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I diari di Maria Pasquinelli e il dramma degli italiani in Istria e Dalmazia
Il Giornale di domenica 6 dicembre 2020
Nei suoi diari, ora raccolti in Tutto ciò che vidi. Parla Maria Pasquinelli (Oltre edizioni), l'autrice ripercorre il dramma degli esuli. E le atrocità dei titini

di Matteo Carnieletto
Maria Pasquinelli ha solamente 33 anni quando, la mattina del 10 febbraio del 1947, prende con sé una pistola, la nasconde e si dirige verso la guarnigione britannica di Pola.
Quella, infatti, non è una mattina come le altre: centinaia di chilometri più in là, a Versailles, si stanno decidendo le sorti dell'Italia. I Paesi vincitori hanno deciso che il nostro Paese dovrà cedere parte dei suoi territori. Prime tra tutte, l'Istria e la Dalmazia. Un affronto impossibile da tollerare per Maria che, preso un pezzo di carta, scrive: "Mi ribello, col fermo proposito di colpire a morte chi ha la sventura di rappresentarli, ai Quattro Grandi i quali, alla Conferenza di Parigi, in oltraggio ai sensi di giustizia, di umanità e di saggezza politica, hanno deciso di strappare ancora una volta dal grembo materno le terre più sacre d'Italia, condannandole o agli esperimenti di una novella Danzica o con la più fredda consapevolezza, che è correità, al giogo jugoslavo, sinonimo per la nostra gente indomabilmente italiana, di morte in foiba, di deportazioni, di esilio".
Con la certezza di uccidere e di essere uccisa, la giovane arriva davanti alla guarnigione britannica e spara al brigadiere generale Robert de Winton, che avrebbe dovuto dare le chiavi della città ai titini. Lo guarda, poi spara. Si aspetta una risposta, già sente i proiettili che le attraversano il corpo, ma non accade nulla. La Pasquinelli viene prima arrestata e poi processata: pena di morte, poi commutata in ergastolo. Nel 1967 chiede la grazia presidenziale e la ottiene. Esce di prigione senza rinnegare nulla: il fascismo, la Decima Mas e lo sparo di quel 10 febbraio. Sostiene la causa degli esuli e difende la memoria degli infoibati fino a quando non muore, nel 2013. Nel frattempo scrive e raccoglie documenti su ciò che sta accadendo al di là dell'Adriatico e li consegna alla Curia di Trieste, dove giacciono per decenni, fino a quando Rosanna Turcinovich e Rossana Poletti hanno l'opportunità di visionarli: "Le cartelle nel baule, che apriamo con il religioso rispetto, sono stipate di relazioni battute a macchina su carta velina, in più copie. Su alcune i nomi appaiono solo con le iniziali puntate, su altre, Maria Pasquinelli ha aggiunto a mano i nomi completi. Sono segni di una presenza che ritorna, scatenando emozioni", si legge nella prefazione di Tutto ciò che vidi. Parla Maria Pasquinelli (Oltre edizioni).
Le memorie della Pasquinelli sono puntuali, fondamentali per comprendere cosa accadde dall'8 settembre in poi, e anche a smontare una certa vulgata, secondo la quale si iniziò a parlare di foibe solo molti anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Non è così. La Pasquinelli ha infatti raccolto le prime pagine di diversi giornali che, già nell'ottobre del 1943, raccontano ciò che stava accadendo in Istria e Dalmazia: "Giorni d'angoscia a Vines" - scrive Il Piccolo il 26 ottobre 1943 - "Il numero totale dei massacrati nella foiba si aggirerà sugli ottanta. Poseguono le ricerche presso altre foibe e cave di bauxite poiché manca ogni traccia di interi gruppi portati via da diverse città". Sempre Il Piccolo, il 4 novembre 1943: "23 salme di italiani in una cava di bauxite. Un sacerdote tra le vittime della barbarie comunista. Ricordi di uno scampato alla strage. Solo sei corpi finora identificati". E ancora, il giorno seguente: "Altre 30 vittime trovate in due voragini presso Barbana".
La Pasquinelli raccoglie informazioni sul campo e, nel frattempo, cerca di creare un ponte tra il comandante Junio Valerio Borghese e i partigiani bianchi della Brigata Osoppo, ma non ottiene i risultati sperati. Si dedica quindi a documentare le violenze titine. Alcune più terribili di altre, come quelle inferte a Norma Cossetto. Si legge a pagina 125 di Tutto ciò che vidi : "Ha le mani legate, ma davanti, marci con gli altri verso la morte. (...) Sedici 'gentiluomini' slavi hanno approfittato di lei durante la sua prigionia. Che può importarle ormai di morire? Il cammino verso la foiba prescelta è aspro e la notte lo rende più difficile. Pensano però i partigiani a 'sorreggere' i prigionieri a bastonate, calci, spintoni, insulti". Finalmente, dopo una vera e propria via crucis di terrore, Norma arriva davanti alla foiba. "Le vittime vengono raggruppate da una parte, ma i 'capi' prima di incominciare la loro opera tengono un breve consiglio. Ed eccone l'orrenda decisione: i prigionieri non saranno fucilati, ma buttati vivi nella foiba".
La Pasquinelli raccoglie tutto, perfino dettagli all'apparenza poco importanti, e cerca di decifrarli. Come il caso delle carcasse di cani neri trovati all'interno delle voragini carsiche: "Assieme agli 84 corpi umani straziati, sul fondo della foiba fu trovata la carogna d'un cane nero gettatavi dagli assassini dopo la strage. Perché? Quale significato poteva avere questo simbolico bestiale gesto? Non può esserne data una spiegazione certa. Forse bisogna rifarsi alle vecchie leggende e superstizioni dei luoghi. Una di esse afferma che le anime dei morti non sepolti vaano la notte per le campagne chiedendo sepoltura e terrorizzando i vivi. Perciò quando un uomo abbandona insepolto il cadavere di un nemico deve lasciargli accanto anche una carogna di cane nero che ne custodirà l'anima e le impedirà di lagnarsi".
Maria Pasquinelli racconta tutto questo. Lo fa da protagonista che ha vissuto la Storia in prima persona, mossa da un intenso amore di patria che, nel caso dell'omicidio di De Winton, si tramutò in odio per l'avversario. A chi la accusava di esser rimasta fascista la Pasquinelli rispondeva: "Io non appartengo al fascismo, appartengo all'Italia". Forse però l'Italia non era più in grado di comprenderla.


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Il Giornale - domenica 6 dicembre 2020
Nei suoi diari, ora raccolti in Tutto ciò che vidi. Parla Maria Pasquinelli (Oltre edizioni), l'autrice ripercorre il dramma degli esuli. E le atrocità dei titini

di Matteo Carnieletto
Maria Pasquinelli ha solamente 33 anni quando, la mattina del 10 febbraio del 1947, prende con sé una pistola, la nasconde e si dirige verso la guarnigione britannica di Pola.
Quella, infatti, non è una mattina come le altre: centinaia di chilometri più in là, a Versailles, si stanno decidendo le sorti dell'Italia. I Paesi vincitori hanno deciso che il nostro Paese dovrà cedere parte dei suoi territori. Prime tra tutte, l'Istria e la Dalmazia. Un affronto impossibile da tollerare per Maria che, preso un pezzo di carta, scrive: "Mi ribello, col fermo proposito di colpire a morte chi ha la sventura di rappresentarli, ai Quattro Grandi i quali, alla Conferenza di Parigi, in oltraggio ai sensi di giustizia, di umanità e di saggezza politica, hanno deciso di strappare ancora una volta dal grembo materno le terre più sacre d'Italia, condannandole o agli esperimenti di una novella Danzica o con la più fredda consapevolezza, che è correità, al giogo jugoslavo, sinonimo per la nostra gente indomabilmente italiana, di morte in foiba, di deportazioni, di esilio".
Con la certezza di uccidere e di essere uccisa, la giovane arriva davanti alla guarnigione britannica e spara al brigadiere generale Robert de Winton, che avrebbe dovuto dare le chiavi della città ai titini. Lo guarda, poi spara. Si aspetta una risposta, già sente i proiettili che le attraversano il corpo, ma non accade nulla. La Pasquinelli viene prima arrestata e poi processata: pena di morte, poi commutata in ergastolo. Nel 1967 chiede la grazia presidenziale e la ottiene. Esce di prigione senza rinnegare nulla: il fascismo, la Decima Mas e lo sparo di quel 10 febbraio. Sostiene la causa degli esuli e difende la memoria degli infoibati fino a quando non muore, nel 2013. Nel frattempo scrive e raccoglie documenti su ciò che sta accadendo al di là dell'Adriatico e li consegna alla Curia di Trieste, dove giacciono per decenni, fino a quando Rosanna Turcinovich e Rossana Poletti hanno l'opportunità di visionarli: "Le cartelle nel baule, che apriamo con il religioso rispetto, sono stipate di relazioni battute a macchina su carta velina, in più copie. Su alcune i nomi appaiono solo con le iniziali puntate, su altre, Maria Pasquinelli ha aggiunto a mano i nomi completi. Sono segni di una presenza che ritorna, scatenando emozioni", si legge nella prefazione di Tutto ciò che vidi. Parla Maria Pasquinelli (Oltre edizioni).
Le memorie della Pasquinelli sono puntuali, fondamentali per comprendere cosa accadde dall'8 settembre in poi, e anche a smontare una certa vulgata, secondo la quale si iniziò a parlare di foibe solo molti anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Non è così. La Pasquinelli ha infatti raccolto le prime pagine di diversi giornali che, già nell'ottobre del 1943, raccontano ciò che stava accadendo in Istria e Dalmazia: "Giorni d'angoscia a Vines" - scrive Il Piccolo il 26 ottobre 1943 - "Il numero totale dei massacrati nella foiba si aggirerà sugli ottanta. Poseguono le ricerche presso altre foibe e cave di bauxite poiché manca ogni traccia di interi gruppi portati via da diverse città". Sempre Il Piccolo, il 4 novembre 1943: "23 salme di italiani in una cava di bauxite. Un sacerdote tra le vittime della barbarie comunista. Ricordi di uno scampato alla strage. Solo sei corpi finora identificati". E ancora, il giorno seguente: "Altre 30 vittime trovate in due voragini presso Barbana".
La Pasquinelli raccoglie informazioni sul campo e, nel frattempo, cerca di creare un ponte tra il comandante Junio Valerio Borghese e i partigiani bianchi della Brigata Osoppo, ma non ottiene i risultati sperati. Si dedica quindi a documentare le violenze titine. Alcune più terribili di altre, come quelle inferte a Norma Cossetto. Si legge a pagina 125 di Tutto ciò che vidi : "Ha le mani legate, ma davanti, marci con gli altri verso la morte. (...) Sedici 'gentiluomini' slavi hanno approfittato di lei durante la sua prigionia. Che può importarle ormai di morire? Il cammino verso la foiba prescelta è aspro e la notte lo rende più difficile. Pensano però i partigiani a 'sorreggere' i prigionieri a bastonate, calci, spintoni, insulti". Finalmente, dopo una vera e propria via crucis di terrore, Norma arriva davanti alla foiba. "Le vittime vengono raggruppate da una parte, ma i 'capi' prima di incominciare la loro opera tengono un breve consiglio. Ed eccone l'orrenda decisione: i prigionieri non saranno fucilati, ma buttati vivi nella foiba".
La Pasquinelli raccoglie tutto, perfino dettagli all'apparenza poco importanti, e cerca di decifrarli. Come il caso delle carcasse di cani neri trovati all'interno delle voragini carsiche: "Assieme agli 84 corpi umani straziati, sul fondo della foiba fu trovata la carogna d'un cane nero gettatavi dagli assassini dopo la strage. Perché? Quale significato poteva avere questo simbolico bestiale gesto? Non può esserne data una spiegazione certa. Forse bisogna rifarsi alle vecchie leggende e superstizioni dei luoghi. Una di esse afferma che le anime dei morti non sepolti vaano la notte per le campagne chiedendo sepoltura e terrorizzando i vivi. Perciò quando un uomo abbandona insepolto il cadavere di un nemico deve lasciargli accanto anche una carogna di cane nero che ne custodirà l'anima e le impedirà di lagnarsi".
Maria Pasquinelli racconta tutto questo. Lo fa da protagonista che ha vissuto la Storia in prima persona, mossa da un intenso amore di patria che, nel caso dell'omicidio di De Winton, si tramutò in odio per l'avversario. A chi la accusava di esser rimasta fascista la Pasquinelli rispondeva: "Io non appartengo al fascismo, appartengo all'Italia". Forse però l'Italia non era più in grado di comprenderla.


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OGT newspaper
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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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