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Carlo Bo, maestro di verità
Zona di disagio di venerdì 30 ottobre 2020


di Nicola Vacca
Il Novecento letterario italiano deve molto a Carlo Bo, intellettuale di levatura europea, principe indiscusso della critica letteraria, rettore dell’Università di Urbino dal 1947 al 2001, grandissimo e raffinato pensatore e creatore di intuizioni e di idee che oggi andrebbero riscoperte.
Quando mi è capitato tra le mani Carlo Bo, Agonista, il bellissimo saggio che Vincenzo Gueglio ha dedicato a questo grande maestro, ho subito pensato ai miei anni trascorsi a Urbino e alla fortuna che ho avuto nel conoscere di persona Carlo Bo e di aver conversato con lui ( io ero privilegiato perché essendo allievo di Don Italo Mancini, che era amico particolare del magnifico lettore, ho potuto incontrarlo spesso) ma soprattutto l’ho ascoltato mentre dissertava in maniera sublime di letteratura.
Ci voleva, a quasi vent’anni dalla sua morte, una riscoperta di questa grande e immensa figura della nostra letteratura.
Gueglio ha dedicato un libro davvero speciale a Carlo Bo. Oltre la critica letteraria ha scomodato anche il discorso filosofico per tratteggiare un profilo esaustivo di Bo, maestro di verità.
Ha ragione l’autore a definirlo così. Per la nostra cultura Carlo Bo è stato prima di tutto un indiscusso maestro di verità. «Bo – scrive Gueglio – è da molto tempo la voce che grida o mormora nel deserto. E il deserto siamo noi: noi terreno di sabbia e di pietre, d’indifferenza e di fastidio o di rifiuto aperto su cui cade la sua parola inutilmente ricca; noi il mondo remoto, distratto, incapace di attenzione e di ascolto».
Soltanto un grande maestro di verità poteva partorire la grande intuizione di Letteratura come vita. Nessuno dei nostri intellettuali, critici, poeti, moralisti, ha saputo stringere in un’unità così essenziale e convincente l’intreccio tra vita e letteratura.
Da questo intreccio indispensabile Bo guarda a un nuovo umanesimo, al bisogno di un’integrità dell’uomo.
Letteratura come vita è un modo di esistenza. La letteratura cade nell’orizzonte di Carlo Bo con la semplicità della vita stessa.
Tutto questo ha rappresentato una rivoluzione epocale che nasce dallo spiccato umanesimo di Carlo Bo, insostituibile maestro di verità che ha avuto un occhio di riguardo per la poesia, che è la sostanza stessa della vita, la dimensione dello spirito, in una parola la misura dell’uomo.
Ha ragione Vincenzo Gueglio quando scrive che nessuno come Bo ci ha mostrato l’anima nuda della poesia, straordinaria dignità della letteratura, la sua funzione di ricerca e di attestazione di verità: la sua profonda necessità.
Carlo Bo, Agonista è il ritratto perfetto dell’intellettuale ma soprattutto dell’uomo. L’autore con una preparazione filosofica e letteraria, andando oltre la critica letteraria, ha scavato a fondo nella coscienza affollata di Bo, riuscendo in trecentoventi pagine a restituirci attraverso la sua complessa e schietta umanità tutta la grandezza della sua personalità. Sì, Carlo Bo non è stato solo una delle più grandi coscienze della cultura europea e di quel grande Novecento che ci manca, ma soprattutto, rileggendo i suoi scritti, lo scopriamo ancora oggi un maestro di verità, di quelli autentici che ci farebbe ben e studiare in questo tempo in cui le parole sono vuoti esercizi di silenzio.

Nicola Vacca

(Vincenzo Gueglio, Carlo Bo, Agonista, Gammarò edizioni, pagine 320, € 21)


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Zona di disagio - venerdì 30 ottobre 2020


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Il Novecento letterario italiano deve molto a Carlo Bo, intellettuale di levatura europea, principe indiscusso della critica letteraria, rettore dell’Università di Urbino dal 1947 al 2001, grandissimo e raffinato pensatore e creatore di intuizioni e di idee che oggi andrebbero riscoperte.
Quando mi è capitato tra le mani Carlo Bo, Agonista, il bellissimo saggio che Vincenzo Gueglio ha dedicato a questo grande maestro, ho subito pensato ai miei anni trascorsi a Urbino e alla fortuna che ho avuto nel conoscere di persona Carlo Bo e di aver conversato con lui ( io ero privilegiato perché essendo allievo di Don Italo Mancini, che era amico particolare del magnifico lettore, ho potuto incontrarlo spesso) ma soprattutto l’ho ascoltato mentre dissertava in maniera sublime di letteratura.
Ci voleva, a quasi vent’anni dalla sua morte, una riscoperta di questa grande e immensa figura della nostra letteratura.
Gueglio ha dedicato un libro davvero speciale a Carlo Bo. Oltre la critica letteraria ha scomodato anche il discorso filosofico per tratteggiare un profilo esaustivo di Bo, maestro di verità.
Ha ragione l’autore a definirlo così. Per la nostra cultura Carlo Bo è stato prima di tutto un indiscusso maestro di verità. «Bo – scrive Gueglio – è da molto tempo la voce che grida o mormora nel deserto. E il deserto siamo noi: noi terreno di sabbia e di pietre, d’indifferenza e di fastidio o di rifiuto aperto su cui cade la sua parola inutilmente ricca; noi il mondo remoto, distratto, incapace di attenzione e di ascolto».
Soltanto un grande maestro di verità poteva partorire la grande intuizione di Letteratura come vita. Nessuno dei nostri intellettuali, critici, poeti, moralisti, ha saputo stringere in un’unità così essenziale e convincente l’intreccio tra vita e letteratura.
Da questo intreccio indispensabile Bo guarda a un nuovo umanesimo, al bisogno di un’integrità dell’uomo.
Letteratura come vita è un modo di esistenza. La letteratura cade nell’orizzonte di Carlo Bo con la semplicità della vita stessa.
Tutto questo ha rappresentato una rivoluzione epocale che nasce dallo spiccato umanesimo di Carlo Bo, insostituibile maestro di verità che ha avuto un occhio di riguardo per la poesia, che è la sostanza stessa della vita, la dimensione dello spirito, in una parola la misura dell’uomo.
Ha ragione Vincenzo Gueglio quando scrive che nessuno come Bo ci ha mostrato l’anima nuda della poesia, straordinaria dignità della letteratura, la sua funzione di ricerca e di attestazione di verità: la sua profonda necessità.
Carlo Bo, Agonista è il ritratto perfetto dell’intellettuale ma soprattutto dell’uomo. L’autore con una preparazione filosofica e letteraria, andando oltre la critica letteraria, ha scavato a fondo nella coscienza affollata di Bo, riuscendo in trecentoventi pagine a restituirci attraverso la sua complessa e schietta umanità tutta la grandezza della sua personalità. Sì, Carlo Bo non è stato solo una delle più grandi coscienze della cultura europea e di quel grande Novecento che ci manca, ma soprattutto, rileggendo i suoi scritti, lo scopriamo ancora oggi un maestro di verità, di quelli autentici che ci farebbe ben e studiare in questo tempo in cui le parole sono vuoti esercizi di silenzio.

Nicola Vacca

(Vincenzo Gueglio, Carlo Bo, Agonista, Gammarò edizioni, pagine 320, € 21)


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OGT newspaper
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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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