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L'albero delle immagini
La Repubblica - Fotocrazia di sabato 14 novembre 2020


di FOTOCRAZIA - Blog La Repubblica
Fu una strage. Per altri terribili eventi naturali usiamo le definizioni di catastrofe, disastro, cataclisma, ma quella che accadde nei tre giorni di tempesta Vaia, alla fine di ottobre del 2018, quando il vento abbatté 14 milioni di alberi tra Dolomiti e Veneto, non potemmo chiamarla altro che strage.

Chi vide quei boschi straziati, atterrati e ridotti a un gigantesco malefico gioco di shanghai, provò sentimenti di orrore e compianto e angoscia che somigliavano molto al lutto umano.
E questo accade perché se diciamo albero ci viene in mente di tutto, tranne la definizione da Treccani di “pianta perenne legnosa con fusto colonnare”. Gli alberi non sono botanica ma antropologia, ce li raccontano gli occhi e la mente, la percezione e la cultura.
Ce li raccontano dunque ora un fotografo e uno scrittore, Roberto Besana e Pietro Greco, in un libro che s’intitola solo L’albero, un libro di genere indefinibile, immaginato ovviamente camminando fra i boschi, quelli della val Rendena.
Camminando e discutendo sul fatto che né le parole né le immagini, separatamente, riescono a dare conto del posto che abbiamo concesso agli alberi di occupare nel nostro immaginario. Le parole, per rischio di troppa astrazione (fate la prova, domandate a bruciapelo: dimmi il nome di una cosa qualsiasi: nove su dieci la risposta sarà “albero”); le fotografie, per troppa individualità (puoi fotografare un certo albero, o molti alberi, ma mai l’alberità).
Mancarono dunque il bersaglio sia i poeti laureati, quelli che per Montale si degnano di accogliere nelle loro stanze solo piante dai nomi strani, bossi ligustri o acanti. Mancarono il bersaglio i fotografi, soprattutto i primi, che le chiome degli alberi mosse dal vento facevano impazzire perché mutavano un paesaggio in una confusa bambagia scura.
Mentre ecco che, per miracolo, il blend tra i due imperfetti sistemi descrittivi, disposti a pagine alterne, funziona: ogni singolo albero fotografato è un individuo, e la fotografia diventa il suo ritratto, ma nello specchio dell’altra pagina le parole ne cavano fuori una morale, un apologo, una citazione, o anche solo una buona informazione. Così per 65 dittici. E non si corre più il rischio di vedere solo l’albero e non la foresta, o viceversa, come suol dirsi. Alberi2
Cosa vediamo, invece? Storie di alberi concreti e raccontati. Alberi antropomorfi, che pregano con le braccia nodose alzate al cielo e i piedi radicati in terra (sono importanti, le radici…), ulivi contorti a braccia conserte, salici che piangono, cipressi che corrono come giganti giovinetti in duplice filar.
Sono alberi che ci somigliano, si comportano come noi: “un bosco è una pacifica riunione di alberi”; ci sono foreste che camminano lentamente scavalcando le catene montuose, alberi che emigrano da un continente all’altro.
Sono nei nostri ricordi ancestrali di scimmie scese dai rami, ma da bambini qualcosa (il richiamo della foresta…) ci attira di nuovo lassù, arrampicati come baroni rampanti: “l’albero a cui tendevi la pargoletta mano…”, chi non ha mai desiderato una casetta sull’albero?
Poi alberi che vivono e respirano (e ci danno da respirare…), alberi che soffocano urbanizzati, incastrati in un buco del marciapiede, che poi si vendicano gonfiando l’asfalto a spinta di radici.
Alberi intellettuali, alberi del pensiero e della conoscenza, il primo fu quello dell’Eden, niente male neppure il fico di Siddharta, ma vogliamo laicamente ringraziare il melo di Newton per averci donato la scienza moderna?
Alberi testimoni della storia, vivono molto più di noi e li invidiamo per questo, anche migliaia di anni (il più longevo pare abiti in California, il luogo è segreto per proteggerne la serena vecchiaia, e avrebbe 4700 primavere), che quando poi li tagliano contiamo i cerchi e diciamo vedi?, qui abbiamo scoperto l’America… E che dire di brivido così còlto quando ci rendiamo conto di respirare, sotto la sua quercia, la stessa ombra del Tasso?
Ce ne sono tremila miliardi sulla pelle del pianeta. Spiace per Lao Tzu, ma non è così vero che fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce, perché il rumore dei 15 miliardi di tronchi segati ogni anno dalla nostra ingrata fame di legna non lo sentiamo proprio, o facciamo finta; forse aveva più ragione Berkeley, ammesso che l’abbia detto lui: “Se un albero cade nella foresta e nessuno è presente, fa rumore davvero?”.
Ci sono quelli che abbracciano gli alberi, per gratitudine o misteriosofia: questo libro ansiolitico fa a meno di stupidaggini new-age, le parole incontrano con semplicità le fotografie come la mano incontra la corteccia ruvida di questo nostro simile, coinquilino terrestre, paterno forse più che materno, che ci ha generati come l’albero di Jesse, ossia l’albero genealogico di Cristo.
Li abbiamo adorati come divinità, e li abbiamo tagliati a fette per farci il comò; li abbiamo temuti come selve oscure in cui si smarrisce la via e poi li abbiamo usati come bacheche per messaggi d’amore; ci hanno rallegrato vestendosi di decorazioni natalizie e noi li abbiamo presi in giro come accadde al povero incolpevole Spelacchio…
Forse la nostra schizofrenica relazione con gli alberi dice qualcosa sulla nostra ciclotimica, disforica relazione col pianeta.


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La Repubblica - Fotocrazia - sabato 14 novembre 2020


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Fu una strage. Per altri terribili eventi naturali usiamo le definizioni di catastrofe, disastro, cataclisma, ma quella che accadde nei tre giorni di tempesta Vaia, alla fine di ottobre del 2018, quando il vento abbatté 14 milioni di alberi tra Dolomiti e Veneto, non potemmo chiamarla altro che strage.

Chi vide quei boschi straziati, atterrati e ridotti a un gigantesco malefico gioco di shanghai, provò sentimenti di orrore e compianto e angoscia che somigliavano molto al lutto umano.
E questo accade perché se diciamo albero ci viene in mente di tutto, tranne la definizione da Treccani di “pianta perenne legnosa con fusto colonnare”. Gli alberi non sono botanica ma antropologia, ce li raccontano gli occhi e la mente, la percezione e la cultura.
Ce li raccontano dunque ora un fotografo e uno scrittore, Roberto Besana e Pietro Greco, in un libro che s’intitola solo L’albero, un libro di genere indefinibile, immaginato ovviamente camminando fra i boschi, quelli della val Rendena.
Camminando e discutendo sul fatto che né le parole né le immagini, separatamente, riescono a dare conto del posto che abbiamo concesso agli alberi di occupare nel nostro immaginario. Le parole, per rischio di troppa astrazione (fate la prova, domandate a bruciapelo: dimmi il nome di una cosa qualsiasi: nove su dieci la risposta sarà “albero”); le fotografie, per troppa individualità (puoi fotografare un certo albero, o molti alberi, ma mai l’alberità).
Mancarono dunque il bersaglio sia i poeti laureati, quelli che per Montale si degnano di accogliere nelle loro stanze solo piante dai nomi strani, bossi ligustri o acanti. Mancarono il bersaglio i fotografi, soprattutto i primi, che le chiome degli alberi mosse dal vento facevano impazzire perché mutavano un paesaggio in una confusa bambagia scura.
Mentre ecco che, per miracolo, il blend tra i due imperfetti sistemi descrittivi, disposti a pagine alterne, funziona: ogni singolo albero fotografato è un individuo, e la fotografia diventa il suo ritratto, ma nello specchio dell’altra pagina le parole ne cavano fuori una morale, un apologo, una citazione, o anche solo una buona informazione. Così per 65 dittici. E non si corre più il rischio di vedere solo l’albero e non la foresta, o viceversa, come suol dirsi. Alberi2
Cosa vediamo, invece? Storie di alberi concreti e raccontati. Alberi antropomorfi, che pregano con le braccia nodose alzate al cielo e i piedi radicati in terra (sono importanti, le radici…), ulivi contorti a braccia conserte, salici che piangono, cipressi che corrono come giganti giovinetti in duplice filar.
Sono alberi che ci somigliano, si comportano come noi: “un bosco è una pacifica riunione di alberi”; ci sono foreste che camminano lentamente scavalcando le catene montuose, alberi che emigrano da un continente all’altro.
Sono nei nostri ricordi ancestrali di scimmie scese dai rami, ma da bambini qualcosa (il richiamo della foresta…) ci attira di nuovo lassù, arrampicati come baroni rampanti: “l’albero a cui tendevi la pargoletta mano…”, chi non ha mai desiderato una casetta sull’albero?
Poi alberi che vivono e respirano (e ci danno da respirare…), alberi che soffocano urbanizzati, incastrati in un buco del marciapiede, che poi si vendicano gonfiando l’asfalto a spinta di radici.
Alberi intellettuali, alberi del pensiero e della conoscenza, il primo fu quello dell’Eden, niente male neppure il fico di Siddharta, ma vogliamo laicamente ringraziare il melo di Newton per averci donato la scienza moderna?
Alberi testimoni della storia, vivono molto più di noi e li invidiamo per questo, anche migliaia di anni (il più longevo pare abiti in California, il luogo è segreto per proteggerne la serena vecchiaia, e avrebbe 4700 primavere), che quando poi li tagliano contiamo i cerchi e diciamo vedi?, qui abbiamo scoperto l’America… E che dire di brivido così còlto quando ci rendiamo conto di respirare, sotto la sua quercia, la stessa ombra del Tasso?
Ce ne sono tremila miliardi sulla pelle del pianeta. Spiace per Lao Tzu, ma non è così vero che fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce, perché il rumore dei 15 miliardi di tronchi segati ogni anno dalla nostra ingrata fame di legna non lo sentiamo proprio, o facciamo finta; forse aveva più ragione Berkeley, ammesso che l’abbia detto lui: “Se un albero cade nella foresta e nessuno è presente, fa rumore davvero?”.
Ci sono quelli che abbracciano gli alberi, per gratitudine o misteriosofia: questo libro ansiolitico fa a meno di stupidaggini new-age, le parole incontrano con semplicità le fotografie come la mano incontra la corteccia ruvida di questo nostro simile, coinquilino terrestre, paterno forse più che materno, che ci ha generati come l’albero di Jesse, ossia l’albero genealogico di Cristo.
Li abbiamo adorati come divinità, e li abbiamo tagliati a fette per farci il comò; li abbiamo temuti come selve oscure in cui si smarrisce la via e poi li abbiamo usati come bacheche per messaggi d’amore; ci hanno rallegrato vestendosi di decorazioni natalizie e noi li abbiamo presi in giro come accadde al povero incolpevole Spelacchio…
Forse la nostra schizofrenica relazione con gli alberi dice qualcosa sulla nostra ciclotimica, disforica relazione col pianeta.


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OGT newspaper
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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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