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La storia di Eleanor Marx, la “figlia del Capitale”
Avvenire di giovedì 19 novembre 2020


di Cesare Cavalleri
Non so perché solo adesso mi sia capitato tra le mani il libro di Barbara Minniti, Miss Marx. La figlia del Capitale, che è del 2016 (Oltre Edizioni, pagine 170, euro 14,00), ma sono contento di averlo letto. Sarà per il sottotitolo che fa il verso a La figlia del capitano di Puškin (1836) e all'opera buffa di Donizetti, La figlia del reggimento (1840), o per aver trovato, ad apertura di pagina, un'osservazione disinvolta come «Il Capitale, uno di quei libri che molti dicono di aver letto, insieme a quelli di Umberto Eco, alla Recherche e all'Ulisse di Joyce, ma di cui al massimo si ha una vaga infarinatura dovuta agli studi liceali o a letture di bignamini e compendi»… fatto sta che m'è venuta voglia di leggere questa biografia della terza figlia, la minore, di Karl Marx. Nonostante la bibliografia in fondo al volume, di Eleanor Marx, detta Tussy, non si sa moltissimo, per cui Barbara Minniti ha dovuto soffermarsi parecchio sul di lei amatissimo e ingombrante genitore, sui contributi filosofici e finanziari dello "zio" Friedrich Engels, sulle vicende del nascente comunismo o socialismo internazionale, caratterizzato da rivalità, baruffe e permali fin da subito, talché l'autrice stessa si pone la domanda: «Ok, direte voi, ma che c'entra tutto questo con la piccola Tussy?». C'entra perché, fin da bambina, Eleanor si trovò in mezzo alla stravagante compagnia di leader internazionalisti impegnati a cambiare il mondo attraverso interminabili logomachie. Un capitolo è dedicato a Freddy, nato nel 1885, figlio illegittimo della Lenchen, domestica di Marx, al tempo in cui anche Engels frequentava le due stanzette della famiglia Marx a Soho. Il ragazzo fu adottato da Engels, il quale però, in punto di morte, avrebbe confessato che Freddy era figlio non suo, ma dell'amico Marx. Il condizionale è d'obbligo perché della vicenda si seppe molti anni dopo da una lettera di Louise Freyberger, ultima collaboratrice (non domestica) di Engels. Quella lettera è l'unica fonte dell'affaire, ma Tussy considerò Freddy, che nel 1895 presenziò al funerale di Engels, come un fratellastro, al quale scrisse molte lettere confidenziali. Eleanor aveva ventinove anni nel 1884 quando andò a convivere con il trentacinquenne Edward Aveling, separato dalla moglie, guardato con sospetto dai socialisti ortodossi che lo tenevano ai margini, fondatore con Eleanor e William Morris di una "Socialist League". Nel 1886 Eleanor e Edward fecero un lungo viaggio di propaganda politica negli Stati Uniti, accolti trionfalmente dai socialisti di laggiù. Vi ritornarono nel 1888 per promuovere testi teatrali dello stesso Aveling, ma con molto minore successo. Eleanor aveva interessi culturali e teatrali: fece conoscere le opere di Ibsen, e tradusse in inglese Madame Bovary. Il 31 marzo 1898, Eleanor ricevette una lettera che la sconvolse. Forse Aveling la informava di essersi sposato clandestinamente con un'attricetta. Era troppo, e poche ore dopo si suicidò con un veleno per cani. Aveva 43 anni. Tredici anni dopo, sua sorella Laura e il marito Paul Lafargue, che vivevano a Parigi, si suicidarono con una fiala di cianuro. Cala il sipario sulla storia della famiglia Marx, intrecciata di politica, amori, tradimenti e dolori, dolori.


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Avvenire - giovedì 19 novembre 2020


di Cesare Cavalleri
Non so perché solo adesso mi sia capitato tra le mani il libro di Barbara Minniti, Miss Marx. La figlia del Capitale, che è del 2016 (Oltre Edizioni, pagine 170, euro 14,00), ma sono contento di averlo letto. Sarà per il sottotitolo che fa il verso a La figlia del capitano di Puškin (1836) e all'opera buffa di Donizetti, La figlia del reggimento (1840), o per aver trovato, ad apertura di pagina, un'osservazione disinvolta come «Il Capitale, uno di quei libri che molti dicono di aver letto, insieme a quelli di Umberto Eco, alla Recherche e all'Ulisse di Joyce, ma di cui al massimo si ha una vaga infarinatura dovuta agli studi liceali o a letture di bignamini e compendi»… fatto sta che m'è venuta voglia di leggere questa biografia della terza figlia, la minore, di Karl Marx. Nonostante la bibliografia in fondo al volume, di Eleanor Marx, detta Tussy, non si sa moltissimo, per cui Barbara Minniti ha dovuto soffermarsi parecchio sul di lei amatissimo e ingombrante genitore, sui contributi filosofici e finanziari dello "zio" Friedrich Engels, sulle vicende del nascente comunismo o socialismo internazionale, caratterizzato da rivalità, baruffe e permali fin da subito, talché l'autrice stessa si pone la domanda: «Ok, direte voi, ma che c'entra tutto questo con la piccola Tussy?». C'entra perché, fin da bambina, Eleanor si trovò in mezzo alla stravagante compagnia di leader internazionalisti impegnati a cambiare il mondo attraverso interminabili logomachie. Un capitolo è dedicato a Freddy, nato nel 1885, figlio illegittimo della Lenchen, domestica di Marx, al tempo in cui anche Engels frequentava le due stanzette della famiglia Marx a Soho. Il ragazzo fu adottato da Engels, il quale però, in punto di morte, avrebbe confessato che Freddy era figlio non suo, ma dell'amico Marx. Il condizionale è d'obbligo perché della vicenda si seppe molti anni dopo da una lettera di Louise Freyberger, ultima collaboratrice (non domestica) di Engels. Quella lettera è l'unica fonte dell'affaire, ma Tussy considerò Freddy, che nel 1895 presenziò al funerale di Engels, come un fratellastro, al quale scrisse molte lettere confidenziali. Eleanor aveva ventinove anni nel 1884 quando andò a convivere con il trentacinquenne Edward Aveling, separato dalla moglie, guardato con sospetto dai socialisti ortodossi che lo tenevano ai margini, fondatore con Eleanor e William Morris di una "Socialist League". Nel 1886 Eleanor e Edward fecero un lungo viaggio di propaganda politica negli Stati Uniti, accolti trionfalmente dai socialisti di laggiù. Vi ritornarono nel 1888 per promuovere testi teatrali dello stesso Aveling, ma con molto minore successo. Eleanor aveva interessi culturali e teatrali: fece conoscere le opere di Ibsen, e tradusse in inglese Madame Bovary. Il 31 marzo 1898, Eleanor ricevette una lettera che la sconvolse. Forse Aveling la informava di essersi sposato clandestinamente con un'attricetta. Era troppo, e poche ore dopo si suicidò con un veleno per cani. Aveva 43 anni. Tredici anni dopo, sua sorella Laura e il marito Paul Lafargue, che vivevano a Parigi, si suicidarono con una fiala di cianuro. Cala il sipario sulla storia della famiglia Marx, intrecciata di politica, amori, tradimenti e dolori, dolori.


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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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