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La storia di Apsley Cherry-Garrard e della sua depressione in Antartide
Fenice Bookstore di marted 8 dicembre 2020
Un romanzo la racconta attraverso gli occhi di una giovane donna che ne soffre

di Felice Laudadio
Raggiungere il Polo Sud, dopo uno sforzo indicibile nel gelo, e trovare l’obiettivo già conquistato da un concorrente: la disillusione, il senso di sconfitta, il vuoto doloroso del successo mancato, il corpo esausto, un incombente presagio di morte. Gli stati d’animo di un gruppo di uomini disperati nell’immensità dei ghiacci antartici sono ben descritti da Benedicta Froelich in un romanzo complesso, originale, di qualità prepotente, L’indicibile inverno. Una storia bipolarepubblicato da Oltre Edizioni di Sestri Levante a giugno 2020 (424 pagine).

Nella grande stagione delle esplorazioni polari dalla fine dell’800 alle imprese dirigibilistiche degli anni Venti, la spedizione al comando dell’inglese Robert Fulton Scott raggiunse il Polo antartico il 18 gennaio 1912, per trovarvi la tenda in cui si erano riparati il competitore norvegese Roald Amundsen e i suoi, che avevano toccato per primi la meta, un mese prima. “Gelati” dall’insuccesso, i cinque componenti della spedizione Terra Nova, impegnati a raggiungere l’estremo punto meridionale dell’asse terrestre, intrapresero la strada del ritorno. Che non avrebbero mai completato.
C’è una malinconia indicibile, uno struggimento che non risparmia chi viene a conoscenza dell’esito mancato di una delle più coraggiose esplorazioni di tutti i tempi. Questo sentimento di compassione e condivisione di sforzi che si dimostrarono vani contro le avversità ha ispirato un romanzo triste, pieno di sensibilità e di partecipazione emotiva.

Froelich, giornalista, interprete dall’inglese e traduttrice, vive in Svizzera nel Canton Ticino e all’anagrafe è Benedicta Cagnone, nata nel 1981 a Milano. Un assiduo impegno nella traduzione dall’inglese e in inglese ha preceduto la scrittura di romanzi storici, il primo dei quali dedicato alla figura privata di Lawrence d’Arabia, interessandosi più all’aviere Ross della seconda vita di Thomas Edward Lawrence, che all’eroe dell’intelligence britannica portato sul grande schermo da Peter O’Toole.
Tra gli interessi di Froelich, spiccano certamente la letteratura e la cultura anglosassoni. Tra le sue tecniche, un’attenta documentazione preliminare sulle vicende che intende affrontare. Tra le curiosità, l’introspezione, l’attenzione ai processi psicologici che conducono a compiere determinate scelte, a adottare certi comportamenti, incontrati nei soggetti storici che attirano il suo interesse.
Nel caso del lavoro su Lawrence (Nella sua mente, Premio Guido Morselli nel 2013), è stata attratta dal conflitto interiore dell’uomo, nudo di fronte alle sue responsabilità, afflitto dai sensi di colpa per non avere rispettato gli impegni assunti con le tribù arabe che avevano collaborato alla sconfitta dei turchi in Medio Oriente, disattesi dal Governo inglese dopo la Prima guerra mondiale. Lì c’erano distese di sabbia, qui gli spazi dell’Antartide ghiacciata dal biancore accecante, ma i due testi hanno in comune i processi mentali auto accusatori.

Il senso di colpa che aggredisce per tutta la vita l’ultimo superstite della spedizione Scott nasce dall’inaccettabile consapevolezza di non essere stato capace di soccorrere i compagni d’impresa. Il venticinquenne geologo inglese Apsley Cherry-Garrard, componente della spedizione antartica dal 1910 come assistente biologo, era astato l’ultimo dei soccorritori a desistere dal raggiungere la squadra Scott, che si pensava di ritorno dal Polo.
Inviato con una slitta dal campo base a intercettare il Proprietario (come chiamavano Scott) e gli altri, tra i quali i suoi amicissimi Birdie Bowers e Bill Wilson, si era dato per vinto nei pressi del deposito di viveri preallestito sull’itinerario del rientro. Era stato costretto ad arrendersi dai suoi limiti fisici e addestrativi: la miopia, oltre a condizioni obiettive di debolezza unite all’inesperienza da apprendista navigatore e nella guida dei cani da slitta.
Il destino gli riservò la beffa atroce, straziante, d’essere lui stesso a ritrovare un anno dopo, ad appena poco più di 12 miglia dal luogo dove si era fermato, la tenda devastata dove giacevano congelati Scott e i suoi grandi amici.
Rientrato in patria, fu impegnato come ufficiale sul fronte francese, ma giorno e notte combatteva un altro conflitto personale contro il Polo Sud e la sua incapacità di portare soccorso ai compagni, pur tanto vicini. La guerra di Cherry-Garrard non avrebbe avuto fine se non con la morte, nel 1959, scrive l’autrice.

Uno stato di catatonia grave segnò l’ultima parte della sua vita, ma fin dall’Antartide era stato prostrato da una psicosi depressiva dell’umore, un disturbo bipolare, una condanna senz’appello alla solitudine, all’auto svalutazione, all’auto colpevolezza.
Apsley ha raccontato l’avventura di Scott in un libro, Il peggior viaggio del mondo, che nel romanzo arriva un secolo dopo tra le mani di una ragazza brianzola, Frida, anche lei affetta dallo stesso disturbo psichico bipolare. Il legame empatico che si stabilisce tra l’adolescente italiana e il sofferente gentiluomo britannico diventa un lungo e rasserenante percorso di guarigione, di presa di coscienza, di apertura al mondo e al prossimo.
Questo singolare romanzo è corredato da rare foto storiche della spedizione Terra Nova.



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Un romanzo la racconta attraverso gli occhi di una giovane donna che ne soffre

di Felice Laudadio
Raggiungere il Polo Sud, dopo uno sforzo indicibile nel gelo, e trovare l’obiettivo già conquistato da un concorrente: la disillusione, il senso di sconfitta, il vuoto doloroso del successo mancato, il corpo esausto, un incombente presagio di morte. Gli stati d’animo di un gruppo di uomini disperati nell’immensità dei ghiacci antartici sono ben descritti da Benedicta Froelich in un romanzo complesso, originale, di qualità prepotente, L’indicibile inverno. Una storia bipolarepubblicato da Oltre Edizioni di Sestri Levante a giugno 2020 (424 pagine).

Nella grande stagione delle esplorazioni polari dalla fine dell’800 alle imprese dirigibilistiche degli anni Venti, la spedizione al comando dell’inglese Robert Fulton Scott raggiunse il Polo antartico il 18 gennaio 1912, per trovarvi la tenda in cui si erano riparati il competitore norvegese Roald Amundsen e i suoi, che avevano toccato per primi la meta, un mese prima. “Gelati” dall’insuccesso, i cinque componenti della spedizione Terra Nova, impegnati a raggiungere l’estremo punto meridionale dell’asse terrestre, intrapresero la strada del ritorno. Che non avrebbero mai completato.
C’è una malinconia indicibile, uno struggimento che non risparmia chi viene a conoscenza dell’esito mancato di una delle più coraggiose esplorazioni di tutti i tempi. Questo sentimento di compassione e condivisione di sforzi che si dimostrarono vani contro le avversità ha ispirato un romanzo triste, pieno di sensibilità e di partecipazione emotiva.

Froelich, giornalista, interprete dall’inglese e traduttrice, vive in Svizzera nel Canton Ticino e all’anagrafe è Benedicta Cagnone, nata nel 1981 a Milano. Un assiduo impegno nella traduzione dall’inglese e in inglese ha preceduto la scrittura di romanzi storici, il primo dei quali dedicato alla figura privata di Lawrence d’Arabia, interessandosi più all’aviere Ross della seconda vita di Thomas Edward Lawrence, che all’eroe dell’intelligence britannica portato sul grande schermo da Peter O’Toole.
Tra gli interessi di Froelich, spiccano certamente la letteratura e la cultura anglosassoni. Tra le sue tecniche, un’attenta documentazione preliminare sulle vicende che intende affrontare. Tra le curiosità, l’introspezione, l’attenzione ai processi psicologici che conducono a compiere determinate scelte, a adottare certi comportamenti, incontrati nei soggetti storici che attirano il suo interesse.
Nel caso del lavoro su Lawrence (Nella sua mente, Premio Guido Morselli nel 2013), è stata attratta dal conflitto interiore dell’uomo, nudo di fronte alle sue responsabilità, afflitto dai sensi di colpa per non avere rispettato gli impegni assunti con le tribù arabe che avevano collaborato alla sconfitta dei turchi in Medio Oriente, disattesi dal Governo inglese dopo la Prima guerra mondiale. Lì c’erano distese di sabbia, qui gli spazi dell’Antartide ghiacciata dal biancore accecante, ma i due testi hanno in comune i processi mentali auto accusatori.

Il senso di colpa che aggredisce per tutta la vita l’ultimo superstite della spedizione Scott nasce dall’inaccettabile consapevolezza di non essere stato capace di soccorrere i compagni d’impresa. Il venticinquenne geologo inglese Apsley Cherry-Garrard, componente della spedizione antartica dal 1910 come assistente biologo, era astato l’ultimo dei soccorritori a desistere dal raggiungere la squadra Scott, che si pensava di ritorno dal Polo.
Inviato con una slitta dal campo base a intercettare il Proprietario (come chiamavano Scott) e gli altri, tra i quali i suoi amicissimi Birdie Bowers e Bill Wilson, si era dato per vinto nei pressi del deposito di viveri preallestito sull’itinerario del rientro. Era stato costretto ad arrendersi dai suoi limiti fisici e addestrativi: la miopia, oltre a condizioni obiettive di debolezza unite all’inesperienza da apprendista navigatore e nella guida dei cani da slitta.
Il destino gli riservò la beffa atroce, straziante, d’essere lui stesso a ritrovare un anno dopo, ad appena poco più di 12 miglia dal luogo dove si era fermato, la tenda devastata dove giacevano congelati Scott e i suoi grandi amici.
Rientrato in patria, fu impegnato come ufficiale sul fronte francese, ma giorno e notte combatteva un altro conflitto personale contro il Polo Sud e la sua incapacità di portare soccorso ai compagni, pur tanto vicini. La guerra di Cherry-Garrard non avrebbe avuto fine se non con la morte, nel 1959, scrive l’autrice.

Uno stato di catatonia grave segnò l’ultima parte della sua vita, ma fin dall’Antartide era stato prostrato da una psicosi depressiva dell’umore, un disturbo bipolare, una condanna senz’appello alla solitudine, all’auto svalutazione, all’auto colpevolezza.
Apsley ha raccontato l’avventura di Scott in un libro, Il peggior viaggio del mondo, che nel romanzo arriva un secolo dopo tra le mani di una ragazza brianzola, Frida, anche lei affetta dallo stesso disturbo psichico bipolare. Il legame empatico che si stabilisce tra l’adolescente italiana e il sofferente gentiluomo britannico diventa un lungo e rasserenante percorso di guarigione, di presa di coscienza, di apertura al mondo e al prossimo.
Questo singolare romanzo è corredato da rare foto storiche della spedizione Terra Nova.



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OGT newspaper
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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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