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I DIECI ANNI SCELLERATI CHE SCONVOLSERO L’ITALIA
Fenice Bookstore di lunedě 23 novembre 2020
Nel suo libro “La guerra č stupida”, edito da Gammarň, Marise Ferro racconta esperienze, ricordi e sensazioni del drammatico decennio, dal 1935 al 1945, segnato da due guerre, quella in Etiopia e quella mondiale

di Cinzia Esposito
Marise Ferro (all’anagrafe Maria Luisa) č stata una scrittrice, giornalista e traduttrice, vissuta tra l’inizio del Ventesimo Secolo e l’alba degli anni Novanta.
Nel suo libro “La guerra č stupida”, la Ferro racconta esperienze, ricordi e sensazioni di un intero decennio, dal 1935 al 1945. Al di lŕ dell’incontrovertibilitŕ del titolo, la Ferro, partendo dal suo soggiorno londinese, esprime quanto ella desideri piuttosto indagare e descrivere “l’orrore”, quella zona buia spesso accantonata in angoli nascosti della memoria e rimossa dalla volontŕ, eppure viva e presente, pronta a riaffacciarsi, anche violenta, se solo sollecitata.
Le vicende di questo decennio raccontate dall’autrice sono le pagine piů cupe della nostra storia nazionale, dalla dichiarazione di guerra all’Etiopia al patto scellerato con l’ideologia nazista, dall’adesione al conflitto bellico alla deportazione ebraica nei lager, fino all’8 settembre e al 25 aprile.
Eppure, ogni emozione, ogni ricordo raccontato da Marise Ferro č intriso di colori e sfumature pittoriche. Non c’č vicenda, tra le esperienze personali e gli episodi raccontati, che non si dipani attraverso descrizioni materiche, tattili e cromatiche, non c’č capitolo in cui non siano rappresentati con grande vivezza anche gli odori e i profumi che esalano dalla terra, dal mare, dalle foreste.
“Abitavo un piccolo appartamento al limite del paese, un grande rumoroso palazzo che conteneva ancora tutti i suoi abitanti, e mi erano vicini un orto e un torrente. Nell’orto fiorivano i nespoli, spandendo intorno un profumo di cipria fine: un odore impalpabile, polveroso, come se il polline staccandosi dai fiori si condensasse in un nembo. Il mandorlo aveva i rami coperti di gemme dure e lustre pronte a sbocciare; e la mimosa era una fiamma gialla dal tronco alla cima, piegata a ogni soffio di vento”.
I bombardamenti che dalle grandi cittŕ del nord arrivano a colpire anche la cittadina di Sestri sono descritti nell’odore acre dei calcinacci, delle zolle spaccate, della terra fumante di detriti fosforici. La terra di Liguria, cosě presente nelle pagine del libro – la Ferro č nata a Sestri Levante e vi si rifugia durante la guerra – č sfondo e paradigma della bellezza offesa dalla violenza, della natura oltraggiata dal furore.
I migliori capitoli, in cui la vena narrativa dell’autrice si stempera da una certa costante rigiditŕ e dall’insistenza descrittiva, sono “ Storia della gatta selvatica”, “I quattro ebrei di Amsterdam” , “Storia della signora di quarant’anni”.
Il libro si chiude perň con una nota di speranza e leggerezza, nell’anticipato, impaziente e prolungato scampanio che, 18 ore prima del 25 aprile, il parroco del paesino montano – rifugio finale della Ferro – diffonde ad annunciare finalmente, insieme alla Liberazione, la fine dell’orrore.
(Marise Ferro, La guerra č stupida, Gammarň Edizioni, Pagg. 243, €. 18,00)

CHI ERA MARISE FERRO
Marise Ferro, pseudonimo di Maria Luisa Ferro (Ventimiglia, 21 giugno 1907 – Sestri Levante, 2 ottobre 1991), č stata una scrittrice, giornalista, saggista nonché traduttrice italiana, moglie in prime nozze dello scrittore Guido Piovene e in seconde nozze del critico letterario Carlo Bo. Tra le sue opere: Disordine (1932) Barbara (1934) Trent’anni (1940) Memorie di Irene (1944). Nel dopoguerra, oltre a La guerra č stupida, uscita nel 1949, La violenza (1967) Una lunga confessione (1972) La ragazza in giardino (1976) Nel 1978 il suo ultimo romanzo, La sconosciuta, ha vinto il Premio Stresa di Narrativa.


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Nel suo libro “La guerra č stupida”, edito da Gammarň, Marise Ferro racconta esperienze, ricordi e sensazioni del drammatico decennio, dal 1935 al 1945, segnato da due guerre, quella in Etiopia e quella mondiale

di Cinzia Esposito
Marise Ferro (all’anagrafe Maria Luisa) č stata una scrittrice, giornalista e traduttrice, vissuta tra l’inizio del Ventesimo Secolo e l’alba degli anni Novanta.
Nel suo libro “La guerra č stupida”, la Ferro racconta esperienze, ricordi e sensazioni di un intero decennio, dal 1935 al 1945. Al di lŕ dell’incontrovertibilitŕ del titolo, la Ferro, partendo dal suo soggiorno londinese, esprime quanto ella desideri piuttosto indagare e descrivere “l’orrore”, quella zona buia spesso accantonata in angoli nascosti della memoria e rimossa dalla volontŕ, eppure viva e presente, pronta a riaffacciarsi, anche violenta, se solo sollecitata.
Le vicende di questo decennio raccontate dall’autrice sono le pagine piů cupe della nostra storia nazionale, dalla dichiarazione di guerra all’Etiopia al patto scellerato con l’ideologia nazista, dall’adesione al conflitto bellico alla deportazione ebraica nei lager, fino all’8 settembre e al 25 aprile.
Eppure, ogni emozione, ogni ricordo raccontato da Marise Ferro č intriso di colori e sfumature pittoriche. Non c’č vicenda, tra le esperienze personali e gli episodi raccontati, che non si dipani attraverso descrizioni materiche, tattili e cromatiche, non c’č capitolo in cui non siano rappresentati con grande vivezza anche gli odori e i profumi che esalano dalla terra, dal mare, dalle foreste.
“Abitavo un piccolo appartamento al limite del paese, un grande rumoroso palazzo che conteneva ancora tutti i suoi abitanti, e mi erano vicini un orto e un torrente. Nell’orto fiorivano i nespoli, spandendo intorno un profumo di cipria fine: un odore impalpabile, polveroso, come se il polline staccandosi dai fiori si condensasse in un nembo. Il mandorlo aveva i rami coperti di gemme dure e lustre pronte a sbocciare; e la mimosa era una fiamma gialla dal tronco alla cima, piegata a ogni soffio di vento”.
I bombardamenti che dalle grandi cittŕ del nord arrivano a colpire anche la cittadina di Sestri sono descritti nell’odore acre dei calcinacci, delle zolle spaccate, della terra fumante di detriti fosforici. La terra di Liguria, cosě presente nelle pagine del libro – la Ferro č nata a Sestri Levante e vi si rifugia durante la guerra – č sfondo e paradigma della bellezza offesa dalla violenza, della natura oltraggiata dal furore.
I migliori capitoli, in cui la vena narrativa dell’autrice si stempera da una certa costante rigiditŕ e dall’insistenza descrittiva, sono “ Storia della gatta selvatica”, “I quattro ebrei di Amsterdam” , “Storia della signora di quarant’anni”.
Il libro si chiude perň con una nota di speranza e leggerezza, nell’anticipato, impaziente e prolungato scampanio che, 18 ore prima del 25 aprile, il parroco del paesino montano – rifugio finale della Ferro – diffonde ad annunciare finalmente, insieme alla Liberazione, la fine dell’orrore.
(Marise Ferro, La guerra č stupida, Gammarň Edizioni, Pagg. 243, €. 18,00)

CHI ERA MARISE FERRO
Marise Ferro, pseudonimo di Maria Luisa Ferro (Ventimiglia, 21 giugno 1907 – Sestri Levante, 2 ottobre 1991), č stata una scrittrice, giornalista, saggista nonché traduttrice italiana, moglie in prime nozze dello scrittore Guido Piovene e in seconde nozze del critico letterario Carlo Bo. Tra le sue opere: Disordine (1932) Barbara (1934) Trent’anni (1940) Memorie di Irene (1944). Nel dopoguerra, oltre a La guerra č stupida, uscita nel 1949, La violenza (1967) Una lunga confessione (1972) La ragazza in giardino (1976) Nel 1978 il suo ultimo romanzo, La sconosciuta, ha vinto il Premio Stresa di Narrativa.


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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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