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«Tanto domani mi sveglio». Biografia in controcanto di Bruno Lauzi
Saltinaria.i di martedģ 22 marzo 2016
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di Ilaria Guidantoni

Autografia irregolare e irriverente anche verso l’autore. Frammenti che vanno avanti e indietro nel tempo, seguendo il flusso dei ricordi e regalandoci un mosaico da ricomporre della canzone italiana dietro le quinte, da parte dei cosiddetti amici. Ironico, critico, un testo che smonta le apparenze ma non iroso. Bruno Lauzi vive la vita come una lunga villeggiatura anche se di amarezze ne ha avute molte. Poco personaggio, artista non di sinistra, dalla vita regolare, anti-eroe del mondo della musica e per questo interessante: una voce che stacca dal coro.

Il libro scritto da Bruno Lauzi, cantautore morto nel 2006, con introduzione di Francesco De Nicola, non è un’autobiografia nel senso stretto del termine, neppure una lettera aperta. Sembra piuttosto un diario, lasciato al libero flusso della memoria. Ne risulta un collage di bozzetti e ritratti a tutto tondo, aneddoti e retroscena piccanti e patetici, piccole e grandi miserie individuali, eventi drammatici, in particolare la vicenda giudiziaria assurda e per questo credibile agli occhi dei magistrati Tortora e il suicidio dell’amico Luigi Tenco, al quale fu legato ma che non perdonò. Per un uomo che amava la vita ritenendola sacra, anche se non si esprime mai così chiaramente, il suicidio non è ammissibile. E ancora, il libro raccoglie avvenimenti politici, in particolare la "discesa in campo" di Berlusconi vista da un'angolatura privilegiata e originalissima, al quale in certo modo fu vicino. Bruno Lauzi infatti si racconta come artista non di sinistra, un fatto giudicato quasi un ossimoro, soprattutto negli anni Settanta e il motivo è semplice secondo il nostro autore: la borghesia ha sempre avversato gli artisti, con un pregiudizio etico e sociale insieme; dunque gli artisti non sono stati da meno. Il testo contiene giudizi critici acuti e impietosi, rancori e affetti pubblici e privati si intrecciano nel racconto che Lauzi dipana sul filo della memoria e di una indomita passione etica.Ne emerge un'immagine nitida, anche se non sempre edificante, del mondo della musica e dello spettacolo - non solo italiani - dell'ultimo cinquantennio: ove il talento e talvolta la genialità degli artisti coesistono con limiti umani che lo sguardo di Lauzi - di volta in volta severo, dolente, feroce - mette a nudo e denuncia: senza fare pettegolezzi, ma senza risparmiare nessuno, tantomeno se stesso ed è questo forse il maggior merito. Lauzi si racconta come cantante prima che cantautore, smitizzando un po’ questa figura di artista avvolto da un’aureola di mistero e gloria e soprattutto come traduttore, mestiere del quale è andato molto fiero. Il tono è pungente ma non arrabbiato, talora piuttosto amareggiato per i tradimenti anche di persone insospettabili.La parte dell’infanzia e dell’adolescenza, della vita familiare e delle prime passioni per il jazz e i film musicali è quella più riconducibile ad una classica biografia che racconta gli anni della formazione e introduce alla cosiddetta “Scuola genovese” che per molti non esiste. In qualche modo Bruno Lauzi non ha una classica vita d’artista ma una famiglia premurosa con la quale si trasferisce a Milano e a Varese per un periodo, un padre che pur non approvando – o meglio diffidando della carriera musicale, in un periodo nel quale suonare uno strumento a fiato equivaleva ad un atto sovversivo – per educazione lo ha sempre rispettato. I suoi sono genitori con grande apertura mentale, sposati nel 1932 a Tripoli senza dire nulla a nessuno, il padre cristiano e la mamma ebrea (come gli rivelerà con pudore e prudenza con l’intenzione di proteggerlo: mai a nessuno avrebbe dovuto rivelare l’identità della mamma). Lauzi compie studi regolari e si sposa conducendo una vita tranquilla al riparo dalle luci della ribalta, così discreto che dichiara di non raccontare gli amori perché per narrare il proprio passato sentimentale bisognerebbe non avere famiglia. 
Di sé dice che “sono un borghese liberale, cresciuto al di fuori dello stato di necessità che spinge all’invidia sociale e di conseguenza all’estremismo…”.

La vita è bella per Lauzi che cita Benigni anche se ha punti oscuri e momenti dolorosi e il successo spesso non fa rima con valore. Il libro racconta soprattutto i compagni di viaggio e il protagonista si racconta attraverso le relazioni con gli altri a partire dal suo compagno di banco Luigi Tenco con il quale condivide la passione per i film musicali e il jazz ma al quale, come chi prova un affetto autentico, non risparmia critiche per canzoni in fondo banali ma molto amate e la sua incoerenza di sinistra. Tra i tanti ci sono Enzo Jannacci che gli tira un brutto scherzo; Gino Paoli “autoreferenziale come un monarca assoluto”; Paolo Conte, che poi perde di vista e che volentieri si fa usare dalla sinistra con i suoi manifesti. Per Lauzi è un genio al quale ad un certo punto l’ispirazione muore ed è l’inizio di una fortunata carriera concertistica. E ancora Sergio Endrigo, “il nostro Brel” con i suoi attacchi al perbenismo borghese; Sergio Bernardini, patron della Bussola di Focette, una delle persone che giudica più spregevoli; Lucio Battisti e Mogol che si diverte a mettere a nudo, fino a Vittorio Sgarbi del quale prende in giro il narcisismo quasi paradossale e Alberto Sordi che sogna di incontrare per potergli dire che è stato il migliore interprete della mediocrità dell’italiano medio.
Accanto agli uomini ci sono i luoghi, a partire dalla sua Genova e il rapporto viscerale con il mare; Milano e i luoghi di ritrovo dal Derby, al ristorante Santa Lucia o al Piccolo Teatro, regno di Strelher e della sinistra dal quale gli arriva un invito “troppo tardi” quando è il primo nella hit parade e per questo rifiuta; e Roma.
Sullo sfondo l’Italia dagli anni Cinquanta fino ai primi anni Novanta con l’accento sui decenni centrali e quegli anni Settanta nel segno dell’estremismo e dell’intolleranza reciproca, nel riconoscimento ottenuto solo con l’impegno sociale dichiarato, un po’ esibito e che doveva essere facilmente visualizzabile anche per i più distratti. 
Infine il titolo che arriva nell’ultima parte quasi per caso come un modo di dire. Nessun amarcord né intento celebrativo, forse non c’è neppure un’idea di ricostruzione storica o forse di narrazione, più semplicemente un divertissement.

Tanto domani mi sveglio
Bruno Lauzi 
Gammarò, Sestri Levante 2006

Articolo di Ilaria Guidantoni

 

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Autografia irregolare e irriverente anche verso l’autore. Frammenti che vanno avanti e indietro nel tempo, seguendo il flusso dei ricordi e regalandoci un mosaico da ricomporre della canzone italiana dietro le quinte, da parte dei cosiddetti amici. Ironico, critico, un testo che smonta le apparenze ma non iroso. Bruno Lauzi vive la vita come una lunga villeggiatura anche se di amarezze ne ha avute molte. Poco personaggio, artista non di sinistra, dalla vita regolare, anti-eroe del mondo della musica e per questo interessante: una voce che stacca dal coro.

Il libro scritto da Bruno Lauzi, cantautore morto nel 2006, con introduzione di Francesco De Nicola, non è un’autobiografia nel senso stretto del termine, neppure una lettera aperta. Sembra piuttosto un diario, lasciato al libero flusso della memoria. Ne risulta un collage di bozzetti e ritratti a tutto tondo, aneddoti e retroscena piccanti e patetici, piccole e grandi miserie individuali, eventi drammatici, in particolare la vicenda giudiziaria assurda e per questo credibile agli occhi dei magistrati Tortora e il suicidio dell’amico Luigi Tenco, al quale fu legato ma che non perdonò. Per un uomo che amava la vita ritenendola sacra, anche se non si esprime mai così chiaramente, il suicidio non è ammissibile. E ancora, il libro raccoglie avvenimenti politici, in particolare la "discesa in campo" di Berlusconi vista da un'angolatura privilegiata e originalissima, al quale in certo modo fu vicino. Bruno Lauzi infatti si racconta come artista non di sinistra, un fatto giudicato quasi un ossimoro, soprattutto negli anni Settanta e il motivo è semplice secondo il nostro autore: la borghesia ha sempre avversato gli artisti, con un pregiudizio etico e sociale insieme; dunque gli artisti non sono stati da meno. Il testo contiene giudizi critici acuti e impietosi, rancori e affetti pubblici e privati si intrecciano nel racconto che Lauzi dipana sul filo della memoria e di una indomita passione etica.Ne emerge un'immagine nitida, anche se non sempre edificante, del mondo della musica e dello spettacolo - non solo italiani - dell'ultimo cinquantennio: ove il talento e talvolta la genialità degli artisti coesistono con limiti umani che lo sguardo di Lauzi - di volta in volta severo, dolente, feroce - mette a nudo e denuncia: senza fare pettegolezzi, ma senza risparmiare nessuno, tantomeno se stesso ed è questo forse il maggior merito. Lauzi si racconta come cantante prima che cantautore, smitizzando un po’ questa figura di artista avvolto da un’aureola di mistero e gloria e soprattutto come traduttore, mestiere del quale è andato molto fiero. Il tono è pungente ma non arrabbiato, talora piuttosto amareggiato per i tradimenti anche di persone insospettabili.La parte dell’infanzia e dell’adolescenza, della vita familiare e delle prime passioni per il jazz e i film musicali è quella più riconducibile ad una classica biografia che racconta gli anni della formazione e introduce alla cosiddetta “Scuola genovese” che per molti non esiste. In qualche modo Bruno Lauzi non ha una classica vita d’artista ma una famiglia premurosa con la quale si trasferisce a Milano e a Varese per un periodo, un padre che pur non approvando – o meglio diffidando della carriera musicale, in un periodo nel quale suonare uno strumento a fiato equivaleva ad un atto sovversivo – per educazione lo ha sempre rispettato. I suoi sono genitori con grande apertura mentale, sposati nel 1932 a Tripoli senza dire nulla a nessuno, il padre cristiano e la mamma ebrea (come gli rivelerà con pudore e prudenza con l’intenzione di proteggerlo: mai a nessuno avrebbe dovuto rivelare l’identità della mamma). Lauzi compie studi regolari e si sposa conducendo una vita tranquilla al riparo dalle luci della ribalta, così discreto che dichiara di non raccontare gli amori perché per narrare il proprio passato sentimentale bisognerebbe non avere famiglia. 
Di sé dice che “sono un borghese liberale, cresciuto al di fuori dello stato di necessità che spinge all’invidia sociale e di conseguenza all’estremismo…”.

La vita è bella per Lauzi che cita Benigni anche se ha punti oscuri e momenti dolorosi e il successo spesso non fa rima con valore. Il libro racconta soprattutto i compagni di viaggio e il protagonista si racconta attraverso le relazioni con gli altri a partire dal suo compagno di banco Luigi Tenco con il quale condivide la passione per i film musicali e il jazz ma al quale, come chi prova un affetto autentico, non risparmia critiche per canzoni in fondo banali ma molto amate e la sua incoerenza di sinistra. Tra i tanti ci sono Enzo Jannacci che gli tira un brutto scherzo; Gino Paoli “autoreferenziale come un monarca assoluto”; Paolo Conte, che poi perde di vista e che volentieri si fa usare dalla sinistra con i suoi manifesti. Per Lauzi è un genio al quale ad un certo punto l’ispirazione muore ed è l’inizio di una fortunata carriera concertistica. E ancora Sergio Endrigo, “il nostro Brel” con i suoi attacchi al perbenismo borghese; Sergio Bernardini, patron della Bussola di Focette, una delle persone che giudica più spregevoli; Lucio Battisti e Mogol che si diverte a mettere a nudo, fino a Vittorio Sgarbi del quale prende in giro il narcisismo quasi paradossale e Alberto Sordi che sogna di incontrare per potergli dire che è stato il migliore interprete della mediocrità dell’italiano medio.
Accanto agli uomini ci sono i luoghi, a partire dalla sua Genova e il rapporto viscerale con il mare; Milano e i luoghi di ritrovo dal Derby, al ristorante Santa Lucia o al Piccolo Teatro, regno di Strelher e della sinistra dal quale gli arriva un invito “troppo tardi” quando è il primo nella hit parade e per questo rifiuta; e Roma.
Sullo sfondo l’Italia dagli anni Cinquanta fino ai primi anni Novanta con l’accento sui decenni centrali e quegli anni Settanta nel segno dell’estremismo e dell’intolleranza reciproca, nel riconoscimento ottenuto solo con l’impegno sociale dichiarato, un po’ esibito e che doveva essere facilmente visualizzabile anche per i più distratti. 
Infine il titolo che arriva nell’ultima parte quasi per caso come un modo di dire. Nessun amarcord né intento celebrativo, forse non c’è neppure un’idea di ricostruzione storica o forse di narrazione, più semplicemente un divertissement.

Tanto domani mi sveglio
Bruno Lauzi 
Gammarò, Sestri Levante 2006

Articolo di Ilaria Guidantoni

 

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OGT newspaper
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02/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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