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'Il treno da Mosca' di Maurizio Lo Re
SOLOLIBRI.NET di domenica 21 giugno 2020
Una spy story alla Graham Greene, firmata da un ex ambasciatore; narrativa di spionaggio classico che riporta negli anni dell’ex URSS, un Paese rosso, ma socialmente in bianco e nero

di Felice Laudadio

Ci si può fidare di uno sconosciuto che precisa di non essere chi ha appena dichiarato di essere? L’avvocato Lucio Manacorda segue sempre l’istinto e questa volta gli dice di fidarsi di questo sedicente colonnello Verdi, che qui afferma questa identità e qui la nega, allo stesso tempo. Qui? Al tavolino di un bar, a Torino, dove ha convocato con una scusa il protagonista del romanzo Il treno da Mosca, un giallo classico di spionaggio alla Graham Greene, con sfumature introspettive, pubblicato da Oltre Edizioni di Sestri Levante nel 2019 e scritto da Maurizio Lo Re (370 pagine).

La trama non si sviluppa oggi, ma si colloca alla fine degli anni Settanta del Novecento, età di muri, di cortina di ferro, di guerra fredda e di apparati spionistici in azione. Non che non lo siano tuttora, ma volete mettere cosa combinavano allora, in un’Europa più grigia che a colori?
Da diplomatico di lungo corso, Lo Re conosce bene il dietro le quinte della materia che ha scelto di trattare nella sua singolare psycho spy story. È stato ambasciatore italiano a Riga, in Lettonia, tra il 2000 e il 2004, in un territorio da poco desovietizzato, visto che la Russia ha concesso nel 1991 l’indipendenza allo stato baltico, entrato poi dal 2004 nell’Unione Europea. Ha potuto assimilare la memoria delle atmosfere corrucciate del regime comunista e ne ha tratto ispirazione per gli appunti annotati un po’ alla volta, che riuniti da un buon filo conduttore narrativo sono diventati questo racconto, nato poco a poco.

Pur ancorandosi a vicende autentiche e citando qualche personaggio autentico (l’autore si è ispirato ad un diplomatico, Michele Lanza, che ha giocato un ruolo importante nell’Ambasciata di Berlino in un periodo delicato della cobelligeranza italiana con Hitler), questo resta un romanzo con tutti i crismi, il primo di uno scrittore storicamente competente che si è dedicato soprattutto alla produzione saggistica.
Il treno (Mosca-Venezia) suggerisce la dinamica dello spostamento. Il periodo (fine anni Settanta, primi anni Ottanta) si cala in una fase di comunicazione controllata e piena di sospetti tra due mondi: una democrazia occidentale e l’universo opaco, impenetrabile, dominato dagli apparati con la Stella Rossa e la falce e martello.
Se spionaggio ha da essere che sia industriale, sembra essersi detto l’ambasciatore scrittore.

Davanti al colonnello Verdi, l’avv. Manacorda si sente trasparente, vivisezionato. L’interlocutore, un cinquantenne con gli abiti stazzonati e un chiaro accento meridionale (dissimulato da un’improbabile cadenza piemontese), dimostra di sapere tutto di lui. A sedici anni, nel 1944 Lucio è stato nella Resistenza, staffetta partigiana. Dopo la guerra ha militato nel PCI, ma una carriera brillante nel partito si è interrotta nel 1956, con l’invasione dell’Ungheria: i carri armati russi nelle strade di Budapest lo hanno spinto a restituire la tessera con sdegno, senza più aderire a una forza politica. Dopo la laurea in legge, demotivato da un amore infranto ha interrotto il praticantato legale e si è occupato come ragioniere in una fabbrichetta, salvo riprendere gli studi venticinque anni più avanti, superare l’esame di Stato, iscriversi all’albo dei procuratori legali e diventare il brillante braccio destro del titolare dello studio legale presso il quale lavora.

La conoscenza di tanti particolari conferma l’impressione che l’uomo davanti a lui sia un agente dei Servizi. Si è presentato come colonnello Verdi, tenendo subito a precisare che non è il suo vero nome e non si limita a sciorinare dati del suo curriculum alla portata di qualsiasi questurino, ma dimostra d’essere al corrente di considerazioni che Manacorda non si è sognato di rivelare a nessuno. Mai aveva esternato il disagio d’essersi rintanato in un monolocale a leggere gialli, mentre nella società e nella politica si andavano scatenando nel Paese i moti popolari di Genova del 1960 e le proteste di piazza del 1962 durante la campagna per il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici, vicende che avevano mobilitato tutti i progressisti, l’intera sinistra ma non Manacorda. Poi l’invasione della Cecoslovacchia, la strategia degli opposti estremismi, il terrorismo, la stagione delle Brigate Rosse, l’eurocomunismo, l’avvicinamento del Partito Comunista Italiano all’area di governo. Il mondo finiva sottosopra e lui niente, tranquillo, nella sua nicchia al buio.
L’ufficiale sa tante cose di Lucio e tante altre ne aggiunge Lucio stesso, ripensando dentro di sé al proprio passato con inquietudine, indeciso se chiudere ancora la porta a passioni e sentimenti o lasciarsi andare alle emozioni, una volta per tutte.

Cosa gli chiederà il colonnello che non-è-quello-che-dice-di-essere? Cosa vorrà da proporgli di fare, che lo condurrà a prendere contatti col mondo oltre cortina, in cui sventola la bandiera rossa e la gente ha poco di tutto, ancora meno libertà?
Nell’Europa dell’Est e nella Russia comunista, fanno quasi compassione i cittadini di uno Stato smisurato in cui era smisurata anche la negazione dei diritti più ordinari.
Che dire? È una storia di spionaggio, narrativa che si addice all’URSS, un Paese rosso, ma socialmente in bianco e nero.



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Una spy story alla Graham Greene, firmata da un ex ambasciatore; narrativa di spionaggio classico che riporta negli anni dell’ex URSS, un Paese rosso, ma socialmente in bianco e nero

di Felice Laudadio

Ci si può fidare di uno sconosciuto che precisa di non essere chi ha appena dichiarato di essere? L’avvocato Lucio Manacorda segue sempre l’istinto e questa volta gli dice di fidarsi di questo sedicente colonnello Verdi, che qui afferma questa identità e qui la nega, allo stesso tempo. Qui? Al tavolino di un bar, a Torino, dove ha convocato con una scusa il protagonista del romanzo Il treno da Mosca, un giallo classico di spionaggio alla Graham Greene, con sfumature introspettive, pubblicato da Oltre Edizioni di Sestri Levante nel 2019 e scritto da Maurizio Lo Re (370 pagine).

La trama non si sviluppa oggi, ma si colloca alla fine degli anni Settanta del Novecento, età di muri, di cortina di ferro, di guerra fredda e di apparati spionistici in azione. Non che non lo siano tuttora, ma volete mettere cosa combinavano allora, in un’Europa più grigia che a colori?
Da diplomatico di lungo corso, Lo Re conosce bene il dietro le quinte della materia che ha scelto di trattare nella sua singolare psycho spy story. È stato ambasciatore italiano a Riga, in Lettonia, tra il 2000 e il 2004, in un territorio da poco desovietizzato, visto che la Russia ha concesso nel 1991 l’indipendenza allo stato baltico, entrato poi dal 2004 nell’Unione Europea. Ha potuto assimilare la memoria delle atmosfere corrucciate del regime comunista e ne ha tratto ispirazione per gli appunti annotati un po’ alla volta, che riuniti da un buon filo conduttore narrativo sono diventati questo racconto, nato poco a poco.

Pur ancorandosi a vicende autentiche e citando qualche personaggio autentico (l’autore si è ispirato ad un diplomatico, Michele Lanza, che ha giocato un ruolo importante nell’Ambasciata di Berlino in un periodo delicato della cobelligeranza italiana con Hitler), questo resta un romanzo con tutti i crismi, il primo di uno scrittore storicamente competente che si è dedicato soprattutto alla produzione saggistica.
Il treno (Mosca-Venezia) suggerisce la dinamica dello spostamento. Il periodo (fine anni Settanta, primi anni Ottanta) si cala in una fase di comunicazione controllata e piena di sospetti tra due mondi: una democrazia occidentale e l’universo opaco, impenetrabile, dominato dagli apparati con la Stella Rossa e la falce e martello.
Se spionaggio ha da essere che sia industriale, sembra essersi detto l’ambasciatore scrittore.

Davanti al colonnello Verdi, l’avv. Manacorda si sente trasparente, vivisezionato. L’interlocutore, un cinquantenne con gli abiti stazzonati e un chiaro accento meridionale (dissimulato da un’improbabile cadenza piemontese), dimostra di sapere tutto di lui. A sedici anni, nel 1944 Lucio è stato nella Resistenza, staffetta partigiana. Dopo la guerra ha militato nel PCI, ma una carriera brillante nel partito si è interrotta nel 1956, con l’invasione dell’Ungheria: i carri armati russi nelle strade di Budapest lo hanno spinto a restituire la tessera con sdegno, senza più aderire a una forza politica. Dopo la laurea in legge, demotivato da un amore infranto ha interrotto il praticantato legale e si è occupato come ragioniere in una fabbrichetta, salvo riprendere gli studi venticinque anni più avanti, superare l’esame di Stato, iscriversi all’albo dei procuratori legali e diventare il brillante braccio destro del titolare dello studio legale presso il quale lavora.

La conoscenza di tanti particolari conferma l’impressione che l’uomo davanti a lui sia un agente dei Servizi. Si è presentato come colonnello Verdi, tenendo subito a precisare che non è il suo vero nome e non si limita a sciorinare dati del suo curriculum alla portata di qualsiasi questurino, ma dimostra d’essere al corrente di considerazioni che Manacorda non si è sognato di rivelare a nessuno. Mai aveva esternato il disagio d’essersi rintanato in un monolocale a leggere gialli, mentre nella società e nella politica si andavano scatenando nel Paese i moti popolari di Genova del 1960 e le proteste di piazza del 1962 durante la campagna per il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici, vicende che avevano mobilitato tutti i progressisti, l’intera sinistra ma non Manacorda. Poi l’invasione della Cecoslovacchia, la strategia degli opposti estremismi, il terrorismo, la stagione delle Brigate Rosse, l’eurocomunismo, l’avvicinamento del Partito Comunista Italiano all’area di governo. Il mondo finiva sottosopra e lui niente, tranquillo, nella sua nicchia al buio.
L’ufficiale sa tante cose di Lucio e tante altre ne aggiunge Lucio stesso, ripensando dentro di sé al proprio passato con inquietudine, indeciso se chiudere ancora la porta a passioni e sentimenti o lasciarsi andare alle emozioni, una volta per tutte.

Cosa gli chiederà il colonnello che non-è-quello-che-dice-di-essere? Cosa vorrà da proporgli di fare, che lo condurrà a prendere contatti col mondo oltre cortina, in cui sventola la bandiera rossa e la gente ha poco di tutto, ancora meno libertà?
Nell’Europa dell’Est e nella Russia comunista, fanno quasi compassione i cittadini di uno Stato smisurato in cui era smisurata anche la negazione dei diritti più ordinari.
Che dire? È una storia di spionaggio, narrativa che si addice all’URSS, un Paese rosso, ma socialmente in bianco e nero.



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OGT newspaper
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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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