CATALOGO      AUTORI      APPROFONDIMENTI      EVENTI      ARTE & ARTISTI      UNIVERSITÀ

Login (se sei già registrato) oppure Registrati
Oltre edizioni

Login (se sei già registrato) oppure Registrati
Jean Sénac: il Mediterraneo del Pasolini d’Algeria
Caffè dei Giornalisti di lunedì 13 luglio 2020
Intervista con Ilaria Guidantoni, la curatrice del volume

di Federico Ferrero
Ilaria Guidantoni, fiorentina, laureata in filosofia teoretica alla Cattolica di Milano, è giornalista e scrittrice. Profonda conoscitrice della cultura del Mediterraneo, si è appassionata alla vicenda umana e alla produzione letteraria di Jean Sénac, di cui ha curato e tradotto la raccolta di opere Per una terra possibile e il romanzo Ritratto incompiuto del padre.

In quali circostanze ha avvicinato l’opera di Jean Sénac?
«Una strana coincidenza, anche se è accaduto nella terra natale di Sénac, l’Algeria. Avevo concluso un reportage sul paese ed ero all’aeroporto di Algeri dove ho trovato la rivista di critica letteraria LivrEsq, con un numero monografico dedicato ad Albert Camus e al suo entourage nell’ambito del quale era citato anche il poeta Jean Sénac, definito “Il Pasolini d’Algeria”. Era l’inizio del 2015, tra l’altro, e ci avvicinavamo a celebrare i quarant’anni dall’assassinio dell’intellettuale italiano. Impossibile non restarne colpiti. Una volta in Italia, ho faticato a trovare una sua opera e anche in Francia non è stato semplice. La curiosità e cresciuta e quando ho letto il suo unico romanzo non romanzo, Ebauche du père, autobiografico, quasi un diario sentimentale, ne sono rimasta folgorata. Ho scoperto che nessuno lo aveva ancora tradotto».

Che cosa colpisce della poetica di Sénac?
«Una scrittura densa, forte, che scuote l’emotività, colta e ricercata ma completamente fuori dalle righe, difficile da etichettare. La sua prosa è poetica mentre la composizione poetica alterna rima e versi liberi, “spezzati”, all’interno di una stessa poesia. Nei suoi versi c’è una commistione incredibile tra lingue diverse, culture e riferimenti contraddittori, con metafore che citano il sacro e si ‘rovesciano’ sorprendentemente nell’allusione erotica. Interessante anche l’uso di neologismi, di parole ascoltate ma non riconducibili alla scrittura, e ancora termini arcaici, preziosi».

Per quale ragione è rimasto un autore tutto sommato sconosciuto al pubblico europeo?
«Perché era un personaggio scomodo, che la stessa Algeria ha cercato di dimenticare all’indomani di quella mattina del 30 agosto 1973 quando fu ritrovato cadavere nella sua cage-vigie, nella Casbah di Algeri. Un omicidio irrisolto che ricorda molto da vicino quello di Pasolini. Sénac è un “cristiano anarchico”, come lui stesso si definisce; radicalmente anti-francese, tanto che dopo un’amicizia simbiotica con Camus, nel quale vede il padre che non ha mai conosciuto – nato bastardo da una madre profondamente cattolica, intrisa di elementi di superstizione; il cognome è quello del secondo marito della madre che poi lo abbandonerà dopo avergli dato una sorellastra, alla quale sarà peraltro molto unito, Laurette – si consumerà una rottura radicale non rimarginata. Il suo sogno di un Mediterraneo unito è inclusivo, molto avanti sui tempi, tanto da non essere ancor’oggi messo a fuoco. La statura del personaggio è quello che lo ha penalizzato: non essere etichettabile, in fondo come Pasolini. Uomo che non si è schierato con un partito, non si è assimilato all’intellettuale engagé, non si è schierato però in un modo univoco dalla parte degli Algerini perché ad esempio ha sempre e solo scritto in francese. Nessuno è riuscito a farne una propria bandiera».

Quali passioni suscita e quali sfide ha rappresentato la traduzione e la cura del lavoro di Jean Sénac?
«La fascinazione di riscoprire un personaggio dimenticato, di scoprirne i legami con tanti intellettuali ben più noti, come Camus, il poeta René Char, suo amico e maestro in termini di poetica, il poeta Sauveur Galliéro e tutto quel mondo intellettuale algerino pendolare tra le due sponde del Mediterraneo. Il lavoro sulla lingua di Sénac è una sorta di hub letterario del “mare bianco di mezzo” che costringe a un viaggio di ricognizione molto complesso, un labirinto nel quale è facile perdersi ma che dischiude una grande ricchezza. Questo lavoro, ai confini della lingua, porta paradossalmente alla consapevolezza che qualcosa sfugge: ed è l’oralità, che viene meno nel testo scritto. Nei versi di Sénac si scorge l’immediatezza del vissuto emozionale che la parola scritta cerca di incardinare, fissare ma inevitabilmente resta un passo indietro rispetto alla voce. Per me è stato sia un lavoro di traduzione sia di ricostruzione storica, come ad esempio nel caso dei nomi e della toponomastica di luoghi che hanno cambiato denominazione a seconda delle dominazioni, e che lasciano scorgere le stratificazioni tipiche delle civiltà mediterranee. Oppure nel lungo poema ‘Min djibalina’, letteralmente ‘Dalle nostre montagne’, canzone tra le più note della resistenza algerina, scritta da Mohamed Mahboub Stambouli; così come nella serie di composizione dedicate a intellettuali algerini e franco algerini e ad artisti del Mediterraneo».

Cosa significava “identità mediterranea”, per Sénac?
«Il racconto di sé, nel romanzo, è una sintesi perfetta del suo spirito: “Sono nato arabo, spagnolo, berbero, ebreo, francese. Sono nato mozabite, e costruttore di minareti, figlio della grande tenda e gazzella della savana”. La sua biografia è un romanzo mediterraneo: nato a Béni-Saf vicino orano in Algeria, figlio bastardo di emigrati spagnoli. Con la madre cattolica parla spagnolo; cresce in un quartiere popolare ebraico, cresce tra arabi, ‘berberi’, francesi, e ancora cristiani, musulmani, ebrei ed eredi di tradizioni culturali animiste: una formazione scolastica francese e una ricerca personale girovaga. Il suo è un Mediterraneo occidentale che confina con il deserto, talora aggressivo, feroce, dove la bellezza non ha niente a che vedere con il Mediterraneo mitico, apollineo evocato da Camus. Soprattutto, è un coacervo di popoli. “Il mare qui vi prende alla gola e non vi lascia più. Presenta anche penosamente l’amicizia al sole”, scrive nella prima lettera a René Char. E’ un’affermazione molto forte e non priva di contraddittorietà. Nella sua poetica il sole ha un posto essenziale: Sénac si firma infatti con un sole a cinque raggi e una delle raccolte è I passi di Helios, mitologico, conturbante, un sole che rende ferocemente felici ma che è oscuro. Il Mediterraneo si configura come un vero e proprio ossimoro».

Cosa è rimasto, ai giorni nostri, del Mediterraneo fisico e spirituale che Sénac raccontava e viveva?
«Il mondo storico è scomparso non solo in Algeria ma in tutto il bacino mediterraneo. Resta però quello spirito profondo di fratellanza, quel mito carnale del Mediterraneo come ‘letto coniugale’, totalmente inattuato. Sénac è un pungolo, una traccia che vale la pena percorrere».

In quali delle forme artistiche in cui si è cimentato trova che Sénac sia stato più efficace?
«Sénac è uno degli ultimi intellettuali ‘enciclopedici’, grande disegnatore, dedito alla musica, al cinema, conduttore radiofonico, autore di un unico romanzo che sarebbe dovuto essere a suo dire una sorta di Recherche proustiana fermandosi invece al primo volume, in una sorta di sospensione della fine ed è stato soprattutto poeta. La sua vita è poesia perché per Sénac la poesia è rivoluzione allo stato puro e, soprattutto dopo lo scoppio della guerra d’indipendenza algerina nel 1954, la sua vita intellettuale si sovrappone totalmente all’impegno civile, non diventando però un intellettuale militante ma un poeta autenticamente tale che nella sua visione non può essere che militante».

Quali messaggi della sua opera sono ancora attuali nel Mediterraneo e nell’Europa meridionale di oggi?
«L’inclusività. L’apertura che non si riduce ad un fronteggiarsi di punti di vista diversi. Il mondo che sogna per l’Algeria, ad esempio, è una comunione tra i due popoli di bellezza, arabi e berberi appunto. Ancor oggi il paradosso è che la lotta per la libertà porta sempre ad un’oppressione della parte sconfitta. Un orizzonte comunque ottuso che Sénac aveva superato».

Sembrano esserci forti punti in comune forti tra la poetica di Sénac e quella di Pasolini, non solo il loro comune e tragico destino. Quali sono?
«Come scrive Diletta D’Ascia (nel suo saggio all’interno di Ritratto incompiuto del padre, il romanzo di Sénac), la sceneggiatrice e critica cinematografica che ha studiato in modo approfondito Pasolini, i punti di contatto tra i due intellettuali sono molti. A cominciare dall’abbandono del madre, l’amore simbiotico con la madre, la fuga e l’’emigrazione’, la vita in un quartiere popolare, la trasgressività intrecciata a un forte anelito al sacro e ancora la versatilità intellettuale che li fa conoscere soprattutto come personaggi; meno per la loro autentica essenza, quella di poeti scomodi alla fine ricusati dal mondo conservatore come da quello più trasgressivo. Personaggi che sfuggono a facili etichette rassicuranti. Pasolini, diversamente da Sénac, arriverà al successo, anche economico – ma il contesto è molto diverso – e non romperà con la madre, come invece a un certo punto accade a Sénac. Ma, al di là dell’omicidio violento, dell’apparenza di un omicidio politico nel senso più ampio del termine, travestito da un atto moralizzatore – con una risoluzione analoga a quella subita dallo stesso Garcia Lorca – ci sono affinità ancora più profonde. Al centro delle vite di Sénac e di Pasolini la poesia che non è solo un’espressione letteraria ma una visione della vita: qui le affinità sono molte, come l’uso della lingua molto colta e, a un tempo, intrecciata alla lingua popolare e al dialetto, utilizzati però in modo non veristico. Si può accennare all’onnipresente incombere del sole che assume, come dice lui, una «funzione bipolare» grazie a una serie di opposizioni, chiaro-scuro, luce-buio, fecondare-inaridire, vita-morte… E ciò avviene in entrambi i poeti. Ora il Mediterraneo ricostruito da Pasolini è un ideale e un archetipo, ma anche un mondo in pericolo, soggetto al “genocidio culturale” insito nel modello di sviluppo occidentale come si evidenzia nel documentario La Rabbia (1965), nella sequenza dedicata all’Algeria. Per Sénac, invece, il mito del Mediterraneo è da costruire in un sogno rivoluzionario.
C’è un attaccamento feroce alla terra madre nei due poeti e anche la ricerca di un destino comune tra l’io, la ricerca del Padre, più evidente in Sénac, e quella del Paese-Patria ma anche Padre celeste. Entrambi infatti si paragonano al Cristo verso il quale provano un anelito che sa di voluttà».

Che rapporti c’erano tra Sénac e autori illustri come Camus e Char?
«Con il pittore Sauveur Galliéro, Camus e Char formano una triade ideale di amici, nel senso più profondo del termine amicizia, una complicità di menti e cuori. Galliéro è maestro di vita, è compagno di formazione con il quale parte alla volta della Francia, a Lourmarin, grazie a una borsa di studio che vincono uno per le arti e l’altro per la poesia; René Char è il suo maestro letterario dal quale attinge per l’iconopoiesi, il doppio senso, l’ambiguità portata all’estremo fino al non-sense, questa modernità compositiva data dalla fluidità che abbandona completamente lo schema compositivo riconosciuto come poesia. E forse non è un caso che anche René Char non sia più letto neppure in Francia. Albert Camus è per Sénac il padre che non ha avuto, che lo sostiene anche dal punto di vista economico (Sénac avrà sempre problemi di soldi), il punto di riferimento che lo introduce negli ambienti esistenzialisti francesi, il maître de l’absolu che però tratta il poeta, a suo dire, ad un certo punto quando il rapporto si incrina, da égorgeur, da “sgozzatore”, spietato assassino. E’ in qualche modo l’alter ego, il polo opposto della stessa sfera, così come antitetica quanto complementare è la loro visione del Mediterraneo».

Nella Lettera a un mare chiuso per una società aperta che lei, Ilaria Guidantoni, ha scritto recentemente, denuncia il fatto che si sia perso il contatto tra la sponda nord e sud del Mediterraneo. Su quali basi – linguistiche, economiche, religiose, culturali, sociali – si può fondare la costruzione, o ricostruzione, di una comunità mediterranea?
«La consapevolezza della storia che si conosce molto poco e in modo parziale e distorto. Basti pensare alla trascrizione di Didone rispetto alla figura fenicia (libanese) di Elyssa e al modello che Cartagine ha rappresentato ad esempio per la Tunisia. La lingua, che ritengo non sia solo uno strumento di comunicazione ma una visione del pensiero, consente di svelare la complessità di questo mare, che è un continente liquido. Sulle orme della lingua, possiamo comprendere che non si parla solo di corrispondenze o di evoluzione lineare ma di una circolarità intrecciata. Tanto che è difficile, in alcuni casi, capire per esempio se è la lingua araba ad aver preso un termine dal latino o dal greco, o viceversa. Basterebbe ricordare quanto Dante debba alla cultura arabo-musulmana, o quanto la dottrina della Chiesa cristiano-cattolica – che ha preso come riferimento la tradizione aristotelico-tomista – debba ai traduttori arabi come Ibn-Sīnā (noto come Avicenna) o Ibn-Rushd (noto come Averroè). La ricchezza delle differenze non è solo un obiettivo etico, quanto un’opportunità».


leggi l'articolo integrale su Caffè dei Giornalisti
SCHEDA LIBRO   |   Segnala  |  Ufficio Stampa


CATALOGO      AUTORI      APPROFONDIMENTI      EVENTI      ARTE & ARTISTI      UNIVERSITÀ

Login (se sei già registrato) oppure Registrati
Oltre edizioni

Login (se sei già registrato) oppure Registrati
Caffè dei Giornalisti - lunedì 13 luglio 2020
Intervista con Ilaria Guidantoni, la curatrice del volume

di Federico Ferrero
Ilaria Guidantoni, fiorentina, laureata in filosofia teoretica alla Cattolica di Milano, è giornalista e scrittrice. Profonda conoscitrice della cultura del Mediterraneo, si è appassionata alla vicenda umana e alla produzione letteraria di Jean Sénac, di cui ha curato e tradotto la raccolta di opere Per una terra possibile e il romanzo Ritratto incompiuto del padre.

In quali circostanze ha avvicinato l’opera di Jean Sénac?
«Una strana coincidenza, anche se è accaduto nella terra natale di Sénac, l’Algeria. Avevo concluso un reportage sul paese ed ero all’aeroporto di Algeri dove ho trovato la rivista di critica letteraria LivrEsq, con un numero monografico dedicato ad Albert Camus e al suo entourage nell’ambito del quale era citato anche il poeta Jean Sénac, definito “Il Pasolini d’Algeria”. Era l’inizio del 2015, tra l’altro, e ci avvicinavamo a celebrare i quarant’anni dall’assassinio dell’intellettuale italiano. Impossibile non restarne colpiti. Una volta in Italia, ho faticato a trovare una sua opera e anche in Francia non è stato semplice. La curiosità e cresciuta e quando ho letto il suo unico romanzo non romanzo, Ebauche du père, autobiografico, quasi un diario sentimentale, ne sono rimasta folgorata. Ho scoperto che nessuno lo aveva ancora tradotto».

Che cosa colpisce della poetica di Sénac?
«Una scrittura densa, forte, che scuote l’emotività, colta e ricercata ma completamente fuori dalle righe, difficile da etichettare. La sua prosa è poetica mentre la composizione poetica alterna rima e versi liberi, “spezzati”, all’interno di una stessa poesia. Nei suoi versi c’è una commistione incredibile tra lingue diverse, culture e riferimenti contraddittori, con metafore che citano il sacro e si ‘rovesciano’ sorprendentemente nell’allusione erotica. Interessante anche l’uso di neologismi, di parole ascoltate ma non riconducibili alla scrittura, e ancora termini arcaici, preziosi».

Per quale ragione è rimasto un autore tutto sommato sconosciuto al pubblico europeo?
«Perché era un personaggio scomodo, che la stessa Algeria ha cercato di dimenticare all’indomani di quella mattina del 30 agosto 1973 quando fu ritrovato cadavere nella sua cage-vigie, nella Casbah di Algeri. Un omicidio irrisolto che ricorda molto da vicino quello di Pasolini. Sénac è un “cristiano anarchico”, come lui stesso si definisce; radicalmente anti-francese, tanto che dopo un’amicizia simbiotica con Camus, nel quale vede il padre che non ha mai conosciuto – nato bastardo da una madre profondamente cattolica, intrisa di elementi di superstizione; il cognome è quello del secondo marito della madre che poi lo abbandonerà dopo avergli dato una sorellastra, alla quale sarà peraltro molto unito, Laurette – si consumerà una rottura radicale non rimarginata. Il suo sogno di un Mediterraneo unito è inclusivo, molto avanti sui tempi, tanto da non essere ancor’oggi messo a fuoco. La statura del personaggio è quello che lo ha penalizzato: non essere etichettabile, in fondo come Pasolini. Uomo che non si è schierato con un partito, non si è assimilato all’intellettuale engagé, non si è schierato però in un modo univoco dalla parte degli Algerini perché ad esempio ha sempre e solo scritto in francese. Nessuno è riuscito a farne una propria bandiera».

Quali passioni suscita e quali sfide ha rappresentato la traduzione e la cura del lavoro di Jean Sénac?
«La fascinazione di riscoprire un personaggio dimenticato, di scoprirne i legami con tanti intellettuali ben più noti, come Camus, il poeta René Char, suo amico e maestro in termini di poetica, il poeta Sauveur Galliéro e tutto quel mondo intellettuale algerino pendolare tra le due sponde del Mediterraneo. Il lavoro sulla lingua di Sénac è una sorta di hub letterario del “mare bianco di mezzo” che costringe a un viaggio di ricognizione molto complesso, un labirinto nel quale è facile perdersi ma che dischiude una grande ricchezza. Questo lavoro, ai confini della lingua, porta paradossalmente alla consapevolezza che qualcosa sfugge: ed è l’oralità, che viene meno nel testo scritto. Nei versi di Sénac si scorge l’immediatezza del vissuto emozionale che la parola scritta cerca di incardinare, fissare ma inevitabilmente resta un passo indietro rispetto alla voce. Per me è stato sia un lavoro di traduzione sia di ricostruzione storica, come ad esempio nel caso dei nomi e della toponomastica di luoghi che hanno cambiato denominazione a seconda delle dominazioni, e che lasciano scorgere le stratificazioni tipiche delle civiltà mediterranee. Oppure nel lungo poema ‘Min djibalina’, letteralmente ‘Dalle nostre montagne’, canzone tra le più note della resistenza algerina, scritta da Mohamed Mahboub Stambouli; così come nella serie di composizione dedicate a intellettuali algerini e franco algerini e ad artisti del Mediterraneo».

Cosa significava “identità mediterranea”, per Sénac?
«Il racconto di sé, nel romanzo, è una sintesi perfetta del suo spirito: “Sono nato arabo, spagnolo, berbero, ebreo, francese. Sono nato mozabite, e costruttore di minareti, figlio della grande tenda e gazzella della savana”. La sua biografia è un romanzo mediterraneo: nato a Béni-Saf vicino orano in Algeria, figlio bastardo di emigrati spagnoli. Con la madre cattolica parla spagnolo; cresce in un quartiere popolare ebraico, cresce tra arabi, ‘berberi’, francesi, e ancora cristiani, musulmani, ebrei ed eredi di tradizioni culturali animiste: una formazione scolastica francese e una ricerca personale girovaga. Il suo è un Mediterraneo occidentale che confina con il deserto, talora aggressivo, feroce, dove la bellezza non ha niente a che vedere con il Mediterraneo mitico, apollineo evocato da Camus. Soprattutto, è un coacervo di popoli. “Il mare qui vi prende alla gola e non vi lascia più. Presenta anche penosamente l’amicizia al sole”, scrive nella prima lettera a René Char. E’ un’affermazione molto forte e non priva di contraddittorietà. Nella sua poetica il sole ha un posto essenziale: Sénac si firma infatti con un sole a cinque raggi e una delle raccolte è I passi di Helios, mitologico, conturbante, un sole che rende ferocemente felici ma che è oscuro. Il Mediterraneo si configura come un vero e proprio ossimoro».

Cosa è rimasto, ai giorni nostri, del Mediterraneo fisico e spirituale che Sénac raccontava e viveva?
«Il mondo storico è scomparso non solo in Algeria ma in tutto il bacino mediterraneo. Resta però quello spirito profondo di fratellanza, quel mito carnale del Mediterraneo come ‘letto coniugale’, totalmente inattuato. Sénac è un pungolo, una traccia che vale la pena percorrere».

In quali delle forme artistiche in cui si è cimentato trova che Sénac sia stato più efficace?
«Sénac è uno degli ultimi intellettuali ‘enciclopedici’, grande disegnatore, dedito alla musica, al cinema, conduttore radiofonico, autore di un unico romanzo che sarebbe dovuto essere a suo dire una sorta di Recherche proustiana fermandosi invece al primo volume, in una sorta di sospensione della fine ed è stato soprattutto poeta. La sua vita è poesia perché per Sénac la poesia è rivoluzione allo stato puro e, soprattutto dopo lo scoppio della guerra d’indipendenza algerina nel 1954, la sua vita intellettuale si sovrappone totalmente all’impegno civile, non diventando però un intellettuale militante ma un poeta autenticamente tale che nella sua visione non può essere che militante».

Quali messaggi della sua opera sono ancora attuali nel Mediterraneo e nell’Europa meridionale di oggi?
«L’inclusività. L’apertura che non si riduce ad un fronteggiarsi di punti di vista diversi. Il mondo che sogna per l’Algeria, ad esempio, è una comunione tra i due popoli di bellezza, arabi e berberi appunto. Ancor oggi il paradosso è che la lotta per la libertà porta sempre ad un’oppressione della parte sconfitta. Un orizzonte comunque ottuso che Sénac aveva superato».

Sembrano esserci forti punti in comune forti tra la poetica di Sénac e quella di Pasolini, non solo il loro comune e tragico destino. Quali sono?
«Come scrive Diletta D’Ascia (nel suo saggio all’interno di Ritratto incompiuto del padre, il romanzo di Sénac), la sceneggiatrice e critica cinematografica che ha studiato in modo approfondito Pasolini, i punti di contatto tra i due intellettuali sono molti. A cominciare dall’abbandono del madre, l’amore simbiotico con la madre, la fuga e l’’emigrazione’, la vita in un quartiere popolare, la trasgressività intrecciata a un forte anelito al sacro e ancora la versatilità intellettuale che li fa conoscere soprattutto come personaggi; meno per la loro autentica essenza, quella di poeti scomodi alla fine ricusati dal mondo conservatore come da quello più trasgressivo. Personaggi che sfuggono a facili etichette rassicuranti. Pasolini, diversamente da Sénac, arriverà al successo, anche economico – ma il contesto è molto diverso – e non romperà con la madre, come invece a un certo punto accade a Sénac. Ma, al di là dell’omicidio violento, dell’apparenza di un omicidio politico nel senso più ampio del termine, travestito da un atto moralizzatore – con una risoluzione analoga a quella subita dallo stesso Garcia Lorca – ci sono affinità ancora più profonde. Al centro delle vite di Sénac e di Pasolini la poesia che non è solo un’espressione letteraria ma una visione della vita: qui le affinità sono molte, come l’uso della lingua molto colta e, a un tempo, intrecciata alla lingua popolare e al dialetto, utilizzati però in modo non veristico. Si può accennare all’onnipresente incombere del sole che assume, come dice lui, una «funzione bipolare» grazie a una serie di opposizioni, chiaro-scuro, luce-buio, fecondare-inaridire, vita-morte… E ciò avviene in entrambi i poeti. Ora il Mediterraneo ricostruito da Pasolini è un ideale e un archetipo, ma anche un mondo in pericolo, soggetto al “genocidio culturale” insito nel modello di sviluppo occidentale come si evidenzia nel documentario La Rabbia (1965), nella sequenza dedicata all’Algeria. Per Sénac, invece, il mito del Mediterraneo è da costruire in un sogno rivoluzionario.
C’è un attaccamento feroce alla terra madre nei due poeti e anche la ricerca di un destino comune tra l’io, la ricerca del Padre, più evidente in Sénac, e quella del Paese-Patria ma anche Padre celeste. Entrambi infatti si paragonano al Cristo verso il quale provano un anelito che sa di voluttà».

Che rapporti c’erano tra Sénac e autori illustri come Camus e Char?
«Con il pittore Sauveur Galliéro, Camus e Char formano una triade ideale di amici, nel senso più profondo del termine amicizia, una complicità di menti e cuori. Galliéro è maestro di vita, è compagno di formazione con il quale parte alla volta della Francia, a Lourmarin, grazie a una borsa di studio che vincono uno per le arti e l’altro per la poesia; René Char è il suo maestro letterario dal quale attinge per l’iconopoiesi, il doppio senso, l’ambiguità portata all’estremo fino al non-sense, questa modernità compositiva data dalla fluidità che abbandona completamente lo schema compositivo riconosciuto come poesia. E forse non è un caso che anche René Char non sia più letto neppure in Francia. Albert Camus è per Sénac il padre che non ha avuto, che lo sostiene anche dal punto di vista economico (Sénac avrà sempre problemi di soldi), il punto di riferimento che lo introduce negli ambienti esistenzialisti francesi, il maître de l’absolu che però tratta il poeta, a suo dire, ad un certo punto quando il rapporto si incrina, da égorgeur, da “sgozzatore”, spietato assassino. E’ in qualche modo l’alter ego, il polo opposto della stessa sfera, così come antitetica quanto complementare è la loro visione del Mediterraneo».

Nella Lettera a un mare chiuso per una società aperta che lei, Ilaria Guidantoni, ha scritto recentemente, denuncia il fatto che si sia perso il contatto tra la sponda nord e sud del Mediterraneo. Su quali basi – linguistiche, economiche, religiose, culturali, sociali – si può fondare la costruzione, o ricostruzione, di una comunità mediterranea?
«La consapevolezza della storia che si conosce molto poco e in modo parziale e distorto. Basti pensare alla trascrizione di Didone rispetto alla figura fenicia (libanese) di Elyssa e al modello che Cartagine ha rappresentato ad esempio per la Tunisia. La lingua, che ritengo non sia solo uno strumento di comunicazione ma una visione del pensiero, consente di svelare la complessità di questo mare, che è un continente liquido. Sulle orme della lingua, possiamo comprendere che non si parla solo di corrispondenze o di evoluzione lineare ma di una circolarità intrecciata. Tanto che è difficile, in alcuni casi, capire per esempio se è la lingua araba ad aver preso un termine dal latino o dal greco, o viceversa. Basterebbe ricordare quanto Dante debba alla cultura arabo-musulmana, o quanto la dottrina della Chiesa cristiano-cattolica – che ha preso come riferimento la tradizione aristotelico-tomista – debba ai traduttori arabi come Ibn-Sīnā (noto come Avicenna) o Ibn-Rushd (noto come Averroè). La ricchezza delle differenze non è solo un obiettivo etico, quanto un’opportunità».


leggi l'articolo integrale su Caffè dei Giornalisti
SCHEDA LIBRO   |   Stampa   |   Segnala  |  Ufficio Stampa

TUTTI GLI EVENTI

OGT newspaper
oggi
01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

LEGGI TUTTO