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Non ne sapevo niente
Massimo Fusai di venerd 11 dicembre 2020


di Massimo Fusai

Non ne sapevo niente, questa è un’ammissione. Poco distante c’era la guerra, la Serbia sotto sanzioni, le morti innocenti, le mine e la pazzia. Cosa faceva lui per risolvere tutto ciò? Oppure stava, suo malgrado, favorendo quello status quo? Chi comandava stava dicendo la verità? Sono domande senza risposta, perché l’unica certezza era che, in definitiva, non ne sapeva niente.

Era uno de 34 sottufficiali di stanza a Calafat, nell’estremo sudovest della Romania, dove il Danubio segna il confine con la Bulgaria. Nei pressi la Serbia, immersa nella terribile guerra jugoslava. La partenze nel maggio del 1995. Una missione d’impostazione di pace con operazioni di polizia doganale, dove giravano armati solo durante il servizio di controllo sul fiume. In testa il basco blu con il distintivo della UEO, il Danubio invece era senza colore, non era più blu.

Dovevano essere tre mesi, ma l’impegno durò più a lungo. Ogni giorno una scoperta, ogni giorno una nuova sorpresa. Fra le varie attività il controllo dei mezzi navali e chiatte, per verificare il rispetto delle sanzioni. I bombardamenti nella vicina Serbia generavano tensione. Poi cecchini nascosti, gli scontri a fuoco e le urla concitate alla radio, forse era vero o forse addestramento.

Intorno le aree dei Rom, interi paesi dove vivevano la loro libertà senza regole, non amati mai da nessuno, compreso Ceausescu che li aveva deportati. Le schiere di bambini Rom, vestiti di stracci nelle baracche alla periferia di Calafat, pronti alla questua per pochi Lei. Ballerine speranzose di una vita migliore e magari pronte a seguire in Italia qualcuno. Le vedove, donne che diventano compagne di alcuni militari, per poi vederli partire. La vita di Adrian, Agatha e la sua bambola, la giovinezza di Dana e il pastore che non aveva mai visto il mare.

I regali per il natale e persino una fotografia può diventare un dono grande.

Non ne sappiamo proprio niente.

Un romanzo e non completamente un romanzo. Quanto dico è più un gioco di parole povero che un giudizio sostanziale. Infatti si tratta del resoconto di fatti reali e come tale va introdotto. Vita vissuta, esperienza personale, vicende che paiono sempre andare per una strada loro, ma era la strada che percorreva anche l’autore di questo libro.

Sullo sfondo la guerra fratricida che sconvolse la ex Jugoslavia agli inizi degli anni ’90. Di quella guerra forse sappiamo molto o molto poco. Ma sappiamo ancora meno cosa sia ruotato intorno a quella guerra, comprese le missioni NATO e UEO. Non vi era solo quello, anche l’Europa dell’est viveva cambiamenti derivanti dalla caduta del muro di Berlino, Romania a Bulgaria fra le tante. Tutti aspetti di cui, alla fine, non ne sappiamo niente.

Aveva ventisette anni, quando ricevette l’invito a partecipare alla “Danube mission”, in sostituzione di un radiotelegrafista impossibilitato a partire. L’idea iniziale era quella dell’opportunità, anche economica per certi versi, poi è la realtà a circoscrivere i veri ambiti. Infatti, nella copertina, si parla di rivelazioni, che sono tutte da comprendere e in profondità.

La nave, le cameriste, gli odori, le liti dovute alla convivenza o meglio scherzi da camerata e quando arriva la legittimatia si paga da bere. Dormire con le garze sulle orecchie, bocca e naso. In cima a tutto la gente.

A completamento dell’opera troviamo una breve presentazione di Piergiorgio Pulixi. In appendice invece una ricca documentazione inerente il periodo, dettaglio non da poco in quanto integra, con dati oggettivi, tutto il narrato del libro.

Ernesto Berretti è l’autore di questo testo confessione dai tratti forti e coinvolgenti, mai aulico o ridondante, anzi spesso molto semplice. Catanese di nascita, oggi vive e lavora a Civitavecchia con la propria famiglia. Si tratta dell’ennesimo esordio, come tanti di cui ho parlato nelle mie pagine. “Non ne sapevo niente” è stato sviluppato secondo canoni diversi rispetto ad altri libri. Qui, infatti, ci si spinge sull’autobiografico e se solitamente c’è sempre qualcosa di un autore nei suoi libri, in questo caso scrittore e storia sono tutt’uno. Il libro è del 2018, ma solo adesso sta venendo alla giusta luce.

Ciorba e mambrucchi, sono cose profondamente diverse ma da scoprire.



leggi l'articolo integrale su Massimo Fusai
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Massimo Fusai - venerd 11 dicembre 2020


di Massimo Fusai

Non ne sapevo niente, questa è un’ammissione. Poco distante c’era la guerra, la Serbia sotto sanzioni, le morti innocenti, le mine e la pazzia. Cosa faceva lui per risolvere tutto ciò? Oppure stava, suo malgrado, favorendo quello status quo? Chi comandava stava dicendo la verità? Sono domande senza risposta, perché l’unica certezza era che, in definitiva, non ne sapeva niente.

Era uno de 34 sottufficiali di stanza a Calafat, nell’estremo sudovest della Romania, dove il Danubio segna il confine con la Bulgaria. Nei pressi la Serbia, immersa nella terribile guerra jugoslava. La partenze nel maggio del 1995. Una missione d’impostazione di pace con operazioni di polizia doganale, dove giravano armati solo durante il servizio di controllo sul fiume. In testa il basco blu con il distintivo della UEO, il Danubio invece era senza colore, non era più blu.

Dovevano essere tre mesi, ma l’impegno durò più a lungo. Ogni giorno una scoperta, ogni giorno una nuova sorpresa. Fra le varie attività il controllo dei mezzi navali e chiatte, per verificare il rispetto delle sanzioni. I bombardamenti nella vicina Serbia generavano tensione. Poi cecchini nascosti, gli scontri a fuoco e le urla concitate alla radio, forse era vero o forse addestramento.

Intorno le aree dei Rom, interi paesi dove vivevano la loro libertà senza regole, non amati mai da nessuno, compreso Ceausescu che li aveva deportati. Le schiere di bambini Rom, vestiti di stracci nelle baracche alla periferia di Calafat, pronti alla questua per pochi Lei. Ballerine speranzose di una vita migliore e magari pronte a seguire in Italia qualcuno. Le vedove, donne che diventano compagne di alcuni militari, per poi vederli partire. La vita di Adrian, Agatha e la sua bambola, la giovinezza di Dana e il pastore che non aveva mai visto il mare.

I regali per il natale e persino una fotografia può diventare un dono grande.

Non ne sappiamo proprio niente.

Un romanzo e non completamente un romanzo. Quanto dico è più un gioco di parole povero che un giudizio sostanziale. Infatti si tratta del resoconto di fatti reali e come tale va introdotto. Vita vissuta, esperienza personale, vicende che paiono sempre andare per una strada loro, ma era la strada che percorreva anche l’autore di questo libro.

Sullo sfondo la guerra fratricida che sconvolse la ex Jugoslavia agli inizi degli anni ’90. Di quella guerra forse sappiamo molto o molto poco. Ma sappiamo ancora meno cosa sia ruotato intorno a quella guerra, comprese le missioni NATO e UEO. Non vi era solo quello, anche l’Europa dell’est viveva cambiamenti derivanti dalla caduta del muro di Berlino, Romania a Bulgaria fra le tante. Tutti aspetti di cui, alla fine, non ne sappiamo niente.

Aveva ventisette anni, quando ricevette l’invito a partecipare alla “Danube mission”, in sostituzione di un radiotelegrafista impossibilitato a partire. L’idea iniziale era quella dell’opportunità, anche economica per certi versi, poi è la realtà a circoscrivere i veri ambiti. Infatti, nella copertina, si parla di rivelazioni, che sono tutte da comprendere e in profondità.

La nave, le cameriste, gli odori, le liti dovute alla convivenza o meglio scherzi da camerata e quando arriva la legittimatia si paga da bere. Dormire con le garze sulle orecchie, bocca e naso. In cima a tutto la gente.

A completamento dell’opera troviamo una breve presentazione di Piergiorgio Pulixi. In appendice invece una ricca documentazione inerente il periodo, dettaglio non da poco in quanto integra, con dati oggettivi, tutto il narrato del libro.

Ernesto Berretti è l’autore di questo testo confessione dai tratti forti e coinvolgenti, mai aulico o ridondante, anzi spesso molto semplice. Catanese di nascita, oggi vive e lavora a Civitavecchia con la propria famiglia. Si tratta dell’ennesimo esordio, come tanti di cui ho parlato nelle mie pagine. “Non ne sapevo niente” è stato sviluppato secondo canoni diversi rispetto ad altri libri. Qui, infatti, ci si spinge sull’autobiografico e se solitamente c’è sempre qualcosa di un autore nei suoi libri, in questo caso scrittore e storia sono tutt’uno. Il libro è del 2018, ma solo adesso sta venendo alla giusta luce.

Ciorba e mambrucchi, sono cose profondamente diverse ma da scoprire.



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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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