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Aljoša Curavić
solomente.it di mercoledì 25 novembre 2020


di Francesca Meucci

Non dimenticherò mai la perplessità espressami, durante gli anni universitari a Firenze, negli anni ottanta del secolo scorso, dal versatile professore di Filologia Romanza. “Spiegami”, mi chiedeva, “cosa significa essere di nazionalità italiana per uno che ha un nome russo, un cognome croato e una cittadinanza jugoslava. Spiegamelo, perché per me è un rebus, mi chiese”. Naturalmente, era un rebus anche per me. Sono nato a Umago d'Istria, che ora è in Croazia. Padre croato, della Dalmazia, madre italiana d’Istria. Vivo in Slovenia. Determinante è stata per me la “fuga” da Capodistria a Firenze, dove mi sono Laureato in Letteratura italiana contemporanea , con una tesi su Scipio Slataper, presso l'Università di Lettere e dove, paradossalmente, ho riscoperto le mie origini di frontiera. Una frontiera problematica, come lo fu quella italo jugoslava, prima, e come lo è oggi quella italo slovena e sloveno croata. Ma anche una frontiera piena di poesia, come ce lo racconta quell’incredibile esperienza letteraria espressa dai poeti e scrittori giuliani, triestini e istriani del primo novecento: Saba, Svevo, Stuparich, Pier Antonio Quarantotti Gambini, Slataper, Michelstaedter e altri. Forse è stata proprio la mia condizione anagrafica strampalata, multi etnica, e pormi nella necessità di ricorrere alla poesia per relazionarmi con la realtà, anche se forse sono più portato alla prosa, alla cronaca giornalistica, se non altro per il mestiere che faccio da decenni, giornalista nei programmi italiani di radio e tv della radiotelevisione pubblica slovena, caporedattore responsabile di radio Capodistria, collaboratore di quotidiani in lingua italiana e slovena; un mestiere dove, comunque, ho sempre fatto e continuo a fare i conti con le frontiere e le alterità esterne ma anche quelle interiori, che mi porto dentro. Diversità interiori, che per noi gente di frontiera e di matrimoni misti, hanno concrete e dure ricadute sulla quotidianità. A Firenze, da jugoslavo facevo la fila in questura con gli africani, per il permesso di soggiorno. In Jugoslavia, da cittadino di nazionalità italiana, appartenente a quello sparuto gruppo di italiani rimasti, spesso mi guardavano con un certo astio, disprezzo e spesso ci dicevano che eravamo fascisti. Quando corteggiavo le ragazze, mi dicevano che ero esotico, ma ero e sono soprattutto caotico. E poi c’è la componente croata in me, e quella slovena, che complicano ulteriormente il tutto. Sono comunque grato al destino che mi ha fatto incontrare e sposare per me la più bella lingua al mondo, l’italiano. Penso sia un privilegio non da poco poter leggere la Divina Commedia di Dante in originale, ad alta voce. Solo questo potrebbe bastare per riempire una vita. Da quando ho memoria, leggo i poeti ad alta voce. Amo leggere T.S. Eliot, Dylan Thomas, Saba, Montale, Ungaretti, Raboni, naturalmente i maledetti francesi, i grandi, insomma. La letteratura è stata determinante per me. Le letture importanti sono come esperienze di vita, che ti fanno crescere in un mondo che è perennemente in subbuglio, che non concede certezze. Vivo a cavallo di tre stati, tre lingue, con alle spalle un paese defunto, la Jugoslavia. Ho dovuto arrangiarmi, durante la mia vita, con i grandi cambiamenti geopolitici, combattere con i cambiavalute, cambiare spesso moneta: il dinaro jugoslavo, il marco, la lira, i talleri, i buoni, le kune; poi è arrivata l’ Unione europea, l’euro. Mi ricordo, anni fa intervistai il poeta Mario Luzi, fu forse la sua ultima intervista prima di morire, mi pare fosse il 2004, l’ anno del grande allargamento ad est dell’ Unione europea. Gli chiesi cosa si aspettasse dell’allargamento dell’Unione in zona ex comunista, ex jugoslava. Mi rispose che si aspettava un ringiovanimento della vecchia Europa. Ebbene, il suo era un anelito poetico, era quello che ci si aspetta dai poeti, un canto alla vita. Ma la realtà poi si è dimostrata più prosaica. Siamo ancora qui a grattarci la vecchia rogna di una vecchia Europa prosaica, divisiva, nazionalista, burocratica, vacua, come quella descritta da Rimbaud nel suo Battello ebbro.È forse per questo che mi sono cimentato più con la prosa che con la poesia. Ho raccontato le gioie e i dolori della frontiera in: "Firenze a Trieste", "Sindrome da Frontiera", "A occhi spenti", "Istriagog", "Portami i fiori-Prinesi mi rože", "Una vita in secca", e naturalmente in quel lungo viaggio poetico che è "Scadenzario minimo di un viaggio senza fine".

SOLO TRE DOMANDE

Mi de­scri­vo con solo tre ag­get­ti­vi
Straniero (che e' anche sostantivo).
Estraneo
Assente


Il solo even­to che mi ha cam­bia­to la vita
Non c'è un solo evento che mi ha cambiato la vita...

Solo un link so­cial­men­te uti­le
Tutti quei link che non istigano alle discrminazioni e all' odio e non seminano fake news.


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di Francesca Meucci

Non dimenticherò mai la perplessità espressami, durante gli anni universitari a Firenze, negli anni ottanta del secolo scorso, dal versatile professore di Filologia Romanza. “Spiegami”, mi chiedeva, “cosa significa essere di nazionalità italiana per uno che ha un nome russo, un cognome croato e una cittadinanza jugoslava. Spiegamelo, perché per me è un rebus, mi chiese”. Naturalmente, era un rebus anche per me. Sono nato a Umago d'Istria, che ora è in Croazia. Padre croato, della Dalmazia, madre italiana d’Istria. Vivo in Slovenia. Determinante è stata per me la “fuga” da Capodistria a Firenze, dove mi sono Laureato in Letteratura italiana contemporanea , con una tesi su Scipio Slataper, presso l'Università di Lettere e dove, paradossalmente, ho riscoperto le mie origini di frontiera. Una frontiera problematica, come lo fu quella italo jugoslava, prima, e come lo è oggi quella italo slovena e sloveno croata. Ma anche una frontiera piena di poesia, come ce lo racconta quell’incredibile esperienza letteraria espressa dai poeti e scrittori giuliani, triestini e istriani del primo novecento: Saba, Svevo, Stuparich, Pier Antonio Quarantotti Gambini, Slataper, Michelstaedter e altri. Forse è stata proprio la mia condizione anagrafica strampalata, multi etnica, e pormi nella necessità di ricorrere alla poesia per relazionarmi con la realtà, anche se forse sono più portato alla prosa, alla cronaca giornalistica, se non altro per il mestiere che faccio da decenni, giornalista nei programmi italiani di radio e tv della radiotelevisione pubblica slovena, caporedattore responsabile di radio Capodistria, collaboratore di quotidiani in lingua italiana e slovena; un mestiere dove, comunque, ho sempre fatto e continuo a fare i conti con le frontiere e le alterità esterne ma anche quelle interiori, che mi porto dentro. Diversità interiori, che per noi gente di frontiera e di matrimoni misti, hanno concrete e dure ricadute sulla quotidianità. A Firenze, da jugoslavo facevo la fila in questura con gli africani, per il permesso di soggiorno. In Jugoslavia, da cittadino di nazionalità italiana, appartenente a quello sparuto gruppo di italiani rimasti, spesso mi guardavano con un certo astio, disprezzo e spesso ci dicevano che eravamo fascisti. Quando corteggiavo le ragazze, mi dicevano che ero esotico, ma ero e sono soprattutto caotico. E poi c’è la componente croata in me, e quella slovena, che complicano ulteriormente il tutto. Sono comunque grato al destino che mi ha fatto incontrare e sposare per me la più bella lingua al mondo, l’italiano. Penso sia un privilegio non da poco poter leggere la Divina Commedia di Dante in originale, ad alta voce. Solo questo potrebbe bastare per riempire una vita. Da quando ho memoria, leggo i poeti ad alta voce. Amo leggere T.S. Eliot, Dylan Thomas, Saba, Montale, Ungaretti, Raboni, naturalmente i maledetti francesi, i grandi, insomma. La letteratura è stata determinante per me. Le letture importanti sono come esperienze di vita, che ti fanno crescere in un mondo che è perennemente in subbuglio, che non concede certezze. Vivo a cavallo di tre stati, tre lingue, con alle spalle un paese defunto, la Jugoslavia. Ho dovuto arrangiarmi, durante la mia vita, con i grandi cambiamenti geopolitici, combattere con i cambiavalute, cambiare spesso moneta: il dinaro jugoslavo, il marco, la lira, i talleri, i buoni, le kune; poi è arrivata l’ Unione europea, l’euro. Mi ricordo, anni fa intervistai il poeta Mario Luzi, fu forse la sua ultima intervista prima di morire, mi pare fosse il 2004, l’ anno del grande allargamento ad est dell’ Unione europea. Gli chiesi cosa si aspettasse dell’allargamento dell’Unione in zona ex comunista, ex jugoslava. Mi rispose che si aspettava un ringiovanimento della vecchia Europa. Ebbene, il suo era un anelito poetico, era quello che ci si aspetta dai poeti, un canto alla vita. Ma la realtà poi si è dimostrata più prosaica. Siamo ancora qui a grattarci la vecchia rogna di una vecchia Europa prosaica, divisiva, nazionalista, burocratica, vacua, come quella descritta da Rimbaud nel suo Battello ebbro.È forse per questo che mi sono cimentato più con la prosa che con la poesia. Ho raccontato le gioie e i dolori della frontiera in: "Firenze a Trieste", "Sindrome da Frontiera", "A occhi spenti", "Istriagog", "Portami i fiori-Prinesi mi rože", "Una vita in secca", e naturalmente in quel lungo viaggio poetico che è "Scadenzario minimo di un viaggio senza fine".

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OGT newspaper
oggi
01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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