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Pierrot le Fou, storia del bandito che leggeva Vian e della sua donna
Paese Sera di mercoled 20 maggio 2020


di Lorenzo Mercatanti
Massino Novelli, giornalista e scrittore, ci racconta la storia del bandito Pierre Carrot, Pierrot le Fou (Pierrot il pazzo in italiano), che per 40 anni ha animato le cronache francesi ed italiane, perfino quando probabilmente era già morto, vero mito e mistero, un raggio d’ombra sul secolo breve, fin nelle macerie della guerra e dell’occupazione tedesca, attraverso gli intrecci perversi tra criminalità e politica, dalla Francia di Vichy in avanti.
Un bandito sanguinario che leggeva Sputerò sulle vostre tombe di Boris Vian nella Parigi degli esistenzialisti; a lui si ispirò Jean Luc Godard per il film Il bandito delle 11, con Jean Paul Belmondo.
Lo scrittore premio Nobel Patrick Modiano rievoca in molti suoi romanzi un episodio della vita del padre, l’arresto subito nel 1943 in quanto ebreo e la sua liberazione grazie all’intervento di un ambiguo personaggio appartenente alla banda della rue Lauriston. Scrive Modiano in Riduzione di pena, «Ho sentito, quella sera, che avrebbe voluto trasmettermi la sua esperienza delle cose oscure e dolorose della vita, ma che per questo non c’erano parole». È il cuore della narrativa di Modiano, un’indagine tra le ombre che avvolgono ogni esistenza, narrare quell’oscurità che il padre non aveva saputo svelare al figlio.
Della banda della rue Lauriston, criminali che, durante l’occupazione, oltre che dediti al mercato nero, prestavano alla Gestapo servizi di bassa polizia, fece parte Pierrot le Fou numero uno, al secolo Pierrot Lautrel, per poi passare, non appena cambiò il vento, nelle file della resistenza, sempre legato a filo doppio coi servizi segreti, tanto che sarà impossibile capire se fosse passato per mero interesse alla resistenza o se, al contrario, lo era già da prima un resistente, infiltrato dai servizi nelle fila della Gestapo.
Lautrel muore il 10 novembre 1946, in fuga da una rapina a un orefice di Parigi, completamente ubriaco, si spara per sbaglio un colpo di pistola mentre sta infilando l’arma nella cintura. I compagni lo seppelliscono di nascosto e la polizia, per almeno due anni, dà la caccia a un fantasma. Sul suo conto continuano ad addebitarsi i più importanti crimini de periodo fino alla comparsa sulla scena di un secondo Pierrot le Fou.
Il Pierrot n. 2, che di nome fa Pierre Carrot, aveva conosciuto e condiviso parte della sua carriera nel crimine con Lautrel. Per spavalderia ne aveva assunto il nome, approfittando della fama del predecessore; se ne pentirà quando sarà troppo tardi, vedendosi attribuiti, dopo la cattura, tutti i delitti non suoi. È la fine di una carriera tra crimini e evasioni rocambolesche, frutto di un assedio memorabile col dispiegamento di ben 500 agenti.
Insieme a lui viene arrestata la bella Katia, l’amante che, sebbene fuggiasco, non ha mai smesso di frequentare, il cui nome ha tatuato addosso, insieme alla scritta araba mektoub (“è scritto”), comune a molti malavitosi e reduci della Legione Straniera. La foto di Katia fa mostra di sé sulle pagine dei giornali, su L’Aurore il giornalista la presenta per la prima volta con il suo nome e con il suo cognome, Caterina Reynero, è italiana, una piemontese figlia di una delle tante famiglie delle regioni del nord Italia emigrate in cerca di fortuna e lavoro; non è certo fortunata la vita di Caterina, vive di prostituzione fino al riscatto parziale di diventare la donna del bandito più famoso di quei tempi.
Lautrel non sarà in pace neanche da morto – per tornare al primo Pierrot – nonostante il ritrovamento dei suoi resti nel maggio del 1949. In mancanza di una dichiarazione ufficiale, viene condannato in contumacia alla pena di morte; Pierre Carrot anima le cronache tra evasioni e successivi arresti, è un mito nell’immaginario popolare e un’ossessione per le forze dell’ordine tanto che, nonostante sia in carcere, viene visto aggirarsi in Italia, dove in Piemonte opera per qualche anno una parte della sua banda. Due destini che continueranno a intrecciarsi, connessi ad altri destini della piccola e grande storia di quel periodo, dalla bassa delinquenza ai compromessi della politica del tempo, addirittura un libro, Sputerò sulle vostre tombe di Boris Vian, un libro condannato dalla giustizia del tempo. Per irriverenza Carrot si fa fotografare mentre lo legge perché è un “libro criminale”, proprio come lui, di cui si ignora il destino finale; semplicemente sparirà dalle cronache e dai rotocalchi, come si addice al mistero che lo aveva sempre avvolto.
Pierrot le Fou, storia del bandito che leggeva Boris Vian e della sua donna, di Massimo Novelli, Oltre edizioni, 2020.


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Paese Sera - mercoled 20 maggio 2020


di Lorenzo Mercatanti
Massino Novelli, giornalista e scrittore, ci racconta la storia del bandito Pierre Carrot, Pierrot le Fou (Pierrot il pazzo in italiano), che per 40 anni ha animato le cronache francesi ed italiane, perfino quando probabilmente era già morto, vero mito e mistero, un raggio d’ombra sul secolo breve, fin nelle macerie della guerra e dell’occupazione tedesca, attraverso gli intrecci perversi tra criminalità e politica, dalla Francia di Vichy in avanti.
Un bandito sanguinario che leggeva Sputerò sulle vostre tombe di Boris Vian nella Parigi degli esistenzialisti; a lui si ispirò Jean Luc Godard per il film Il bandito delle 11, con Jean Paul Belmondo.
Lo scrittore premio Nobel Patrick Modiano rievoca in molti suoi romanzi un episodio della vita del padre, l’arresto subito nel 1943 in quanto ebreo e la sua liberazione grazie all’intervento di un ambiguo personaggio appartenente alla banda della rue Lauriston. Scrive Modiano in Riduzione di pena, «Ho sentito, quella sera, che avrebbe voluto trasmettermi la sua esperienza delle cose oscure e dolorose della vita, ma che per questo non c’erano parole». È il cuore della narrativa di Modiano, un’indagine tra le ombre che avvolgono ogni esistenza, narrare quell’oscurità che il padre non aveva saputo svelare al figlio.
Della banda della rue Lauriston, criminali che, durante l’occupazione, oltre che dediti al mercato nero, prestavano alla Gestapo servizi di bassa polizia, fece parte Pierrot le Fou numero uno, al secolo Pierrot Lautrel, per poi passare, non appena cambiò il vento, nelle file della resistenza, sempre legato a filo doppio coi servizi segreti, tanto che sarà impossibile capire se fosse passato per mero interesse alla resistenza o se, al contrario, lo era già da prima un resistente, infiltrato dai servizi nelle fila della Gestapo.
Lautrel muore il 10 novembre 1946, in fuga da una rapina a un orefice di Parigi, completamente ubriaco, si spara per sbaglio un colpo di pistola mentre sta infilando l’arma nella cintura. I compagni lo seppelliscono di nascosto e la polizia, per almeno due anni, dà la caccia a un fantasma. Sul suo conto continuano ad addebitarsi i più importanti crimini de periodo fino alla comparsa sulla scena di un secondo Pierrot le Fou.
Il Pierrot n. 2, che di nome fa Pierre Carrot, aveva conosciuto e condiviso parte della sua carriera nel crimine con Lautrel. Per spavalderia ne aveva assunto il nome, approfittando della fama del predecessore; se ne pentirà quando sarà troppo tardi, vedendosi attribuiti, dopo la cattura, tutti i delitti non suoi. È la fine di una carriera tra crimini e evasioni rocambolesche, frutto di un assedio memorabile col dispiegamento di ben 500 agenti.
Insieme a lui viene arrestata la bella Katia, l’amante che, sebbene fuggiasco, non ha mai smesso di frequentare, il cui nome ha tatuato addosso, insieme alla scritta araba mektoub (“è scritto”), comune a molti malavitosi e reduci della Legione Straniera. La foto di Katia fa mostra di sé sulle pagine dei giornali, su L’Aurore il giornalista la presenta per la prima volta con il suo nome e con il suo cognome, Caterina Reynero, è italiana, una piemontese figlia di una delle tante famiglie delle regioni del nord Italia emigrate in cerca di fortuna e lavoro; non è certo fortunata la vita di Caterina, vive di prostituzione fino al riscatto parziale di diventare la donna del bandito più famoso di quei tempi.
Lautrel non sarà in pace neanche da morto – per tornare al primo Pierrot – nonostante il ritrovamento dei suoi resti nel maggio del 1949. In mancanza di una dichiarazione ufficiale, viene condannato in contumacia alla pena di morte; Pierre Carrot anima le cronache tra evasioni e successivi arresti, è un mito nell’immaginario popolare e un’ossessione per le forze dell’ordine tanto che, nonostante sia in carcere, viene visto aggirarsi in Italia, dove in Piemonte opera per qualche anno una parte della sua banda. Due destini che continueranno a intrecciarsi, connessi ad altri destini della piccola e grande storia di quel periodo, dalla bassa delinquenza ai compromessi della politica del tempo, addirittura un libro, Sputerò sulle vostre tombe di Boris Vian, un libro condannato dalla giustizia del tempo. Per irriverenza Carrot si fa fotografare mentre lo legge perché è un “libro criminale”, proprio come lui, di cui si ignora il destino finale; semplicemente sparirà dalle cronache e dai rotocalchi, come si addice al mistero che lo aveva sempre avvolto.
Pierrot le Fou, storia del bandito che leggeva Boris Vian e della sua donna, di Massimo Novelli, Oltre edizioni, 2020.


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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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