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Il gran carceriere
Il Foglio di sabato 30 luglio 2016


di Giuseppe Marcenaro
Hudson Lowe, il generale britannico che vegliava su Napoleone a Sant'Elena. Anche per lui, chiacchierato in patria, era un esilio

Gli avevano praticamente sbattuto la porta in faccia. Si era presentato con inglese puntualità alle nove precise davanti all'uscio di Longwood House. Indossava la divisa di generale, rosso sgargiante, con una gettata di medaglie. Quelle lucrate durante le campagne cui aveva partecipato tintinnavano con le decorazioni conferitegli dalle corti russa e prussiana. Era il 17 aprile 1815. Il giorno prima sir Hudson Lowe era sbarcato dalla fregata Phaeton con tutti gli onori dovuti come nuovo governatore dell'isola di Sant'Elena. Era arrivato per sostituire l'ammiraglio Cockburn, fin a quel dì "custode" dell'imperatore Napoleone Bonaparte, esiliato nella piccola isola dell'equatore, nel bel mezzo dell'oceano Atlantico, dopo essersi consegnato il 15 luglio 1815 a Rochefort a bordo della nave britannica Hms Bellerophon al comando di Frederick Lewis Maitland. L'ammiraglio George Cockburn aveva letto a uno sdegnato Napoleone il messaggio con il quale il governo britannico gli comunicava il suo esilio, specificando che solo tre degli ufficiali del suo seguito avrebbero potuto seguirlo. L'imperatore, a dispetto delle intenzioni degli inglesi, cercava di prendere tempo e anche l'opposizione inglese tendeva a trattenerlo in Gran Bretagna con uno stratagemma. A lord Liverpool era giunta la notizia che Napoleone, citato in giudizio come testimone in un processo sulla condotta della Marina imperiale in una battaglia avvenuta alle Antille contro la Royal Navy, sarebbe stato obbligato a presentarsi in tribunale. Potendo così sbarcare dal Bellerophon dov'era "trattenuto". Il governo britannico attuò immediatamente una contromossa: il vascello venne fatto veleggiare al largo, intanto per allontanare la moltitudine di curiosi che ogni giorno incrociavano per vedere l'imperatore, e soprattutto per impedire al messo del tribunale di raggiungerlo e consegnargli la citazione. Ch'era il mezzo "formale" per sottrarlo alla custodia. Le scelte erano però già state formulate. Bonaparte fu trasportato a Plymouth da dove, trasferito sulla fregata Hms Northumberland, venne "spedito" a Sant'Elena. Arrivò il 23 ottobre del 1815.
Poi, storia nota. A Napoleone viene assegnata come residenza permanente un'antica villotta, la Longwood House di proprietà della Compagnia delle Indie. Qui vivrà inizialmente sotto la sorveglianza del capitano William Poppleton. Nella stessa villa sono alloggiati i generali Gourgaud e Montholon. Il maresciallo Bertrand si stabilisce con la moglie in un cottage non lontano. Il "soggiorno" della piccola corte sull'isola non è dei più agevoli. Anche se si vive nella speranza che in Francia succeda qualcosa capace di rovesciare ancora una volta il tavolo della storia.
Intanto, visto il suo cursus honorum e per mitigare curiosi chiacchierati ardori, consumati con giovani ufficiali, e perciò allontanarlo, il 1° agosto 1815 sir Hudson Lowe era stato nominato governatore dell'isola di Sant'Elena. Passarono un po' di mesi prima che prendesse possesso del suo governatorato. Vi arrivò, con la moglie da tutti quei che sapevano considerata "moglie dello schermo" la sera del 16 aprile 1816. Aveva subito incaricato il capitano William Poppleton di informarsi su quale fosse l'ora più opportuna per incontrare il "prigioniero". E scoppiò la prima rissa. Sembra che Poppleton gli avesse detto che il momento migliore sarebbe stato verso la nove di mattina.
Napoleone, appreso dell'appuntamento senz'essere stato informato, ovviamente reagì malissimo. "Sono veramente stupito che il capitano Poppleton abbia potuto fissarmi degli orari visto che sono qui da ben quattro mesi e mai una volta ho ricevuto chicchessia alle nove". Nessuno si era ovviamente preoccupato di avvertire il nuovo governatore della reazione dell'imperatore. Alle nove precise del mattino dopo Lowe bussò alla porta della "residenza" francese. Il generale de Montholon, gelidamente, gli comunicò che non vi erano visite previste lungo la giornata. Il governatore, irritato, si recò allora a Hutt's Gate, l'abitazione del gran maresciallo Bertrand. Protestò per il fatto che Napoleone non fosse stato informato della sua visita. Bertrand, più impassibile di un inglese, replicò che il capitano Poppleton sapeva benissimo che l'imperatore, ormai da quattro mesi a Sant'Elena, non aveva mai ricevuto nessuno alle nove del mattino. Tutte le volte che un personaggio aveva chiesto d'incontrarlo, l'ora fissata dall'imperatore era sempre stata le sedici. Era l'etichetta imposta a Sant'Elena.
Napoleone sapeva chi fosse Hudson Lowe. Lo confidò a Las Cases. "Il comportamento del signor Lowe, discende dalle sue abitudini, dalla vita che ha fin qui condotto. Ha comandato soltanto stranieri disertori, piemontesi, còrsi, siciliani, tutti rinnegati, ribaldi, traditori della loro patria: il fango e la schiuma d'Europa. Se avesse comandato uomini dabbene, soldati, inglesi, e se egli stesso fosse un vero inglese, non dimenticherebbe che bisogna usare dei riguardi verso colui che si è obbligati a onorare".
Ma chi era Hudson Lowe? Irlandese per parte di madre, era nato a Galway, un posto con una spiaggia sassosa al fondo di una baia volta verso l'oceano, protetta dalle isole Aran. Un luogo sperduto d'Irlanda, ricordato soltanto dai vortici provenienti dall'Atlantico. Figlio di John, un chirurgo militare, in quell'angolo dimenticato il 28 luglio 1769 venne al mondo il futuro "carceriere" di Napoleone. Quando assunse il "comando" con il titolo di governatore dell'isola dov'era stato deportato l'imperatore, Lowe aveva quarantasette anni e un accidentato curriculum militare. A vent'anni era entrato nella milizia del Devon. Durò poco. Inviato a Gibilterra, nel 1793, dichiarata dall'Inghilterra la guerra contro la Francia, Lowe sbarcò per il servizio attivo in Corsica. Poi fu all'Elba, e a Minorca. Ebbe finalmente un comando: un battaglione di esiliati corsi, noti come i Corsican Ranger, inviati in Egitto. Pochi anni dopo, facendo carriera, con il titolo di tenente-colonnello, me; si è associata al mio nome per accompagnarglisi nei secoli venturi; e io sono uno di quegli sciagurati che scrivono legati a un cadavere; il cadavere di Napoleone è sempre con me, legato e stretto alla mia esistenza; e quando il mio nome viene pronunciato, vedo la gente fremere, vedo i visi oscurarsi, e lo sdegno contrarre i muscoli. Io che posso fare? Giustificarmi? Non me ne sento più la forza, perché vi sono accuse che schiacciano, soprattutto quando ormai si è persuasi che tentare di scagionarsi è inutile, quando si sa che i giudici hanno già pronunciato la sentenza e che non vogliono più dare ascolto all'accusato".

[leggi l'articolo completo su Il Foglio]


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di Giuseppe Marcenaro
Hudson Lowe, il generale britannico che vegliava su Napoleone a Sant'Elena. Anche per lui, chiacchierato in patria, era un esilio

Gli avevano praticamente sbattuto la porta in faccia. Si era presentato con inglese puntualità alle nove precise davanti all'uscio di Longwood House. Indossava la divisa di generale, rosso sgargiante, con una gettata di medaglie. Quelle lucrate durante le campagne cui aveva partecipato tintinnavano con le decorazioni conferitegli dalle corti russa e prussiana. Era il 17 aprile 1815. Il giorno prima sir Hudson Lowe era sbarcato dalla fregata Phaeton con tutti gli onori dovuti come nuovo governatore dell'isola di Sant'Elena. Era arrivato per sostituire l'ammiraglio Cockburn, fin a quel dì "custode" dell'imperatore Napoleone Bonaparte, esiliato nella piccola isola dell'equatore, nel bel mezzo dell'oceano Atlantico, dopo essersi consegnato il 15 luglio 1815 a Rochefort a bordo della nave britannica Hms Bellerophon al comando di Frederick Lewis Maitland. L'ammiraglio George Cockburn aveva letto a uno sdegnato Napoleone il messaggio con il quale il governo britannico gli comunicava il suo esilio, specificando che solo tre degli ufficiali del suo seguito avrebbero potuto seguirlo. L'imperatore, a dispetto delle intenzioni degli inglesi, cercava di prendere tempo e anche l'opposizione inglese tendeva a trattenerlo in Gran Bretagna con uno stratagemma. A lord Liverpool era giunta la notizia che Napoleone, citato in giudizio come testimone in un processo sulla condotta della Marina imperiale in una battaglia avvenuta alle Antille contro la Royal Navy, sarebbe stato obbligato a presentarsi in tribunale. Potendo così sbarcare dal Bellerophon dov'era "trattenuto". Il governo britannico attuò immediatamente una contromossa: il vascello venne fatto veleggiare al largo, intanto per allontanare la moltitudine di curiosi che ogni giorno incrociavano per vedere l'imperatore, e soprattutto per impedire al messo del tribunale di raggiungerlo e consegnargli la citazione. Ch'era il mezzo "formale" per sottrarlo alla custodia. Le scelte erano però già state formulate. Bonaparte fu trasportato a Plymouth da dove, trasferito sulla fregata Hms Northumberland, venne "spedito" a Sant'Elena. Arrivò il 23 ottobre del 1815.
Poi, storia nota. A Napoleone viene assegnata come residenza permanente un'antica villotta, la Longwood House di proprietà della Compagnia delle Indie. Qui vivrà inizialmente sotto la sorveglianza del capitano William Poppleton. Nella stessa villa sono alloggiati i generali Gourgaud e Montholon. Il maresciallo Bertrand si stabilisce con la moglie in un cottage non lontano. Il "soggiorno" della piccola corte sull'isola non è dei più agevoli. Anche se si vive nella speranza che in Francia succeda qualcosa capace di rovesciare ancora una volta il tavolo della storia.
Intanto, visto il suo cursus honorum e per mitigare curiosi chiacchierati ardori, consumati con giovani ufficiali, e perciò allontanarlo, il 1° agosto 1815 sir Hudson Lowe era stato nominato governatore dell'isola di Sant'Elena. Passarono un po' di mesi prima che prendesse possesso del suo governatorato. Vi arrivò, con la moglie da tutti quei che sapevano considerata "moglie dello schermo" la sera del 16 aprile 1816. Aveva subito incaricato il capitano William Poppleton di informarsi su quale fosse l'ora più opportuna per incontrare il "prigioniero". E scoppiò la prima rissa. Sembra che Poppleton gli avesse detto che il momento migliore sarebbe stato verso la nove di mattina.
Napoleone, appreso dell'appuntamento senz'essere stato informato, ovviamente reagì malissimo. "Sono veramente stupito che il capitano Poppleton abbia potuto fissarmi degli orari visto che sono qui da ben quattro mesi e mai una volta ho ricevuto chicchessia alle nove". Nessuno si era ovviamente preoccupato di avvertire il nuovo governatore della reazione dell'imperatore. Alle nove precise del mattino dopo Lowe bussò alla porta della "residenza" francese. Il generale de Montholon, gelidamente, gli comunicò che non vi erano visite previste lungo la giornata. Il governatore, irritato, si recò allora a Hutt's Gate, l'abitazione del gran maresciallo Bertrand. Protestò per il fatto che Napoleone non fosse stato informato della sua visita. Bertrand, più impassibile di un inglese, replicò che il capitano Poppleton sapeva benissimo che l'imperatore, ormai da quattro mesi a Sant'Elena, non aveva mai ricevuto nessuno alle nove del mattino. Tutte le volte che un personaggio aveva chiesto d'incontrarlo, l'ora fissata dall'imperatore era sempre stata le sedici. Era l'etichetta imposta a Sant'Elena.
Napoleone sapeva chi fosse Hudson Lowe. Lo confidò a Las Cases. "Il comportamento del signor Lowe, discende dalle sue abitudini, dalla vita che ha fin qui condotto. Ha comandato soltanto stranieri disertori, piemontesi, còrsi, siciliani, tutti rinnegati, ribaldi, traditori della loro patria: il fango e la schiuma d'Europa. Se avesse comandato uomini dabbene, soldati, inglesi, e se egli stesso fosse un vero inglese, non dimenticherebbe che bisogna usare dei riguardi verso colui che si è obbligati a onorare".
Ma chi era Hudson Lowe? Irlandese per parte di madre, era nato a Galway, un posto con una spiaggia sassosa al fondo di una baia volta verso l'oceano, protetta dalle isole Aran. Un luogo sperduto d'Irlanda, ricordato soltanto dai vortici provenienti dall'Atlantico. Figlio di John, un chirurgo militare, in quell'angolo dimenticato il 28 luglio 1769 venne al mondo il futuro "carceriere" di Napoleone. Quando assunse il "comando" con il titolo di governatore dell'isola dov'era stato deportato l'imperatore, Lowe aveva quarantasette anni e un accidentato curriculum militare. A vent'anni era entrato nella milizia del Devon. Durò poco. Inviato a Gibilterra, nel 1793, dichiarata dall'Inghilterra la guerra contro la Francia, Lowe sbarcò per il servizio attivo in Corsica. Poi fu all'Elba, e a Minorca. Ebbe finalmente un comando: un battaglione di esiliati corsi, noti come i Corsican Ranger, inviati in Egitto. Pochi anni dopo, facendo carriera, con il titolo di tenente-colonnello, me; si è associata al mio nome per accompagnarglisi nei secoli venturi; e io sono uno di quegli sciagurati che scrivono legati a un cadavere; il cadavere di Napoleone è sempre con me, legato e stretto alla mia esistenza; e quando il mio nome viene pronunciato, vedo la gente fremere, vedo i visi oscurarsi, e lo sdegno contrarre i muscoli. Io che posso fare? Giustificarmi? Non me ne sento più la forza, perché vi sono accuse che schiacciano, soprattutto quando ormai si è persuasi che tentare di scagionarsi è inutile, quando si sa che i giudici hanno già pronunciato la sentenza e che non vogliono più dare ascolto all'accusato".

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OGT newspaper
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02/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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