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Miss Marx, la figlia del Capitale. Biografia pop di Barbara Minniti
Corriere AL di marted 20 ottobre 2020


di Angelo Marenzana

All’appuntamento domenicale con ALlibri è presente oggi Barbara Minniti, giornalista professionista, per anni cronista in un quotidiano romano, passata poi alla comunicazione pubblica e al giornalismo storico-scientifico, finché non si è scoperta anche scrittrice. E in questa veste, Barbara Minniti ci propone Miss Marx, la figlia del Capitale (volue pubblicato da Oltre Edizioni), ovvero la Biografia Pop di Eleanor Marx, detta Tussy, donna dal cognome che oggi sarebbe pesante da portare.

Questa sua biografia (da cui è stato tratto l’ominimo film presentato in anteprima il 5 settembre 2020 alla 77sima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia) ci riporta nel mondo della Londra della seconda rivoluzione industriale, ripercorrendo le fasi della breve ma intensa vita di una donna che ha saputo conquistare un ruolo di rilievo nella società del tempo.

Il racconto, dallo stile quasi discorsivo, è arricchito da approfondimenti sul caso del presunto figlio illegittimo di Marx e da riferimenti continui alla nostra attualità. Non manca un’appendice di curiosità, fatti e personaggi, nonché una bibliografia con pubblicazioni recenti per chi volesse saperne di più. Alla sua nascita nel 1855 a Londra, Eleanor era solo l’ultima figlia di un esule politico tedesco che viveva con la sua famiglia in due misere stanze a Soho, trascorrendo le giornate nella biblioteca del British Museum senza una sterlina in tasca e una sfilza di creditori al portone di casa.

Al momento della nascita di Eleanor il marxismo era soltanto agli albori, ma Tussy crescerà con le due sorelle, nell’ambiente del nascente socialismo internazionale, influenzata dalle elaborazioni paterne e dello “zio” Engels, che faranno di lei la naturale erede del pensiero dei due grandi leader del comunismo. Un fardello che condizionerà tutta la sua vita di donna, innamorata del padre e della sua elefantiaca e stimolante intelligenza, ma anche intimamente decisa a costruire la propria autonomia con l’impegno politico, sindacale e culturale nell’Inghilterra vittoriana. L’incontro e la lunga relazione con un compagno di lotte e di apparenti affinità elettive le sarà fatale e la sua convinzione di saper reggere la pressione di un rapporto, volontariamente non vincolante, la porterà al suicidio all’età di 43 anni.

Buona lettura con un estratto di Miss Marx, la figlia del Capitale. Una biografia Pop.

 

 

Non sappiamo se Gertrude Gentry, tornata a casa dopo aver riconsegnato il libro dei veleni al farmacista, cacciò il classico grido di orrore hitchcockiano.

La sua padrona era stesa sul letto semivestita, la bava alla bocca, il volto bluastro, il rantolo del moribondo.

Possiamo però immaginare Gertrude, una sciatta servetta,  scarmigliata e pallida, forse di origini fiamminghe, mentre, una mano sulla bocca, decide cosa fare. Il padrone non c’è, in casa solo lei e la povera signora che, evidentemente, ha deciso di farla finita tracannando l’acido prussico che le era stato  consegnato solo una mezzora prima, insieme col cloroformio.

Era andata lei dal farmacista, con un biglietto in cui si chiedeva di affidarle il veleno per i cani e il libro da firmare per la consegna. Sapeva che l’acido non era destinato ad alcun cane, ma questo non era affar suo. Le era passato per la testa il pensiero che, nel caso di una morte prematura, le sarebbe toccato trovarsi un altro posto, e aveva fatto spallucce. I suoi padroni non le erano particolarmente simpatici, lei troppo nervosa ultimamente, lui malato e bisognoso di assistenza. E poi non erano sposati, una situazione alquanto disdicevole per lei, che  aspirava a diventare una cameriera con buone referenze. Ma non è detto che la ragazza fosse cinica come tutti i domestici dell’epoca, e non è escluso che invece volesse bene ai suoi datori di lavoro, con i quali del resto conviveva ormai da parecchi anni.

Col cuore in gola corse verso la casa della vicina, la buona signora Kell, per chiedere aiuto. I minuti passavano e Gertrude non sapeva cosa avrebbe trovato tornando al capezzale della padrona. Con la vicina salì nella stanza da letto che odorava di mandorle amare, dove trovarono la donna ormai quasi fredda.

Era morta? Se aveva preso il veleno, c’era ben poco da fare per lei. La signora Kell la mandò di fretta a chiamare il medico. E i minuti passavano.

Il vecchio dottor Shackleton (in realtà all’epoca aveva 51 anni) conosceva la suicida, così come conosceva un po’ tutti gli abitanti del quartiere Sydenham a sud di Londra, noto per ospitare il Crystal Palace, lì trasferito da Hyde Park dopo la Grande Esposizione del 1851.

Non gli ci volle molto per stabilire che la donna era morta da circa due ore, dopo aver ingerito acido prussico, cioè acido cianidrico, dal quale il pesticida poi utilizzato col nome di Zyklon B  come agente tossico nelle camere a gas di alcuni campi di sterminio nazisti, e che in pochi secondi e in minima quantità manda all’altro mondo, e non in modo idilliaco. E chissà come aveva deciso per il cianuro, invece dell’arsenico che conosceva bene, almeno virtualmente, visto che aveva tradotto dal francese per il pubblico britannico Madame Bovary. O forse, lo considerava poco affidabile, visto che il padre, anni prima lo aveva utilizzato, su consiglio di Engels,  per curare le crisi  acute di mal di fegato con conseguenti ascessi purulenti, poi da lui marzialmente aggrediti e temporaneamente sconfitti a colpi di rasoio (rasoio ricevuto in eredità da un suo compagno di lotte). Può anche darsi che, per un assurdo sentimentalismo familiare, l’avesse scelto perché aveva a che fare con la Prussia. Del resto, anche sua sorella e suo cognato, parecchi anni più tardi, decideranno di fare la stessa identica fine.

Come la sua eroina, comunque, aveva deciso di togliersi la vita, benché nessuno nel suo caso avrebbe potuto decretare una diagnosi di bovarismo. Se c’era una donna in tutta Londra più lontana dalle illusioni nevrotiche e dai sogni estranianti di Emma, quella sembrava lei. Sembrava.

I minuti e le ore successive alla venuta del medico che stila una diagnosi di morte, sono sempre gli stessi: arrivo degli amici stravolti, donne piangenti, poliziotti costretti loro malgrado allo spiacevole compito di stilare un verbale, via vai di becchini, gli unici felici di poter fare un affare.

Se poi il morto è persona nota, è probabile che anche all’epoca, almeno in Inghilterra patria del giornalismo di cronaca,  i cronisti non rinunciassero a porre sotto assedio amici, vicini e poliziotti, per tornare in fretta in redazione con lo scoop della giornata e una serie di testimonianze più o meno attendibili.

E la notizia era abbastanza succulenta: Eleanor, detta Tussy, la figlia minore di Karl Marx, filosofo tedesco, si era uccisa col veleno nella sua casa di Jew’s Walk a Sydenham, Londra, all’età di 43 anni. Era il 31 marzo 1898.

Era o non era un suicidio? Chi aveva richiesto il veleno e firmato il libro del farmacista? Chi era a casa con Tussy quando lei aveva bevuto l’acido prussico? La morta aveva effettivamente seri motivi per farla finita o qualcuno l’aveva indotta al gesto estremo?

Tutte questi interrogativi ruotavano intorno ad una precisa persona: Edward Aveling, l’uomo con il quale Tussy conviveva ormai da una quindicina d’anni e che quella mattina era uscito da casa, malgrado fosse gravemente malato e quasi non si reggesse in piedi, poco prima che Gertrude rientrasse dopo la sua seconda commissione dal farmacista.

La reputazione di quest’uomo non era delle migliori e anche sfrondata dai pettegolezzi e dai giudizi molto soggettivi di chi poteva avercela con lui per un motivo o per un altro, restava nell’ambiente frequentato dai due, il dubbio che se anche materialmente Aveling non avesse costretto Tussy ad avvelenarsi, lui era comunque il responsabile morale di quella scelta disperata.



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Corriere AL - marted 20 ottobre 2020


di Angelo Marenzana

All’appuntamento domenicale con ALlibri è presente oggi Barbara Minniti, giornalista professionista, per anni cronista in un quotidiano romano, passata poi alla comunicazione pubblica e al giornalismo storico-scientifico, finché non si è scoperta anche scrittrice. E in questa veste, Barbara Minniti ci propone Miss Marx, la figlia del Capitale (volue pubblicato da Oltre Edizioni), ovvero la Biografia Pop di Eleanor Marx, detta Tussy, donna dal cognome che oggi sarebbe pesante da portare.

Questa sua biografia (da cui è stato tratto l’ominimo film presentato in anteprima il 5 settembre 2020 alla 77sima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia) ci riporta nel mondo della Londra della seconda rivoluzione industriale, ripercorrendo le fasi della breve ma intensa vita di una donna che ha saputo conquistare un ruolo di rilievo nella società del tempo.

Il racconto, dallo stile quasi discorsivo, è arricchito da approfondimenti sul caso del presunto figlio illegittimo di Marx e da riferimenti continui alla nostra attualità. Non manca un’appendice di curiosità, fatti e personaggi, nonché una bibliografia con pubblicazioni recenti per chi volesse saperne di più. Alla sua nascita nel 1855 a Londra, Eleanor era solo l’ultima figlia di un esule politico tedesco che viveva con la sua famiglia in due misere stanze a Soho, trascorrendo le giornate nella biblioteca del British Museum senza una sterlina in tasca e una sfilza di creditori al portone di casa.

Al momento della nascita di Eleanor il marxismo era soltanto agli albori, ma Tussy crescerà con le due sorelle, nell’ambiente del nascente socialismo internazionale, influenzata dalle elaborazioni paterne e dello “zio” Engels, che faranno di lei la naturale erede del pensiero dei due grandi leader del comunismo. Un fardello che condizionerà tutta la sua vita di donna, innamorata del padre e della sua elefantiaca e stimolante intelligenza, ma anche intimamente decisa a costruire la propria autonomia con l’impegno politico, sindacale e culturale nell’Inghilterra vittoriana. L’incontro e la lunga relazione con un compagno di lotte e di apparenti affinità elettive le sarà fatale e la sua convinzione di saper reggere la pressione di un rapporto, volontariamente non vincolante, la porterà al suicidio all’età di 43 anni.

Buona lettura con un estratto di Miss Marx, la figlia del Capitale. Una biografia Pop.

 

 

Non sappiamo se Gertrude Gentry, tornata a casa dopo aver riconsegnato il libro dei veleni al farmacista, cacciò il classico grido di orrore hitchcockiano.

La sua padrona era stesa sul letto semivestita, la bava alla bocca, il volto bluastro, il rantolo del moribondo.

Possiamo però immaginare Gertrude, una sciatta servetta,  scarmigliata e pallida, forse di origini fiamminghe, mentre, una mano sulla bocca, decide cosa fare. Il padrone non c’è, in casa solo lei e la povera signora che, evidentemente, ha deciso di farla finita tracannando l’acido prussico che le era stato  consegnato solo una mezzora prima, insieme col cloroformio.

Era andata lei dal farmacista, con un biglietto in cui si chiedeva di affidarle il veleno per i cani e il libro da firmare per la consegna. Sapeva che l’acido non era destinato ad alcun cane, ma questo non era affar suo. Le era passato per la testa il pensiero che, nel caso di una morte prematura, le sarebbe toccato trovarsi un altro posto, e aveva fatto spallucce. I suoi padroni non le erano particolarmente simpatici, lei troppo nervosa ultimamente, lui malato e bisognoso di assistenza. E poi non erano sposati, una situazione alquanto disdicevole per lei, che  aspirava a diventare una cameriera con buone referenze. Ma non è detto che la ragazza fosse cinica come tutti i domestici dell’epoca, e non è escluso che invece volesse bene ai suoi datori di lavoro, con i quali del resto conviveva ormai da parecchi anni.

Col cuore in gola corse verso la casa della vicina, la buona signora Kell, per chiedere aiuto. I minuti passavano e Gertrude non sapeva cosa avrebbe trovato tornando al capezzale della padrona. Con la vicina salì nella stanza da letto che odorava di mandorle amare, dove trovarono la donna ormai quasi fredda.

Era morta? Se aveva preso il veleno, c’era ben poco da fare per lei. La signora Kell la mandò di fretta a chiamare il medico. E i minuti passavano.

Il vecchio dottor Shackleton (in realtà all’epoca aveva 51 anni) conosceva la suicida, così come conosceva un po’ tutti gli abitanti del quartiere Sydenham a sud di Londra, noto per ospitare il Crystal Palace, lì trasferito da Hyde Park dopo la Grande Esposizione del 1851.

Non gli ci volle molto per stabilire che la donna era morta da circa due ore, dopo aver ingerito acido prussico, cioè acido cianidrico, dal quale il pesticida poi utilizzato col nome di Zyklon B  come agente tossico nelle camere a gas di alcuni campi di sterminio nazisti, e che in pochi secondi e in minima quantità manda all’altro mondo, e non in modo idilliaco. E chissà come aveva deciso per il cianuro, invece dell’arsenico che conosceva bene, almeno virtualmente, visto che aveva tradotto dal francese per il pubblico britannico Madame Bovary. O forse, lo considerava poco affidabile, visto che il padre, anni prima lo aveva utilizzato, su consiglio di Engels,  per curare le crisi  acute di mal di fegato con conseguenti ascessi purulenti, poi da lui marzialmente aggrediti e temporaneamente sconfitti a colpi di rasoio (rasoio ricevuto in eredità da un suo compagno di lotte). Può anche darsi che, per un assurdo sentimentalismo familiare, l’avesse scelto perché aveva a che fare con la Prussia. Del resto, anche sua sorella e suo cognato, parecchi anni più tardi, decideranno di fare la stessa identica fine.

Come la sua eroina, comunque, aveva deciso di togliersi la vita, benché nessuno nel suo caso avrebbe potuto decretare una diagnosi di bovarismo. Se c’era una donna in tutta Londra più lontana dalle illusioni nevrotiche e dai sogni estranianti di Emma, quella sembrava lei. Sembrava.

I minuti e le ore successive alla venuta del medico che stila una diagnosi di morte, sono sempre gli stessi: arrivo degli amici stravolti, donne piangenti, poliziotti costretti loro malgrado allo spiacevole compito di stilare un verbale, via vai di becchini, gli unici felici di poter fare un affare.

Se poi il morto è persona nota, è probabile che anche all’epoca, almeno in Inghilterra patria del giornalismo di cronaca,  i cronisti non rinunciassero a porre sotto assedio amici, vicini e poliziotti, per tornare in fretta in redazione con lo scoop della giornata e una serie di testimonianze più o meno attendibili.

E la notizia era abbastanza succulenta: Eleanor, detta Tussy, la figlia minore di Karl Marx, filosofo tedesco, si era uccisa col veleno nella sua casa di Jew’s Walk a Sydenham, Londra, all’età di 43 anni. Era il 31 marzo 1898.

Era o non era un suicidio? Chi aveva richiesto il veleno e firmato il libro del farmacista? Chi era a casa con Tussy quando lei aveva bevuto l’acido prussico? La morta aveva effettivamente seri motivi per farla finita o qualcuno l’aveva indotta al gesto estremo?

Tutte questi interrogativi ruotavano intorno ad una precisa persona: Edward Aveling, l’uomo con il quale Tussy conviveva ormai da una quindicina d’anni e che quella mattina era uscito da casa, malgrado fosse gravemente malato e quasi non si reggesse in piedi, poco prima che Gertrude rientrasse dopo la sua seconda commissione dal farmacista.

La reputazione di quest’uomo non era delle migliori e anche sfrondata dai pettegolezzi e dai giudizi molto soggettivi di chi poteva avercela con lui per un motivo o per un altro, restava nell’ambiente frequentato dai due, il dubbio che se anche materialmente Aveling non avesse costretto Tussy ad avvelenarsi, lui era comunque il responsabile morale di quella scelta disperata.



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OGT newspaper
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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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