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'La professoressa Da Ros' di Paolo Del Conte
SOLOLIBRI.NET di domenica 13 settembre 2020
Un romanzo di formazione, scolastica e sociale. La generazione che ha pił impresso il cambiamento: i ricordi di un ginnasiale del ’68, poi docente di lettere nella scuola per un quarantennio

di Felice Laudadio
Paolo Del Conte suona, Paolo Del Conte scrive. Lombardo del 1953, ha accompagnato per anni con la chitarra acustica grandi cantautori come Lucio Dalla Bruno Lauzi, Ron. Dopo la svolta creativa come narratore, è arrivato nelle librerie col primo libro ufficiale, La professoressa Da Ros, scoperto da Bruno Zandel e arruolato nella sua scuderia di autori nuovi per le Edizioni Oltre
Una professoressa nel titolo, una classe nella trama e un liceo, per gli adolescenti della fine degli anni Sessanta microcosmo totalizzante in un mondo che correva verso il futuro e non era più lo stesso da un giorno all’altro. Il cambiamento veniva impresso proprio dai giovani, coi capelli lunghi i maschi, lisci le ragazze e i pantaloni a zampa d’elefante gli uni e le altre. Impossibile dimenticare quella esperienza per chi l’ha vissuta: gli studenti erano protagonisti come mai prima, avevano provato a rivendicare un ruolo nella società e avevano sfondato facilmente. Si erano ritrovati a dettare il passo nelle novità, nei consumi, finanche nella politica e nel modo di concepire la realtà nel suo complesso. Erano acerbi ma motivati, più alti di una spalla, non solo fisicamente, di una compagine sociale di “matusa” grigi, musoni, lenti nel progredire e nel comprendere. Quei ragazzi del ’68 e anni seguenti erano più diversi dai genitori - e ci tenevano a dimostrarlo in ogni atteggiamento - di quanto non lo fossero state decine generazioni rispetto alle precedenti. Fino al 1965, gli universitari portavano i capelli corti tagliati alti sulla fronte, inforcavano occhiali con le montature severe di celluloide nera o marrone, indossavano abiti coi colori seri, senza fantasia. L’unica trasgressione erano le feste delle matricole, parentesi di goliardia sfrenata tollerate dagli adulti, a condizione che restassero provvisorie, contingenti, nello spazio e nel tempo. D’improvviso, i giovani si accesero di colori e immaginazione: i capelli si allungarono, le gonne si accorciarono. Casacche con le frange e bluse a fiori sostituirono le classiche camicie bianche, dalle aule sparirono i grembiuli neri che le studentesse erano costrette a indossare anche negli ultimi anni di corso. Oltre alle università, le scuole superiori erano il vero laboratorio del cambiamento, soprattutto i licei classici, e Paolo ha frequentato il Berchet, la madre di tutte le fucine della contestazione studentesca sessantottina a Milano.
Del Conte ha vissuto la scuola da una parte e dall’altra dei banchi, da studente, di quinta ginnasio, a quindici anni, l’età del romanzo, e da docente di lettere per un quarantennio, a latere della professione di musicista.
Ma di tutti i decenni passati a imparare e insegnare, quegli anni nel Berchet hanno lasciato il segno e ritornano, vivi, nel romanzo.
Una bigiata collettiva, dell’intera classe, il primo giorno di primavera, a marzo –altrove si chiama “fare filone”, “fare X” o in altri modi l’assentarsi clandestino degli alunni – è l’occasione nel romanzo per rivivere e far rivivere quel modo d’essere giovani e protagonisti.
Un sonnellino di troppo in treno, una sosta imprevista a Firenze, l’incontro con un compagno di liceo tra i più simpatici allora fanno tornare il prof. Paolo Del Conte ai tempi del ginnasiale Del Conte Paolo.
La parola che ricorreva tra gli studenti in quegli anni era: libertà. Di trascurare ad esempio quello “che l’autorità ci voleva far studiare”, non tanto per indolenza ma per il vento nuovo che soffiava. No al nozionismo, no all’autoritarismo, no a una scuola calata dall’alto e poi un sacco di altre idee.
Erano anni strani, rivolti al cambiamento, tormentati e bellissimi, di libri chiusi e di menti aperte. Il mondo non era più lo stesso e i giovanissimi si trovavano a loro agio in questo cambiamento

“alla ricerca di un’identità che solo il tempo avrebbe potuto definire, ma che con acerba inesperienza cercavamo di mostrare comunque a quel mondo adulto a cui avevamo dichiarato guerra”.

C’era la consapevolezza di assumere responsabilità, provocando reazioni inevitabili, dure, sulle giovani spalle.
Andare a scuola era bellissimo. Era un mondo nel quale in tanti si riconoscevano: amici, ragazze, il torneo di calcio, lo stare insieme, le prime discussioni di politica. E anche qualche bella lezione (qui affiora il docente di lungo corso). Impossibile una scuola senza i professori, sublimati in Bianca Da Ros, distinta cinquantenne, rocciosa friulana. Quattro ore al giorno con lei al ginnasio: insegnava italiano, latino, greco, storia e geografia, aveva un modo beffardo di mettere in difficoltà l’interrogato e tuttavia, ma “a modo suo, molto suo”, si affezionava e sapeva volere bene. Un bene da primi anni Settanta, sia chiaro, “niente effusioni”.
La quinta ginnasio era uno snodo di conferma e di guerra, ci si doveva dimostrare pronti al triennio del liceo, che avrebbe lanciato la futura classe dirigente del Paese verso il futuro, scolastico e non.

“Poi, otterrete il nulla osta per navigare verso altri lidi, ma ora siete dei marinai semplici e dovete solo eseguire gli ordini.”

Una forma di nonnismo degli adulti, vittime che si erano trasformate in carnefici. Era il viatico affidato da una generazione all’altra, ma quella del ’68, piaccia o meno, ha dato ai tempi e ai costumi una svolta mai vista prima.


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Un romanzo di formazione, scolastica e sociale. La generazione che ha pił impresso il cambiamento: i ricordi di un ginnasiale del ’68, poi docente di lettere nella scuola per un quarantennio

di Felice Laudadio
Paolo Del Conte suona, Paolo Del Conte scrive. Lombardo del 1953, ha accompagnato per anni con la chitarra acustica grandi cantautori come Lucio Dalla Bruno Lauzi, Ron. Dopo la svolta creativa come narratore, è arrivato nelle librerie col primo libro ufficiale, La professoressa Da Ros, scoperto da Bruno Zandel e arruolato nella sua scuderia di autori nuovi per le Edizioni Oltre
Una professoressa nel titolo, una classe nella trama e un liceo, per gli adolescenti della fine degli anni Sessanta microcosmo totalizzante in un mondo che correva verso il futuro e non era più lo stesso da un giorno all’altro. Il cambiamento veniva impresso proprio dai giovani, coi capelli lunghi i maschi, lisci le ragazze e i pantaloni a zampa d’elefante gli uni e le altre. Impossibile dimenticare quella esperienza per chi l’ha vissuta: gli studenti erano protagonisti come mai prima, avevano provato a rivendicare un ruolo nella società e avevano sfondato facilmente. Si erano ritrovati a dettare il passo nelle novità, nei consumi, finanche nella politica e nel modo di concepire la realtà nel suo complesso. Erano acerbi ma motivati, più alti di una spalla, non solo fisicamente, di una compagine sociale di “matusa” grigi, musoni, lenti nel progredire e nel comprendere. Quei ragazzi del ’68 e anni seguenti erano più diversi dai genitori - e ci tenevano a dimostrarlo in ogni atteggiamento - di quanto non lo fossero state decine generazioni rispetto alle precedenti. Fino al 1965, gli universitari portavano i capelli corti tagliati alti sulla fronte, inforcavano occhiali con le montature severe di celluloide nera o marrone, indossavano abiti coi colori seri, senza fantasia. L’unica trasgressione erano le feste delle matricole, parentesi di goliardia sfrenata tollerate dagli adulti, a condizione che restassero provvisorie, contingenti, nello spazio e nel tempo. D’improvviso, i giovani si accesero di colori e immaginazione: i capelli si allungarono, le gonne si accorciarono. Casacche con le frange e bluse a fiori sostituirono le classiche camicie bianche, dalle aule sparirono i grembiuli neri che le studentesse erano costrette a indossare anche negli ultimi anni di corso. Oltre alle università, le scuole superiori erano il vero laboratorio del cambiamento, soprattutto i licei classici, e Paolo ha frequentato il Berchet, la madre di tutte le fucine della contestazione studentesca sessantottina a Milano.
Del Conte ha vissuto la scuola da una parte e dall’altra dei banchi, da studente, di quinta ginnasio, a quindici anni, l’età del romanzo, e da docente di lettere per un quarantennio, a latere della professione di musicista.
Ma di tutti i decenni passati a imparare e insegnare, quegli anni nel Berchet hanno lasciato il segno e ritornano, vivi, nel romanzo.
Una bigiata collettiva, dell’intera classe, il primo giorno di primavera, a marzo –altrove si chiama “fare filone”, “fare X” o in altri modi l’assentarsi clandestino degli alunni – è l’occasione nel romanzo per rivivere e far rivivere quel modo d’essere giovani e protagonisti.
Un sonnellino di troppo in treno, una sosta imprevista a Firenze, l’incontro con un compagno di liceo tra i più simpatici allora fanno tornare il prof. Paolo Del Conte ai tempi del ginnasiale Del Conte Paolo.
La parola che ricorreva tra gli studenti in quegli anni era: libertà. Di trascurare ad esempio quello “che l’autorità ci voleva far studiare”, non tanto per indolenza ma per il vento nuovo che soffiava. No al nozionismo, no all’autoritarismo, no a una scuola calata dall’alto e poi un sacco di altre idee.
Erano anni strani, rivolti al cambiamento, tormentati e bellissimi, di libri chiusi e di menti aperte. Il mondo non era più lo stesso e i giovanissimi si trovavano a loro agio in questo cambiamento

“alla ricerca di un’identità che solo il tempo avrebbe potuto definire, ma che con acerba inesperienza cercavamo di mostrare comunque a quel mondo adulto a cui avevamo dichiarato guerra”.

C’era la consapevolezza di assumere responsabilità, provocando reazioni inevitabili, dure, sulle giovani spalle.
Andare a scuola era bellissimo. Era un mondo nel quale in tanti si riconoscevano: amici, ragazze, il torneo di calcio, lo stare insieme, le prime discussioni di politica. E anche qualche bella lezione (qui affiora il docente di lungo corso). Impossibile una scuola senza i professori, sublimati in Bianca Da Ros, distinta cinquantenne, rocciosa friulana. Quattro ore al giorno con lei al ginnasio: insegnava italiano, latino, greco, storia e geografia, aveva un modo beffardo di mettere in difficoltà l’interrogato e tuttavia, ma “a modo suo, molto suo”, si affezionava e sapeva volere bene. Un bene da primi anni Settanta, sia chiaro, “niente effusioni”.
La quinta ginnasio era uno snodo di conferma e di guerra, ci si doveva dimostrare pronti al triennio del liceo, che avrebbe lanciato la futura classe dirigente del Paese verso il futuro, scolastico e non.

“Poi, otterrete il nulla osta per navigare verso altri lidi, ma ora siete dei marinai semplici e dovete solo eseguire gli ordini.”

Una forma di nonnismo degli adulti, vittime che si erano trasformate in carnefici. Era il viatico affidato da una generazione all’altra, ma quella del ’68, piaccia o meno, ha dato ai tempi e ai costumi una svolta mai vista prima.


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OGT newspaper
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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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