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Censurando Bulgakov le impiegate piangevano
Il Venerd di Repubblica di sabato 25 giugno 2016


di Giuseppe Marcenaro
[leggi l'articolo originale su IL VENERDÌ. 24 GIUGNO 2016]

APRITE QUEGLI ARMADI
CENSURANDO BULGAKOV LE IMPIEGATE PIANGEVANO

IL VENERDÌ . 24 GIUGNO 2016

Lo racconta la leggenda. Ma l'autore di il maestro e Margherita incappò più volte nei divieti sovietici. E solo ora quella storia riemerge dagli archivi di un palazzo chiamato Lubjanka

Si chiama Vitalij Aleksandrovic Sentalinskij. È nato nel 1938 e ha scritto tre libri Schiavi della libertà, Delitto senza castigo, Delazione contro Socrate ancora inediti in Italia, a parte uno scampolo pubblicato da Garzanti nel T 11 1994 con il titolo I manoscritti non bruciano, in cui evoca la propria ostinata vocazione a resuscitare la memoria degli scrittori che nell'Unione Sovietica vennero spiati, vessati, interrogati, fatti sparire. In gioventù, nell'isola di Wrangel, tagliata dal 180° parallelo, Oceano Artico, Sentalinskij aveva monitorato l'orso bianco, seguendone vicende e caratteri. Poi, abbandonato il voyeurismo naturalistico, si voltò alla letteratura: racconti sul mondo gelato dell'Artico, poesie e soprattutto la narrazione autobiografica del garbuglio vissuto durante il disgelo dell'Urss. Rassicurato dai tempi utopici della Perestrojka, era riuscito, tra reticenze e inganni, a far riesumare gli archivi della Lubjanka dov'erano ancora conservate in un rigido ascondimento tutte le nefandezze perpetrate contro gli intellettuali al tempo dell'Uomo d'Acciaio. Aveva affrontato il monolite, il sinistro mito dell'invitta Lubjanka, il palazzone edificato nel 1898 nel centro di Mosca, palladiana e neobarocca sede della Compagnia di Assicurazioni Rossija dai celebrati eleganti e sonori parquet, il verde chiaro delle pareti. Prima. Poi, dal 1918, sede della Ceka, i servizi segreti sovietici. Sulla facciata l'orologio a scandire i tempi.
La storia di Sentalinskij è raccontata oggi con un libro-groviglio Luciana Vagge Saccorotti, II Maestro svelato, Bulgakov riemerge dalla Lubjanka (Gammarò, pp.170, euro 18)-dove si apprende, coinvolti da un malessere post ubriacatura, come si svolse la riesumazione delle carte secretate e i non facili rapporti con la nuova burocrazia, ancora molto burokratja, nonostante i tempi mutati. In apparenza. C'era chi voleva non risvegliare gli scheletri negli armadi: i fascicoli di testimonianze, spiate, interrogatori di gente come Babel, Bulgakov, Florenskij, Pil'niak, Mandel'stam, Platonov, Kljuev, Gor'kij, il marito e la figlia di Marina Cvetaeva, Gumilev, Kataev... Un martirologio di «nemici del popolo, spie, sabotatori, controrivoluzionari», com'erano indicati gli intellettuali dissidenti A SINISTRA, MICHAIL BULGAKOV MENTRE LEGGE IN PUBBLICO. QUI IN ALTO, VITAUJ ALEKSANDROVIC SENTALINSKIJ E, ACCANTO, LA LUBJANKA, IL PALAZZO DI MOSCA SEDE DEI SERVIZI SEGRETI SOVIETICI PRIMA E RUSSI POI. IN BASSO, IL MAESTRO SVELATO DI LUCIANA VAGGE SACCOROTTI dell'età staliniana. Carte su cui, per mezzo di falsificazioni, distorsioni, manipolazioni, camuffamenti, terroristiche imboscate, si era andato edificando l'ineffabile edificio del potere sovietico. Trovati i fascicoli, Sentalinskij scoprì il sistema con cui i funzionari della Lubjanka avevavo inventato il corpo del reato per processare gli intellettuali: autografi con cui gli stessi sottoposti agli interrogatori erano costretti a stilare da se medesimi i verbali di autoaccusa.
Con l'andamento di una inestricabile, irresolvibile sciarada, con Il Maestro svelato, per quanto possibile, oltre i nefasti Anni Trenta, si dipana un poco il graticcio dei tempi, quando in Unione Sovietica, alla fine degli anni Ottanta del Novecento, si cominciò a profilare l'ipotesi di una ricostruzione e una lettura più trasparente della vita pubblica in Russia. E fu in quella schiarita che Sentalinskij si impegnò a ridare la parola agli scrittori seppelliti nelle poliziesche cantine. Sembrava tutto cambiato. Non completamente. Fu sconsigliato. «Non ti lasceranno mai entrare nei loro archivi». L'uomo che aveva avuto familiarità con gli orsi bianchi non desistette. Nell'epoca della Glasnost e della Perestrojka il sistema si perpetrava. Le mentalità e le paure sono dure a svanire. Sentalinskij impiegò un anno per far capire alla nuova burocrazia che per rinascere bisognava salvaguardare la memoria degli scrittori vittime della repressione. Incombeva ancora la nefasta ala del Kgb.
Sentalinskij riuscì nell'impresa assolutamente incredibile pur tra le proteste, le insinuazioni, le minacce di nostalgici delatori. Antichi aguzzini.
Quando finalmente riuscì a entrare nel sinistro edificio si sentì dire dal colonnello Krajuskin, della direzione degli Archivi di Stato: «Lei è il primo scrittore a entrare volontariamente alla Lubjanka». Gli indicò un grosso fascicolo posato su un tavolo: erano i saggi, gli appunti e i Diari di Bulkakov, sequestrati il 7 maggio 1926 durante una perquisizione in casa dello scrittore. Bulgakov aveva iniziato una sorda battaglia per rientrare in possesso dei Diari, il proprio laboratorio artistico. Gli erano stati restituiti dopo tre anni, ma la polizia ne aveva fatto una copia. Proprio quella indicata a Sentalinskij dal colonnello Krajuskin. Stava assieme a un pacchetto di relazioni: «23 maggio 1935. Bulgakov soffre di un disturbo nervoso. Dice di non poter andare da solo per strada. Viene accompagnato persino di giorno. Lavora molto... Sta terminando una pièce...». Certi funzionari, nelle relazioni depositate negli archivi della Lubjanka si vantavano dei consigli dati da loro medesimi allo scrittore: «Bulgakov, non scrivere più niente, ma occupati d'altre cose. Ricordati della tua professione di medico e cura la gente, e noi ti lasceremo tranquillo...».
Intanto, Michail Afanas'evic Bulgakov stava scrivendo Il Maestro e Margherita, «un miracolo che ognuno deve salutare con commozione», aveva detto Eugenio Montale quando il romanzo venne pubblicato in Italia nel 1967. In Russia Il Maestro e Margherita sarebbe apparso nella sua completezza soltanto nel 1973. Mutilato dalla censura era uscito a puntate tra il 1966 e il 1967 sulla rivista Moskva. Postumo. Bulgakov era morto nel 1940. Il testo autografo era rimasto in un cassetto per oltre un quarto di secolo. Si diffuse allora la leggenda che le dattilografe della rivista Moskva piangessero di commozione mentre ricopiavano quel capolavoro letterario falcidiato da una nuova generazione di burocrati.
Con la scrittura Bulgakov seminava dubbi in un sistema di tragiche certezze. Era stato una vittima perché aveva compreso perfettamente cosa stesse succedendo nella Civiltà dei Soviet. Vi è poi la surreale storia della telefonata che gli fece Stalin nei giorni del suicidio di Majakovskij. L'incredibile colloquio, via filo, nelle intenzioni del capo, aveva forse il frné di convincere la vittima destinata al sacrificio a mutare carattere. Sarebbe stata accolta nell'empireo dei geni onorati dal Cremlino. L'altra faccia della pena di morte. Il tradimento di se stessi.
Poi, nel 1936, forse...tutto sommato, Bulgakov doveva aver pensato che... E si era dedicato alla stesura di una pièce, Batum, che avrebbe portato sulla scena le gesta del giovane rivoluzionario Stalin. Bulgakov era rientrato nei ranghi? Accettato il sistema? Quale ricompensa avrebbe potuto far rappresentare finalmente un suo testo nell'ufficialità del Teatro dell'Arte. Una forte tentazione. L'opportunistica pièce, implicata nei supersospettosi grovigli burocratico-estetici, fu invece vietata irrevocabilmente.
La vera ragione? La questione è ancora aperta. Intanto Bulgakov continuava a scrivere Il Maestro e Margherita, pagine della vita sovietica negli anni Trenta, pagine dalla prospettiva caleidoscopica, tragiche e drammatiche, liriche e grottesche, comiche e satiriche. La storia di un anonimo Maestro emarginato dalla cultura ufficiale che, rinchiuso in un ospedale psichiatrico, perde la sua Margherita... Poi a Mosca appare il Diavolo, scambiato per spia, per professore di magia nera, per guitto di varietà... Il Diavolo compie ogni sorta di sortilegi scompigliando le fragili categorie del razionale e del positivo... La storia è sublimemente oracolare. Succede di tutto... Gli uomini catturati da un grande ragnatelo di racconti dentro a racconti... La polizia cerca di far luce sugli strani fenomeni verificati...
Le purghe degli anni Trenta? Non resta che auspicare la traduzione della trilogia di Sentalìnskij con dispiegate tutte le carte della Lubjanka per sperare di capire, magari naufragando nell'orrore. Passabilmente svelando il profilo del Male. Giuseppe Marcenaro

[leggi l'articolo originale su IL VENERDÌ. 24 GIUGNO 2016]


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CENSURANDO BULGAKOV LE IMPIEGATE PIANGEVANO

IL VENERDÌ . 24 GIUGNO 2016

Lo racconta la leggenda. Ma l'autore di il maestro e Margherita incappò più volte nei divieti sovietici. E solo ora quella storia riemerge dagli archivi di un palazzo chiamato Lubjanka

Si chiama Vitalij Aleksandrovic Sentalinskij. È nato nel 1938 e ha scritto tre libri Schiavi della libertà, Delitto senza castigo, Delazione contro Socrate ancora inediti in Italia, a parte uno scampolo pubblicato da Garzanti nel T 11 1994 con il titolo I manoscritti non bruciano, in cui evoca la propria ostinata vocazione a resuscitare la memoria degli scrittori che nell'Unione Sovietica vennero spiati, vessati, interrogati, fatti sparire. In gioventù, nell'isola di Wrangel, tagliata dal 180° parallelo, Oceano Artico, Sentalinskij aveva monitorato l'orso bianco, seguendone vicende e caratteri. Poi, abbandonato il voyeurismo naturalistico, si voltò alla letteratura: racconti sul mondo gelato dell'Artico, poesie e soprattutto la narrazione autobiografica del garbuglio vissuto durante il disgelo dell'Urss. Rassicurato dai tempi utopici della Perestrojka, era riuscito, tra reticenze e inganni, a far riesumare gli archivi della Lubjanka dov'erano ancora conservate in un rigido ascondimento tutte le nefandezze perpetrate contro gli intellettuali al tempo dell'Uomo d'Acciaio. Aveva affrontato il monolite, il sinistro mito dell'invitta Lubjanka, il palazzone edificato nel 1898 nel centro di Mosca, palladiana e neobarocca sede della Compagnia di Assicurazioni Rossija dai celebrati eleganti e sonori parquet, il verde chiaro delle pareti. Prima. Poi, dal 1918, sede della Ceka, i servizi segreti sovietici. Sulla facciata l'orologio a scandire i tempi.
La storia di Sentalinskij è raccontata oggi con un libro-groviglio Luciana Vagge Saccorotti, II Maestro svelato, Bulgakov riemerge dalla Lubjanka (Gammarò, pp.170, euro 18)-dove si apprende, coinvolti da un malessere post ubriacatura, come si svolse la riesumazione delle carte secretate e i non facili rapporti con la nuova burocrazia, ancora molto burokratja, nonostante i tempi mutati. In apparenza. C'era chi voleva non risvegliare gli scheletri negli armadi: i fascicoli di testimonianze, spiate, interrogatori di gente come Babel, Bulgakov, Florenskij, Pil'niak, Mandel'stam, Platonov, Kljuev, Gor'kij, il marito e la figlia di Marina Cvetaeva, Gumilev, Kataev... Un martirologio di «nemici del popolo, spie, sabotatori, controrivoluzionari», com'erano indicati gli intellettuali dissidenti A SINISTRA, MICHAIL BULGAKOV MENTRE LEGGE IN PUBBLICO. QUI IN ALTO, VITAUJ ALEKSANDROVIC SENTALINSKIJ E, ACCANTO, LA LUBJANKA, IL PALAZZO DI MOSCA SEDE DEI SERVIZI SEGRETI SOVIETICI PRIMA E RUSSI POI. IN BASSO, IL MAESTRO SVELATO DI LUCIANA VAGGE SACCOROTTI dell'età staliniana. Carte su cui, per mezzo di falsificazioni, distorsioni, manipolazioni, camuffamenti, terroristiche imboscate, si era andato edificando l'ineffabile edificio del potere sovietico. Trovati i fascicoli, Sentalinskij scoprì il sistema con cui i funzionari della Lubjanka avevavo inventato il corpo del reato per processare gli intellettuali: autografi con cui gli stessi sottoposti agli interrogatori erano costretti a stilare da se medesimi i verbali di autoaccusa.
Con l'andamento di una inestricabile, irresolvibile sciarada, con Il Maestro svelato, per quanto possibile, oltre i nefasti Anni Trenta, si dipana un poco il graticcio dei tempi, quando in Unione Sovietica, alla fine degli anni Ottanta del Novecento, si cominciò a profilare l'ipotesi di una ricostruzione e una lettura più trasparente della vita pubblica in Russia. E fu in quella schiarita che Sentalinskij si impegnò a ridare la parola agli scrittori seppelliti nelle poliziesche cantine. Sembrava tutto cambiato. Non completamente. Fu sconsigliato. «Non ti lasceranno mai entrare nei loro archivi». L'uomo che aveva avuto familiarità con gli orsi bianchi non desistette. Nell'epoca della Glasnost e della Perestrojka il sistema si perpetrava. Le mentalità e le paure sono dure a svanire. Sentalinskij impiegò un anno per far capire alla nuova burocrazia che per rinascere bisognava salvaguardare la memoria degli scrittori vittime della repressione. Incombeva ancora la nefasta ala del Kgb.
Sentalinskij riuscì nell'impresa assolutamente incredibile pur tra le proteste, le insinuazioni, le minacce di nostalgici delatori. Antichi aguzzini.
Quando finalmente riuscì a entrare nel sinistro edificio si sentì dire dal colonnello Krajuskin, della direzione degli Archivi di Stato: «Lei è il primo scrittore a entrare volontariamente alla Lubjanka». Gli indicò un grosso fascicolo posato su un tavolo: erano i saggi, gli appunti e i Diari di Bulkakov, sequestrati il 7 maggio 1926 durante una perquisizione in casa dello scrittore. Bulgakov aveva iniziato una sorda battaglia per rientrare in possesso dei Diari, il proprio laboratorio artistico. Gli erano stati restituiti dopo tre anni, ma la polizia ne aveva fatto una copia. Proprio quella indicata a Sentalinskij dal colonnello Krajuskin. Stava assieme a un pacchetto di relazioni: «23 maggio 1935. Bulgakov soffre di un disturbo nervoso. Dice di non poter andare da solo per strada. Viene accompagnato persino di giorno. Lavora molto... Sta terminando una pièce...». Certi funzionari, nelle relazioni depositate negli archivi della Lubjanka si vantavano dei consigli dati da loro medesimi allo scrittore: «Bulgakov, non scrivere più niente, ma occupati d'altre cose. Ricordati della tua professione di medico e cura la gente, e noi ti lasceremo tranquillo...».
Intanto, Michail Afanas'evic Bulgakov stava scrivendo Il Maestro e Margherita, «un miracolo che ognuno deve salutare con commozione», aveva detto Eugenio Montale quando il romanzo venne pubblicato in Italia nel 1967. In Russia Il Maestro e Margherita sarebbe apparso nella sua completezza soltanto nel 1973. Mutilato dalla censura era uscito a puntate tra il 1966 e il 1967 sulla rivista Moskva. Postumo. Bulgakov era morto nel 1940. Il testo autografo era rimasto in un cassetto per oltre un quarto di secolo. Si diffuse allora la leggenda che le dattilografe della rivista Moskva piangessero di commozione mentre ricopiavano quel capolavoro letterario falcidiato da una nuova generazione di burocrati.
Con la scrittura Bulgakov seminava dubbi in un sistema di tragiche certezze. Era stato una vittima perché aveva compreso perfettamente cosa stesse succedendo nella Civiltà dei Soviet. Vi è poi la surreale storia della telefonata che gli fece Stalin nei giorni del suicidio di Majakovskij. L'incredibile colloquio, via filo, nelle intenzioni del capo, aveva forse il frné di convincere la vittima destinata al sacrificio a mutare carattere. Sarebbe stata accolta nell'empireo dei geni onorati dal Cremlino. L'altra faccia della pena di morte. Il tradimento di se stessi.
Poi, nel 1936, forse...tutto sommato, Bulgakov doveva aver pensato che... E si era dedicato alla stesura di una pièce, Batum, che avrebbe portato sulla scena le gesta del giovane rivoluzionario Stalin. Bulgakov era rientrato nei ranghi? Accettato il sistema? Quale ricompensa avrebbe potuto far rappresentare finalmente un suo testo nell'ufficialità del Teatro dell'Arte. Una forte tentazione. L'opportunistica pièce, implicata nei supersospettosi grovigli burocratico-estetici, fu invece vietata irrevocabilmente.
La vera ragione? La questione è ancora aperta. Intanto Bulgakov continuava a scrivere Il Maestro e Margherita, pagine della vita sovietica negli anni Trenta, pagine dalla prospettiva caleidoscopica, tragiche e drammatiche, liriche e grottesche, comiche e satiriche. La storia di un anonimo Maestro emarginato dalla cultura ufficiale che, rinchiuso in un ospedale psichiatrico, perde la sua Margherita... Poi a Mosca appare il Diavolo, scambiato per spia, per professore di magia nera, per guitto di varietà... Il Diavolo compie ogni sorta di sortilegi scompigliando le fragili categorie del razionale e del positivo... La storia è sublimemente oracolare. Succede di tutto... Gli uomini catturati da un grande ragnatelo di racconti dentro a racconti... La polizia cerca di far luce sugli strani fenomeni verificati...
Le purghe degli anni Trenta? Non resta che auspicare la traduzione della trilogia di Sentalìnskij con dispiegate tutte le carte della Lubjanka per sperare di capire, magari naufragando nell'orrore. Passabilmente svelando il profilo del Male. Giuseppe Marcenaro

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02/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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