CATALOGO      AUTORI      APPROFONDIMENTI      EVENTI      ARTE & ARTISTI      UNIVERSITÀ

Login (se sei già registrato) oppure Registrati
Oltre edizioni

Login (se sei già registrato) oppure Registrati
Quel delitto del ’56
Mangialibri di giovedģ 15 ottobre 2020


di Giuseppe Cirillo

Nel 1956, in uno dei giorni “clou” della storica nevicata che scende sulla Capitale, un tramviere scorge ciò che gli sembra il lembo di una giacca sporgere da un cumulo di neve; decide di fermare il mezzo, scende, spala un po’: si tratta di un cadavere. Ha al collo un fil di ferro che è stato legato ad una rete posta alle sue spalle; è chiaro che trattasi di omicidio, visto che ha anche un foro sulla nuca e il suddetto fil di ferro è stato usato simbolicamente, solo per rappresentazione scenica. Stessa motivazione, ossia quella di spettacolare avvertimento, di efficace monito, ha l’aver posto il cadavere esattamente al di sotto di un cartello “Pericolo di morte”, uno di quelli che avvisano di non toccare i fili elettrici. A giungere per primi sul luogo sono un Maresciallo dei Carabinieri ex partigiano ed un commissario di polizia, i quali si rendono perfettamente conto di quanto appena esposto, ma successivamente la pratica passa al cosiddetto U.A.R. (l’Ufficio Affari Riservati) che fa di tutto non solo per archiviare l’accaduto, qualificandolo come suicidio contro qualsiasi logica fattuale e razionale, ma altresì cerca di convincere, mediante pressione sui vertici dell’Arma, il Maresciallo a pensare solo all’imminente raggiungimento della pensione, visto che, invece, molto incuriosito, si sta appassionando con enorme impegno in un’indagine che - gli ribadiscono duramente – non gli compete. Il Maresciallo però non s’arrende, e con la collaborazione di suo figlio, militante della locale sezione della FGCI, e di molti dei suoi amici “compagni” della sezione, scopre che il morto aveva non molti giorni prima partecipato ad una riunione proprio in Sezione, durante la celebrazione di un anniversario della nascita del PCI. Non solo il futuro cadavere, ma anche altre due persone erano state viste partecipare, solo in quell’unica circostanza, ad una riunione della Sezione Comunista; erano insomma degli “estranei” o quantomeno dei novizi, ed è proprio su questa singolarità che il Maresciallo sente di dover indagare in modo approfondito per scoprire tutta la verità…

Questo breve romanzo (ispirato ad un vero fatto di cronaca, il cosiddetto “delitto del ponte”, tuttora irrisolto), a metà strada tra il giallo ed il saggio di riflessione politica, ha due chiari punti di forza, e – numericamente – forse ancor più punti di debolezza. I punti di forza, che complessivamente “salvano” il libro, sono la sincera, profonda passione politica che l’autore riversa nell’opera, passione talmente lucida e trasparente che, credo, possa destare ammirazione anche in chi non abbraccia – o non ha abbracciato in passato – la medesima ideologia; e la perfetta conoscenza degli avvenimenti storici che vanno dall’inizio della seconda guerra Mondiale alla cosiddetta “guerra fredda”, narrati in sintesi con molta precisione e senza che mai il punto di vista ideologico filtri talmente la realtà da distorcerla. L’aspetto che davvero mi ha affascinato - e su cui a mio avviso l’autore avrebbe dovuto insistere di più - sono le analisi che, di tanto in tanto, affiorano nel corso della narrazione, su quali eventi situati cronologicamente tra il ’46 e i primi anni ’60 sono stati davvero fondamentali per arrivare allo scenario politico e sociale attuale, o, per dirla diversamente, in quali aspetti la “vera sinistra”, quella del PCI dal dopoguerra sino a Berlinguer, pur in tutte le diverse fasi che essa ha attraversato, “manca” davvero a questo Paese, persino a chi, pur militando rigorosamente dall’altra parte, si rende conto che una vera sinistra è necessaria per la stabilità e l’equilibrio di tutto il sistema politico italiano. Certo, approfondire questo aspetto avrebbe sbilanciato i toni dell’opera da giallo con coloriture di saggio politico a saggio politico con accenni di trama “gialla”, ma credo che il romanzo ne avrebbe beneficiato, perché così com’è soffre di una certa indecisione nei toni utilizzati. In fondo allo stesso autore ciò che più sta a cuore è ricostruire la reale situazione di quegli anni, le tensioni che si avvertivano sia all’interno della militanza comunista (e che meno di vent’anni dopo avrebbero portato a Lotta Continua oltre che alle stesse Brigate Rosse, per chi crede alla loro genuinità almeno “di nascita”), sia all’esterno di essa, e utilizzare il fatto storico dell’episodio delittuoso per darne una verosimile chiave di lettura che al tempo stesso fungesse da cornice entro la quale approfondire tutti gli aspetti sopra elencati. L’episodio di partenza, seppur forse quantitativamente più “presente” nel libro rispetto agli approfondimenti politici e ideologici, vede meno fervore, meno partecipazione sentimentale dell’autore, s’intende insomma che si tratta di un aspetto quasi esclusivamente strumentale: prenderne coscienza e articolare diversamente la struttura del libro, a mio avviso, ne avrebbe potuto rappresentare una svolta. Una curiosità: nel personaggio del Maresciallo Quattrucci rappresenta autobiograficamente tutto ciò ch’egli ricorda del carattere, della vita, del lavoro di suo padre.



leggi l'articolo integrale su Mangialibri
SCHEDA LIBRO   |   Segnala  |  Ufficio Stampa


CATALOGO      AUTORI      APPROFONDIMENTI      EVENTI      ARTE & ARTISTI      UNIVERSITÀ

Login (se sei già registrato) oppure Registrati
Oltre edizioni

Login (se sei già registrato) oppure Registrati
Mangialibri - giovedģ 15 ottobre 2020


di Giuseppe Cirillo

Nel 1956, in uno dei giorni “clou” della storica nevicata che scende sulla Capitale, un tramviere scorge ciò che gli sembra il lembo di una giacca sporgere da un cumulo di neve; decide di fermare il mezzo, scende, spala un po’: si tratta di un cadavere. Ha al collo un fil di ferro che è stato legato ad una rete posta alle sue spalle; è chiaro che trattasi di omicidio, visto che ha anche un foro sulla nuca e il suddetto fil di ferro è stato usato simbolicamente, solo per rappresentazione scenica. Stessa motivazione, ossia quella di spettacolare avvertimento, di efficace monito, ha l’aver posto il cadavere esattamente al di sotto di un cartello “Pericolo di morte”, uno di quelli che avvisano di non toccare i fili elettrici. A giungere per primi sul luogo sono un Maresciallo dei Carabinieri ex partigiano ed un commissario di polizia, i quali si rendono perfettamente conto di quanto appena esposto, ma successivamente la pratica passa al cosiddetto U.A.R. (l’Ufficio Affari Riservati) che fa di tutto non solo per archiviare l’accaduto, qualificandolo come suicidio contro qualsiasi logica fattuale e razionale, ma altresì cerca di convincere, mediante pressione sui vertici dell’Arma, il Maresciallo a pensare solo all’imminente raggiungimento della pensione, visto che, invece, molto incuriosito, si sta appassionando con enorme impegno in un’indagine che - gli ribadiscono duramente – non gli compete. Il Maresciallo però non s’arrende, e con la collaborazione di suo figlio, militante della locale sezione della FGCI, e di molti dei suoi amici “compagni” della sezione, scopre che il morto aveva non molti giorni prima partecipato ad una riunione proprio in Sezione, durante la celebrazione di un anniversario della nascita del PCI. Non solo il futuro cadavere, ma anche altre due persone erano state viste partecipare, solo in quell’unica circostanza, ad una riunione della Sezione Comunista; erano insomma degli “estranei” o quantomeno dei novizi, ed è proprio su questa singolarità che il Maresciallo sente di dover indagare in modo approfondito per scoprire tutta la verità…

Questo breve romanzo (ispirato ad un vero fatto di cronaca, il cosiddetto “delitto del ponte”, tuttora irrisolto), a metà strada tra il giallo ed il saggio di riflessione politica, ha due chiari punti di forza, e – numericamente – forse ancor più punti di debolezza. I punti di forza, che complessivamente “salvano” il libro, sono la sincera, profonda passione politica che l’autore riversa nell’opera, passione talmente lucida e trasparente che, credo, possa destare ammirazione anche in chi non abbraccia – o non ha abbracciato in passato – la medesima ideologia; e la perfetta conoscenza degli avvenimenti storici che vanno dall’inizio della seconda guerra Mondiale alla cosiddetta “guerra fredda”, narrati in sintesi con molta precisione e senza che mai il punto di vista ideologico filtri talmente la realtà da distorcerla. L’aspetto che davvero mi ha affascinato - e su cui a mio avviso l’autore avrebbe dovuto insistere di più - sono le analisi che, di tanto in tanto, affiorano nel corso della narrazione, su quali eventi situati cronologicamente tra il ’46 e i primi anni ’60 sono stati davvero fondamentali per arrivare allo scenario politico e sociale attuale, o, per dirla diversamente, in quali aspetti la “vera sinistra”, quella del PCI dal dopoguerra sino a Berlinguer, pur in tutte le diverse fasi che essa ha attraversato, “manca” davvero a questo Paese, persino a chi, pur militando rigorosamente dall’altra parte, si rende conto che una vera sinistra è necessaria per la stabilità e l’equilibrio di tutto il sistema politico italiano. Certo, approfondire questo aspetto avrebbe sbilanciato i toni dell’opera da giallo con coloriture di saggio politico a saggio politico con accenni di trama “gialla”, ma credo che il romanzo ne avrebbe beneficiato, perché così com’è soffre di una certa indecisione nei toni utilizzati. In fondo allo stesso autore ciò che più sta a cuore è ricostruire la reale situazione di quegli anni, le tensioni che si avvertivano sia all’interno della militanza comunista (e che meno di vent’anni dopo avrebbero portato a Lotta Continua oltre che alle stesse Brigate Rosse, per chi crede alla loro genuinità almeno “di nascita”), sia all’esterno di essa, e utilizzare il fatto storico dell’episodio delittuoso per darne una verosimile chiave di lettura che al tempo stesso fungesse da cornice entro la quale approfondire tutti gli aspetti sopra elencati. L’episodio di partenza, seppur forse quantitativamente più “presente” nel libro rispetto agli approfondimenti politici e ideologici, vede meno fervore, meno partecipazione sentimentale dell’autore, s’intende insomma che si tratta di un aspetto quasi esclusivamente strumentale: prenderne coscienza e articolare diversamente la struttura del libro, a mio avviso, ne avrebbe potuto rappresentare una svolta. Una curiosità: nel personaggio del Maresciallo Quattrucci rappresenta autobiograficamente tutto ciò ch’egli ricorda del carattere, della vita, del lavoro di suo padre.



leggi l'articolo integrale su Mangialibri
SCHEDA LIBRO   |   Stampa   |   Segnala  |  Ufficio Stampa

TUTTI GLI EVENTI

OGT newspaper
oggi
01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

LEGGI TUTTO