha scritto un'utile prefazione al volume, cogliendo gli intrecci fra i membri di quella generazione di scrittori che si affacciò sulla guerra grande d'Europa e avvicinando le loro vicende personali alle più significative coordinate culturali e politiche del tempo. 

Addentrarsi nei giorni e nei luoghi di Dos Passos in queste pagine diaristiche, vuol dire spostarsi da Parigi attraverso un'assolata valle del Rodano, giungere in Liguria, transitare per un bellissimo notturno genovese e l'uggioso stazionamento di Milano, fino all'arrivo in Veneto, a Dolo, la riviera del Brenta, Mestre e Venezia, e quindi il quadrilatero dato da Bassano e Borso del Grappa, Romano d'Ezzelino e Asolo (un po' la sua zona di guerra, se vogliamo). Significa anche inseguirlo nei giorni di licenza in un'irresistibile parentesi bolognese e poi giù, lungo l'Appennino (e Roma, Napoli, Pompei e il ritornare "come piccioni"). Dos Passos registra i colori avidamente, quelli delle case e delle imposte soprattutto, traccia le geometrie della pianura veneta, descrive i centri cittadini e l'intervallarsi di tedio e concitazione dei giorni di guerra, fissa sulla pagina volti e momenti, ufficiali e soldati semplici, uomini e anche donne, le copiose e variegate letture che porta a termine. Eppure sembra affiorare nella prosa diaristica, ricca anche di parole imparate dal francese o dall'italiano, una distanza da tutto quello che il giovane chicaghese osserva e percepisce, una distanza che pare già incolmabile: di qui viene il suo saper sorprendentemente galleggiare nel gran mare di balle della guerra e pure un certo piglio antropologico, quando scruta il soldato italiano. 
[leggi l'articolo originale su librobreve.blogspot.it]


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 - venerd 27 febbraio 2015
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Leggere una grande guerra #12

"Leggere una grande guerra" intende essere il breve spazio in cui segnalo dei libri sulla Prima guerra mondiale. Il quinquennio 2014-18 coincide con un lungo periodo di celebrazioni, commemorazioni ed eventi a livello internazionale. Segnalare semplicemente dei titoli di libri, brevi o meno brevi, passati o attuali, reperibili o non reperibili, italiani o stranieri, può essere un buon antidoto contro le fanfare e i tromboni che stanno pericolosamente giungendo un po' da ogni parte. Le segnalazioni saranno sintetiche, poco più di una scheda bibliografica. (In coordinamento con World War I Bridges).

Chi ha letto l'acclamato Stoner di John Williams ha avuto una chiara percezione di quel che è stato l'impatto della "guerra in Europa", già a partire dall'invasione tedesca del Belgio nel 1914, per le generazioni più inquiete di giovani americani. Hemingway falsificò l'anno di nascita pur di navigare verso l'Europa, finire a Schio prima e a Fossalta di Piave poi a distribuire cioccolata e altri generi di conforto alle prime linee (“I am a boy of the Lower Piave… I’m an old Veneto’s fanatic and I’ll will leave my heart here” scriverà in una lettera a Bernard Berenson, trent'anni dopo la fine della guerra). Molti altri giovani scrittori che avremmo conosciuto poi partirono (Malcolm Cowley, E.E. Cummings, Sidney Fairbanks, Julien Green i nomi che forse ritornano più spesso) e Harvard fu uno dei centri di maggior propulsione. Tra questi nomi di giovani imbarcati per l'Europa registriamo anche John Dos Passos, che dopo il tempo trascorso prima sul fronte francese e quindi al cospetto del Monte Grappa, tra le province di Vicenza e Treviso, scrisse ben due romanzi incentrati su quegli anni di guerra, One Man's Initiation del 1917 (proposto in traduzione italiana da Piano B edizioni col titolo L'iniziazione di un uomo) e il successivo Three Soldiers del 1921 (che invece manca in lingua italiana da troppi anni). Come lettura importante, alternativa e non "ancillare" di quel periodo di formazione dello scrittore americano dallo strano cognome portoghese, possiamo ora leggere "L'allegra montagna di menzogne". Diario della Grande Guerra (9 dicembre 1917 - 6 giugno 1918) pubblicato da Gammarò, sigla editoriale di Oltre edizioni, per l'ottima cura e traduzione di Silvia Guslandi (pp. 138, euro 16). La traduttrice ha scritto un'utile prefazione al volume, cogliendo gli intrecci fra i membri di quella generazione di scrittori che si affacciò sulla guerra grande d'Europa e avvicinando le loro vicende personali alle più significative coordinate culturali e politiche del tempo. 

Addentrarsi nei giorni e nei luoghi di Dos Passos in queste pagine diaristiche, vuol dire spostarsi da Parigi attraverso un'assolata valle del Rodano, giungere in Liguria, transitare per un bellissimo notturno genovese e l'uggioso stazionamento di Milano, fino all'arrivo in Veneto, a Dolo, la riviera del Brenta, Mestre e Venezia, e quindi il quadrilatero dato da Bassano e Borso del Grappa, Romano d'Ezzelino e Asolo (un po' la sua zona di guerra, se vogliamo). Significa anche inseguirlo nei giorni di licenza in un'irresistibile parentesi bolognese e poi giù, lungo l'Appennino (e Roma, Napoli, Pompei e il ritornare "come piccioni"). Dos Passos registra i colori avidamente, quelli delle case e delle imposte soprattutto, traccia le geometrie della pianura veneta, descrive i centri cittadini e l'intervallarsi di tedio e concitazione dei giorni di guerra, fissa sulla pagina volti e momenti, ufficiali e soldati semplici, uomini e anche donne, le copiose e variegate letture che porta a termine. Eppure sembra affiorare nella prosa diaristica, ricca anche di parole imparate dal francese o dall'italiano, una distanza da tutto quello che il giovane chicaghese osserva e percepisce, una distanza che pare già incolmabile: di qui viene il suo saper sorprendentemente galleggiare nel gran mare di balle della guerra e pure un certo piglio antropologico, quando scruta il soldato italiano. 
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02/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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