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Dove l'uomo dipende dalle renne
Citt Nuova di venerd 10 gennaio 2020
Le tradizioni e i riti ancestrali delle popolazioni artiche siberiane rivivono nella scrittura vivida e appassionante di Tan Bogoraz

di Oreste Paliotti


Quando allo studioso si unisce l’artista, quando le osservazioni scientifiche si sciolgono nella trama di una narrazione incalzante, il risultato non viene apprezzato solo da una cerchia ristretta ma conquista ogni genere di lettori. È il caso de Le otto tribù di Tan Bogoraz (pseudonimo di Vladimir Germanovič Bogoraz), che può essere letto e gustato come un romanzo dall’andamento epico, ricco di immagini poetiche, e al tempo stesso come un interessante documento etnografico sulle tradizioni e il folclore degli aborigeni della Siberia nord-orientale: Čukči, Korjaki della costa e Korjaki allevatori, Eschimesi, Jukagiri, Eveny, Itel’meny e Ajnu. Testo affascinante, questo pubblicato da Gammarò, perché ci trasporta in un mondo arcaico a noi sconosciuto, in territori dell’Eurasia dove a causa delle proibitive condizioni ambientali è costante la lotta per la sopravvivenza tra popoli costretti a disputarsi le scarse risorse anche a prezzo di sangue.
Prima però di passare al romanzo, qualche cenno va fatto sull’autore, che per lo spirito romantico unito all’interpretazione realistica occupa un posto di rilievo tra gli scrittori russi a cavallo tra Ottocento e Novecento. L’interesse è dovuto anche alle vicende personali, che lo videro eminente scienziato favorito dalla intellighenzia, e tuttavia sottoposto ad un costante controllo della polizia, dieci volte arrestato, condannato alla galera e al confino per propaganda rivoluzionaria, morto in circostanze mai chiarite durante un viaggio in treno nel 1936. Davvero un ottimo soggetto per un romanzo e un film!
Nato a Ovruch, in Volinia, nel 1865 da una famiglia di religione ebraica, Bogoraz sarà linguista, etnografo, antropologo, storico della religione, poeta, scrittore, giornalista, docente, membro dell’Accademia delle Scienze dell’Urss. Trascorre i primi anni a Taganrov, sul Mar d’Azov, dimostrando precocemente attitudine alle scienze, sete di giustizia e di spendersi per migliorare la vita della gente. All’età di 20 anni si converte al cristianesimo. Nel 1886, come membro dell’organizzazione rivoluzionaria “La volontà del popolo”, viene condannato a tre anni nella fortezza dei Santi Pietro e Paolo; quindi l’esilio nella Kolyma fino al 1889. Ma proprio in quella zona invivibile della Siberia nord-orientale inizia gli studi sulle popolazioni artiche che ne faranno un’autorità etnografica a livello mondiale. Nel 1897 prende parte all’esplorazione del Nord Pacifico finanziata dal banchiere americano Morris Jesup: esperienza costellata di sacrifici ma utile a elaborare una metodologia di ricerche sul campo destinata a risultare vincente (più tardi l’introdurrà nei suoi programmi pedagogici del corso di etnografia). Nel 1901, per sistemare e pubblicare il materiale raccolto, si stabilisce a New York, dove diviene curatore del Museo di storia naturale.
Di nuovo in patria nel 1904, Bogoraz torna in Siberia per continuare i suoi studi etnografici, senza però tralasciare l’impegno in organizzazioni sovversive che gli costeranno, l’anno seguente, un’altra pena detentiva. Dopo la rivoluzione del 1917 riprende il lavoro nel Museo di antropologia ed etnografia con il quale ha già collaborato dopo il ritorno dall’esilio nella Kolyma. Nominato professore di etnografia all’Università di Leningrado, fonda e dirige varie istituzioni, tra cui il Comitato per l’assistenza alle popolazioni dell’Estremo Nord. Formare i futuri studiosi degli aborigeni nordici sarà il suo costante impegno. Oltre a numerosi testi scientifici sulla storia della religione, sullo sciamanesimo e sulla cultura dei popoli siberiani, tra cui vocabolari, sillabari e libri scolastici nelle loro lingue native, Bogoraz produce opere letterarie: poesie, racconti e sei romanzi.



Le otto tribù (Vosemplemyen) del 1902, basato sulla vita quotidiana e spirituale di alcune popolazioni nomadi della penisola della Kamčatka (Siberia), denota il personale coinvolgimento dell’autore esiliato in quei territori desolati e la sua attenzione verso popolazioni marginali in via di estinzione. L’azione del romanzo si svolge in un’epoca lontana, quasi fuori dal tempo, tanto poco il tipo di vita è mutato dalle epoche più remote, e si apre nella neve del Campo Čagar, dove ogni anno gli aborigeni si riuniscono per barattare generi di prima necessità. Tra etnie diverse per costumi e credenze gli scontri sono all’ordine del giorno, ma per tutta la durata del mercato la pace è assoluta. A violare questa legge è la tribù predatrice dei Myšeedy, che dopo aver fatto strage dei Cavalieri delle Renne fugge con i loro beni. La vicenda appassionante che da qui si snoda include la storia d’amore (dal finale tragico) tra due giovani čukči, l’aitante Vattan, nipote di uno sciamano, e la bella Mami pie’ veloce.
Con scrittura fluida e ricca di immagini, l’autore ci restituisce un mondo arcaico, già al tramonto all’epoca in cui riuscì a fissarne le immagini; un mondo in cui le popolazioni vivono sotto il terrore di divinità crudeli e in perfetta simbiosi con la renna, vero personaggio del racconto che segnerà il destino di Mami: la renna, che per le tribù nordiche non rappresenta solo cibo, ma la cui pelle serve a confezionare abiti e a coprire l’intelaiatura delle tende, mentre il palco delle corna fornisce il materiale per strumenti da lavoro; ed è mezzo da trasporto sia da tiro che da sella. Commovente è il rapporto dell’eroina con la renna domestica: «Mami andava da un animale all’altro e li accarezzava come una madre accarezza i propri figli. Il bianco maschio era ancora fermo sul posto: la freccia lo aveva colpito sotto la scapola sinistra, ma l’animale ancora lottava contro il dolore e la morte […]. Vedendo Mami che si stava avvicinando, alzò la testa e la tese in avanti. Dai suoi occhi caddero due grosse lacrime e scesero lungo la liscia pelle».
In appendice al romanzo, corredato da raffinati disegni ispirati al folclore nordico, seguono due testi ambientati nel crudele inverno artico – L’accampamento della morte e Nella tenda dei Grigor’ii – che stanno tra il saggio e il racconto, grazie alla peculiarità di Bogoraz di tradurre in narrazione artistica i dati di costume raccolti. Con felice coincidenza, anche la traduttrice Luciana Vagge Saccorotti è una studiosa di etnografia e cultura dei popoli aborigeni dell’Estremo Nord: come l’autore, ha viaggiato molto in Siberia, vissuto in accampamenti di allevatori di renne, conosciuto i loro sciamani, scritto libri sui popoli artici e subartici. Circa lo scopo umanitario che Bogoraz s’era proposto nei suoi testi letterari, osserva: «Mostrando la vita di popolazioni quasi sconosciute in Russia, lo scrittore cerca di far comprendere al lettore non solo la loro magra esistenza, ma anche la necessità di amarle, di porre su di loro l’attenzione della società democratica del Paese e quindi contribuire al cambiamento del loro destino».

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Le tradizioni e i riti ancestrali delle popolazioni artiche siberiane rivivono nella scrittura vivida e appassionante di Tan Bogoraz

di Oreste Paliotti


Quando allo studioso si unisce l’artista, quando le osservazioni scientifiche si sciolgono nella trama di una narrazione incalzante, il risultato non viene apprezzato solo da una cerchia ristretta ma conquista ogni genere di lettori. È il caso de Le otto tribù di Tan Bogoraz (pseudonimo di Vladimir Germanovič Bogoraz), che può essere letto e gustato come un romanzo dall’andamento epico, ricco di immagini poetiche, e al tempo stesso come un interessante documento etnografico sulle tradizioni e il folclore degli aborigeni della Siberia nord-orientale: Čukči, Korjaki della costa e Korjaki allevatori, Eschimesi, Jukagiri, Eveny, Itel’meny e Ajnu. Testo affascinante, questo pubblicato da Gammarò, perché ci trasporta in un mondo arcaico a noi sconosciuto, in territori dell’Eurasia dove a causa delle proibitive condizioni ambientali è costante la lotta per la sopravvivenza tra popoli costretti a disputarsi le scarse risorse anche a prezzo di sangue.
Prima però di passare al romanzo, qualche cenno va fatto sull’autore, che per lo spirito romantico unito all’interpretazione realistica occupa un posto di rilievo tra gli scrittori russi a cavallo tra Ottocento e Novecento. L’interesse è dovuto anche alle vicende personali, che lo videro eminente scienziato favorito dalla intellighenzia, e tuttavia sottoposto ad un costante controllo della polizia, dieci volte arrestato, condannato alla galera e al confino per propaganda rivoluzionaria, morto in circostanze mai chiarite durante un viaggio in treno nel 1936. Davvero un ottimo soggetto per un romanzo e un film!
Nato a Ovruch, in Volinia, nel 1865 da una famiglia di religione ebraica, Bogoraz sarà linguista, etnografo, antropologo, storico della religione, poeta, scrittore, giornalista, docente, membro dell’Accademia delle Scienze dell’Urss. Trascorre i primi anni a Taganrov, sul Mar d’Azov, dimostrando precocemente attitudine alle scienze, sete di giustizia e di spendersi per migliorare la vita della gente. All’età di 20 anni si converte al cristianesimo. Nel 1886, come membro dell’organizzazione rivoluzionaria “La volontà del popolo”, viene condannato a tre anni nella fortezza dei Santi Pietro e Paolo; quindi l’esilio nella Kolyma fino al 1889. Ma proprio in quella zona invivibile della Siberia nord-orientale inizia gli studi sulle popolazioni artiche che ne faranno un’autorità etnografica a livello mondiale. Nel 1897 prende parte all’esplorazione del Nord Pacifico finanziata dal banchiere americano Morris Jesup: esperienza costellata di sacrifici ma utile a elaborare una metodologia di ricerche sul campo destinata a risultare vincente (più tardi l’introdurrà nei suoi programmi pedagogici del corso di etnografia). Nel 1901, per sistemare e pubblicare il materiale raccolto, si stabilisce a New York, dove diviene curatore del Museo di storia naturale.
Di nuovo in patria nel 1904, Bogoraz torna in Siberia per continuare i suoi studi etnografici, senza però tralasciare l’impegno in organizzazioni sovversive che gli costeranno, l’anno seguente, un’altra pena detentiva. Dopo la rivoluzione del 1917 riprende il lavoro nel Museo di antropologia ed etnografia con il quale ha già collaborato dopo il ritorno dall’esilio nella Kolyma. Nominato professore di etnografia all’Università di Leningrado, fonda e dirige varie istituzioni, tra cui il Comitato per l’assistenza alle popolazioni dell’Estremo Nord. Formare i futuri studiosi degli aborigeni nordici sarà il suo costante impegno. Oltre a numerosi testi scientifici sulla storia della religione, sullo sciamanesimo e sulla cultura dei popoli siberiani, tra cui vocabolari, sillabari e libri scolastici nelle loro lingue native, Bogoraz produce opere letterarie: poesie, racconti e sei romanzi.



Le otto tribù (Vosemplemyen) del 1902, basato sulla vita quotidiana e spirituale di alcune popolazioni nomadi della penisola della Kamčatka (Siberia), denota il personale coinvolgimento dell’autore esiliato in quei territori desolati e la sua attenzione verso popolazioni marginali in via di estinzione. L’azione del romanzo si svolge in un’epoca lontana, quasi fuori dal tempo, tanto poco il tipo di vita è mutato dalle epoche più remote, e si apre nella neve del Campo Čagar, dove ogni anno gli aborigeni si riuniscono per barattare generi di prima necessità. Tra etnie diverse per costumi e credenze gli scontri sono all’ordine del giorno, ma per tutta la durata del mercato la pace è assoluta. A violare questa legge è la tribù predatrice dei Myšeedy, che dopo aver fatto strage dei Cavalieri delle Renne fugge con i loro beni. La vicenda appassionante che da qui si snoda include la storia d’amore (dal finale tragico) tra due giovani čukči, l’aitante Vattan, nipote di uno sciamano, e la bella Mami pie’ veloce.
Con scrittura fluida e ricca di immagini, l’autore ci restituisce un mondo arcaico, già al tramonto all’epoca in cui riuscì a fissarne le immagini; un mondo in cui le popolazioni vivono sotto il terrore di divinità crudeli e in perfetta simbiosi con la renna, vero personaggio del racconto che segnerà il destino di Mami: la renna, che per le tribù nordiche non rappresenta solo cibo, ma la cui pelle serve a confezionare abiti e a coprire l’intelaiatura delle tende, mentre il palco delle corna fornisce il materiale per strumenti da lavoro; ed è mezzo da trasporto sia da tiro che da sella. Commovente è il rapporto dell’eroina con la renna domestica: «Mami andava da un animale all’altro e li accarezzava come una madre accarezza i propri figli. Il bianco maschio era ancora fermo sul posto: la freccia lo aveva colpito sotto la scapola sinistra, ma l’animale ancora lottava contro il dolore e la morte […]. Vedendo Mami che si stava avvicinando, alzò la testa e la tese in avanti. Dai suoi occhi caddero due grosse lacrime e scesero lungo la liscia pelle».
In appendice al romanzo, corredato da raffinati disegni ispirati al folclore nordico, seguono due testi ambientati nel crudele inverno artico – L’accampamento della morte e Nella tenda dei Grigor’ii – che stanno tra il saggio e il racconto, grazie alla peculiarità di Bogoraz di tradurre in narrazione artistica i dati di costume raccolti. Con felice coincidenza, anche la traduttrice Luciana Vagge Saccorotti è una studiosa di etnografia e cultura dei popoli aborigeni dell’Estremo Nord: come l’autore, ha viaggiato molto in Siberia, vissuto in accampamenti di allevatori di renne, conosciuto i loro sciamani, scritto libri sui popoli artici e subartici. Circa lo scopo umanitario che Bogoraz s’era proposto nei suoi testi letterari, osserva: «Mostrando la vita di popolazioni quasi sconosciute in Russia, lo scrittore cerca di far comprendere al lettore non solo la loro magra esistenza, ma anche la necessità di amarle, di porre su di loro l’attenzione della società democratica del Paese e quindi contribuire al cambiamento del loro destino».

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OGT newspaper
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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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