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'Quel delitto del ’56' di Mario Quattrucci
SOLOLIBRI.NET di domenica 18 ottobre 2020
Un cadavere a Roma, in un mucchio di neve sotto il ponte di una consolare che scavalca la ferrovia. Una storia vera subito rimossa e rimasta senza spiegazioni, che ha tormentato per decenni l’autore

di Felice Laudadio

“È morto e non certo de freddo, ma guardate voi commissa’. È tutto vostro”.

Nessun dubbio, quell’omicidio è un suicidio, l’ha scritto pure il giornale, quattro righe in cronaca, poi niente più. Sopra un “montarozzetto de neve”, il corpo si presentava decisamente in “figura di cadavere de morto”, ma l’hanno dimenticato tutti in fretta. Non Mario Quattrucci, però, che gli ha dedicato un romanzo, Quel delitto del ‘56, pubblicato da Oltre edizioni nel 2020 (134 pagine).

Era imbiancata Roma, il 19 febbraio del 1956. La capitale era sotto la neve da più di una settimana. Temperature polari, notte e giorno. Un evento infrequente per l’Urbe Eterna. C’era un cadavere - e questo è un evento più frequente in una grande città - nel quartiere Appio, sotto il ponte di un’antica via consolare che scavalca la ferrovia. Un tranviere, passando “per sbajo”, aveva notato “quarcosa de nero”, che affiorava da un cumulo bianco. Un cappotto, una manica, poi una mano, alla fine una faccia. Morto era morto. Come, era un’altra faccenda. Non si capiva. Ma non era stato ucciso nel luogo in cui era stato trovato.

In queste poche battute si fa strada il giallo, ch’è pure politico e che Quattrucci ha reso mirabilmente nel suo lavoro, proposto da Diego Zandel nella collana Letture dal mondo, che cura insieme alle altre della casa editrice di Sestri Levante. Non tra i polizieschi, quindi, perché l’episodio non è un semplice crimine, entra tra i misteri italiani, come altri, tra mafia, strategia della tensione, terrorismo. Un fattaccio di quelli che capitano nella città dei “pasticciacci brutti”, un fatterello però, una macchia minuscola sulla tela del tempo.
Il caso, rubricato nel gergo giuridico-poliziesco come “fatto suicidiario”, venne presto abbandonato e non tornò più alla luce, nonostante le evidenti contraddizioni rispetto alla presunta morte per atto volontario. Oggi Mario Quattrucci offre la verità su quella vicenda, maturata in un contesto politico e partitico e che non fu mai conosciuta, o meglio, non fu mai rivelata.

Quattrucci, classe 1936, impegnato dal 1953 nella vita politica e sociale, ha insegnato nell’istituto di studi comunisti, è entrato nel comitato centrale del PCI, è stato consigliere circoscrizionale, comunale, provinciale. Da giornalista ha collaborato con testate e riviste di sinistra, da autore è il papà del commissario Marè, protagonista di una quindicina di romanzi di indagini cocciute e da cittadino è figlio di un sottufficiale dei Carabinieri decorato in guerra e per la partecipazione alla Resistenza, che pure invitato a lasciar perdere non trascurò di condurre indagini, in quel 1956.
Nel romanzo il padre c’è, è il maresciallo Conciarelli, 57 anni, prossimo alla pensione, già partigiano. E c’è anche il figlio, che nelle pagine si chiama Mimmo, a volte Dom, un ventenne che milita in Giustizia e Libertà, la formazione resistenziale del Partito d’Azione.

Tocca alla Questura l’inchiesta sul morto, defunto altrove e “apparecchiato” da qualcuno e per qualche motivo sul montarozzo di neve, nei pressi di una sezione del Partito Comunista. Ma il maresciallo Conciarelli vuole sapere, non si accontenta della traballante versione del suicidio accreditata senza se e senza ma. Vuole andare a fondo, tanto più perché ha saputo che il caso è stato avocato della Sezione Affari Riservati, gli “spioni” della Direzione Generale della Pubblica Sicurezza, i mastini della legge Scelba.
La bufera che colpì quell’anno la capitale era niente in confronto al terremoto internazionale che ebbe per epicentro nel 1956 Mosca e l’Ungheria e che sconvolse le coscienze di tanti comunisti. Fu “l’anno in cui divenimmo altra cosa”, scrive l’autore. Impegnati in un profondo travaglio, seppero poco e tardi di quella storia minima, nelle immediate vicinanze. Forse nemmeno volevano sapere.

“Un uomo di circa 70 anni, per ora sconosciuto, è stato trovato morto per suicidio lungo la via consolare, appoggiato alla spalletta del ponte che la suddetta strada forma sulla ferrovia. Il suo corpo era quasi del tutto ricoperto dalla neve, quindi il suicidio risale certamente alla notte tra il 18 e il 19. La Questura indaga”.

Un trafiletto e niente più, senza dire nulla sulla causa del suicidio, sull’arma, né foto né particolari, perfino il luogo restava non detto: una via consolare, un ponticello sulla ferrovia. Quale fosse, tra Roma e chissà dove, veniva lasciato all’immaginazione.
Avevano ucciso ed esposto il cadavere sotto i loro occhi, a un passo dalle loro case. Una “morte inferta con studio”, rimossa, cancellata.
Quella storia vera è rimasta sotto la sotto la pelle di Mario Quattrucci e lo ha tormentato, perché aveva a che fare col suo essere comunista. Oggi ha fatto pace con la verità. A distanza di decenni, la vicenda si può raccontare e chiarire. Anzi, si deve, anche per lasciare una traccia dell’Italia di allora.



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Un cadavere a Roma, in un mucchio di neve sotto il ponte di una consolare che scavalca la ferrovia. Una storia vera subito rimossa e rimasta senza spiegazioni, che ha tormentato per decenni l’autore

di Felice Laudadio

“È morto e non certo de freddo, ma guardate voi commissa’. È tutto vostro”.

Nessun dubbio, quell’omicidio è un suicidio, l’ha scritto pure il giornale, quattro righe in cronaca, poi niente più. Sopra un “montarozzetto de neve”, il corpo si presentava decisamente in “figura di cadavere de morto”, ma l’hanno dimenticato tutti in fretta. Non Mario Quattrucci, però, che gli ha dedicato un romanzo, Quel delitto del ‘56, pubblicato da Oltre edizioni nel 2020 (134 pagine).

Era imbiancata Roma, il 19 febbraio del 1956. La capitale era sotto la neve da più di una settimana. Temperature polari, notte e giorno. Un evento infrequente per l’Urbe Eterna. C’era un cadavere - e questo è un evento più frequente in una grande città - nel quartiere Appio, sotto il ponte di un’antica via consolare che scavalca la ferrovia. Un tranviere, passando “per sbajo”, aveva notato “quarcosa de nero”, che affiorava da un cumulo bianco. Un cappotto, una manica, poi una mano, alla fine una faccia. Morto era morto. Come, era un’altra faccenda. Non si capiva. Ma non era stato ucciso nel luogo in cui era stato trovato.

In queste poche battute si fa strada il giallo, ch’è pure politico e che Quattrucci ha reso mirabilmente nel suo lavoro, proposto da Diego Zandel nella collana Letture dal mondo, che cura insieme alle altre della casa editrice di Sestri Levante. Non tra i polizieschi, quindi, perché l’episodio non è un semplice crimine, entra tra i misteri italiani, come altri, tra mafia, strategia della tensione, terrorismo. Un fattaccio di quelli che capitano nella città dei “pasticciacci brutti”, un fatterello però, una macchia minuscola sulla tela del tempo.
Il caso, rubricato nel gergo giuridico-poliziesco come “fatto suicidiario”, venne presto abbandonato e non tornò più alla luce, nonostante le evidenti contraddizioni rispetto alla presunta morte per atto volontario. Oggi Mario Quattrucci offre la verità su quella vicenda, maturata in un contesto politico e partitico e che non fu mai conosciuta, o meglio, non fu mai rivelata.

Quattrucci, classe 1936, impegnato dal 1953 nella vita politica e sociale, ha insegnato nell’istituto di studi comunisti, è entrato nel comitato centrale del PCI, è stato consigliere circoscrizionale, comunale, provinciale. Da giornalista ha collaborato con testate e riviste di sinistra, da autore è il papà del commissario Marè, protagonista di una quindicina di romanzi di indagini cocciute e da cittadino è figlio di un sottufficiale dei Carabinieri decorato in guerra e per la partecipazione alla Resistenza, che pure invitato a lasciar perdere non trascurò di condurre indagini, in quel 1956.
Nel romanzo il padre c’è, è il maresciallo Conciarelli, 57 anni, prossimo alla pensione, già partigiano. E c’è anche il figlio, che nelle pagine si chiama Mimmo, a volte Dom, un ventenne che milita in Giustizia e Libertà, la formazione resistenziale del Partito d’Azione.

Tocca alla Questura l’inchiesta sul morto, defunto altrove e “apparecchiato” da qualcuno e per qualche motivo sul montarozzo di neve, nei pressi di una sezione del Partito Comunista. Ma il maresciallo Conciarelli vuole sapere, non si accontenta della traballante versione del suicidio accreditata senza se e senza ma. Vuole andare a fondo, tanto più perché ha saputo che il caso è stato avocato della Sezione Affari Riservati, gli “spioni” della Direzione Generale della Pubblica Sicurezza, i mastini della legge Scelba.
La bufera che colpì quell’anno la capitale era niente in confronto al terremoto internazionale che ebbe per epicentro nel 1956 Mosca e l’Ungheria e che sconvolse le coscienze di tanti comunisti. Fu “l’anno in cui divenimmo altra cosa”, scrive l’autore. Impegnati in un profondo travaglio, seppero poco e tardi di quella storia minima, nelle immediate vicinanze. Forse nemmeno volevano sapere.

“Un uomo di circa 70 anni, per ora sconosciuto, è stato trovato morto per suicidio lungo la via consolare, appoggiato alla spalletta del ponte che la suddetta strada forma sulla ferrovia. Il suo corpo era quasi del tutto ricoperto dalla neve, quindi il suicidio risale certamente alla notte tra il 18 e il 19. La Questura indaga”.

Un trafiletto e niente più, senza dire nulla sulla causa del suicidio, sull’arma, né foto né particolari, perfino il luogo restava non detto: una via consolare, un ponticello sulla ferrovia. Quale fosse, tra Roma e chissà dove, veniva lasciato all’immaginazione.
Avevano ucciso ed esposto il cadavere sotto i loro occhi, a un passo dalle loro case. Una “morte inferta con studio”, rimossa, cancellata.
Quella storia vera è rimasta sotto la sotto la pelle di Mario Quattrucci e lo ha tormentato, perché aveva a che fare col suo essere comunista. Oggi ha fatto pace con la verità. A distanza di decenni, la vicenda si può raccontare e chiarire. Anzi, si deve, anche per lasciare una traccia dell’Italia di allora.



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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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