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Bulgakov riemerge dalla Lubjanka: era materiale da 'conservare eternamente'
Il Giornale di Brescia di mercoled 13 luglio 2016


di Curzia Ferrari
[leggi l'articolo originale su Il Giornale di Brescia]

Una ricerca di Luciana Vagge Saccorotti sull'intellettuale nel mirino del Kgb

Bulgakov riemerge dalla Lubjanka: era materiale da «conservare eternamente»

L'autore di «Il Maestro e Margherita» fu uno degli scrittori più perseguitati del periodo sovietico

Non posso cominciare se non con una frase molto usata, ma pertinente al recente libro della ricercatrice Luciana Vagge Saccorotti, «Il Maestro svelato» (Gammarò edizioni).
«... i manoscritti non bruciano!».
Non sono mai bruciati, infatti, per quante fiamme li abbiano avvolti e inceneriti dal tempo della santa Inquisizione alle furie distruttive delle varie dittature.
La paura della parola ha tecnicamente le radici sulle sabbie mobili, e solo uomini ingenui o ciechi possono sentirsi protetti dalla «distruzione» di un documento d'autore ritenuto avverso.
È il caso di certe carte di Michail Bulgakov (1891-1940) che con «Il Maestro e Margherita» portò Cristo, Satana, Pilato e Giuda nelle mura del Cremlino e che oggi rispuntano dalla polvere della catacombale Lubjanka.
Molte cose non potevano essere dette neppure in parodia, con il negromantico e viscerale sapore di Woland, il novello dottor Faust dalla dialettica spericolata. Vennero gettati al fuoco dossier e testi di interrogatori, i diari, i graffianti affreschi sulla politica della Nep (Novaja ekonomiceskaja p olitika, «nuova politica economica») in «Cuore di Cane», le reprimende del famigerato Jagoda (di poi biasimato da Mikhail Gorbaciov), tutto meno la corrispondenza con Stalin, che non volle mai condannare lo scrittore all'esilio o alla forca.
Grazie allo studioso Vasilij Sentàlinskij e alla moglie Tanja, esperta di letteratura siberiana dei quali la Saccorotti raccoglie le testimonianze scopriamo che i servizi segreti avevano copiato gli appunti sequestrati, le tracce dei libri, ogni documento e perfino le parole «scritte sui polsini».
Sullo «strettamente riservato» c'era la frase «conservare eternamente».
Bulgakov, dagli anni Sessanta tradotto in tutto il mondo, fu uno degli scrittori più «arsi» del periodo sovietico: estroverso e rumoroso, non faceva che creare seccature, chiedeva di continuo la restituzione dei diari, riuscì perfino a contattare il regista Vsevolod Emil'evic Mejerchol'd, che stravolse in un esercizio atletico la sua piece «Le uova fatali», il poliziotto Gendin lo seguiva passo passo e lo considerava suo cliente.

Interrogatori. Gli interrogatori erano frequenti, i verbali si accatastavano, e nel 1928 «si decise di passare all'azione».
Da quel periodo, per alcuni anni, un'ondata di persecuzioni si riversò sulla città. Andrei Sobol' si uccise in pubblico, su una panchina di viale Tver.
Bulgakov, dopo aver promesso di correggere i suoi vecchi manoscritti, piombò nei tormenti e cadde malato.
Nel 1930 dopo aver bruciato egli stesso parte de «Il Maestro e Margherita» scrisse una memorabile lettera al Governo Sovietico.
Di poi, povero in canna, vendette anche gli occhiali.

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Il Giornale di Brescia - mercoled 13 luglio 2016


di Curzia Ferrari
[leggi l'articolo originale su Il Giornale di Brescia]

Una ricerca di Luciana Vagge Saccorotti sull'intellettuale nel mirino del Kgb

Bulgakov riemerge dalla Lubjanka: era materiale da «conservare eternamente»

L'autore di «Il Maestro e Margherita» fu uno degli scrittori più perseguitati del periodo sovietico

Non posso cominciare se non con una frase molto usata, ma pertinente al recente libro della ricercatrice Luciana Vagge Saccorotti, «Il Maestro svelato» (Gammarò edizioni).
«... i manoscritti non bruciano!».
Non sono mai bruciati, infatti, per quante fiamme li abbiano avvolti e inceneriti dal tempo della santa Inquisizione alle furie distruttive delle varie dittature.
La paura della parola ha tecnicamente le radici sulle sabbie mobili, e solo uomini ingenui o ciechi possono sentirsi protetti dalla «distruzione» di un documento d'autore ritenuto avverso.
È il caso di certe carte di Michail Bulgakov (1891-1940) che con «Il Maestro e Margherita» portò Cristo, Satana, Pilato e Giuda nelle mura del Cremlino e che oggi rispuntano dalla polvere della catacombale Lubjanka.
Molte cose non potevano essere dette neppure in parodia, con il negromantico e viscerale sapore di Woland, il novello dottor Faust dalla dialettica spericolata. Vennero gettati al fuoco dossier e testi di interrogatori, i diari, i graffianti affreschi sulla politica della Nep (Novaja ekonomiceskaja p olitika, «nuova politica economica») in «Cuore di Cane», le reprimende del famigerato Jagoda (di poi biasimato da Mikhail Gorbaciov), tutto meno la corrispondenza con Stalin, che non volle mai condannare lo scrittore all'esilio o alla forca.
Grazie allo studioso Vasilij Sentàlinskij e alla moglie Tanja, esperta di letteratura siberiana dei quali la Saccorotti raccoglie le testimonianze scopriamo che i servizi segreti avevano copiato gli appunti sequestrati, le tracce dei libri, ogni documento e perfino le parole «scritte sui polsini».
Sullo «strettamente riservato» c'era la frase «conservare eternamente».
Bulgakov, dagli anni Sessanta tradotto in tutto il mondo, fu uno degli scrittori più «arsi» del periodo sovietico: estroverso e rumoroso, non faceva che creare seccature, chiedeva di continuo la restituzione dei diari, riuscì perfino a contattare il regista Vsevolod Emil'evic Mejerchol'd, che stravolse in un esercizio atletico la sua piece «Le uova fatali», il poliziotto Gendin lo seguiva passo passo e lo considerava suo cliente.

Interrogatori. Gli interrogatori erano frequenti, i verbali si accatastavano, e nel 1928 «si decise di passare all'azione».
Da quel periodo, per alcuni anni, un'ondata di persecuzioni si riversò sulla città. Andrei Sobol' si uccise in pubblico, su una panchina di viale Tver.
Bulgakov, dopo aver promesso di correggere i suoi vecchi manoscritti, piombò nei tormenti e cadde malato.
Nel 1930 dopo aver bruciato egli stesso parte de «Il Maestro e Margherita» scrisse una memorabile lettera al Governo Sovietico.
Di poi, povero in canna, vendette anche gli occhiali.

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OGT newspaper
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02/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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