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Versi e immagini per una musica immortale
PuntoZip di sabato 7 novembre 2020


di Giusi Sciortino
Un omaggio in versi al jazz e ai suoi esponenti più rappresentativi che fa pensare, soprattutto, alla magica stagione sbocciata negli Stati Uniti tra gli anni ‘50 e ‘60. Per farlo, utilizza una lingua precisa e sapiente, scevra di fronzoli e orpelli, capace di cogliere sfumature emotive e impressioni sonore e fissarle sul foglio attraverso potenti immagini. Jazz come poesia, espressioni e linguaggi differenti eppure accomunati dalla felice successione di note e parole sospese in armonioso equilibro tra pause e silenzi. Dopo una preziosa prefazione a cura di Vittorino Curci, veloci ed efficaci ritratti (belle le illustrazioni a corredo delle poesie realizzate di Alfonso Avagliano) introducono una carrellata di indimenticati strumentisti e interpreti, senza trascurare d’includere due importanti musicisti italiani contemporanei, ovvero: Enrico Rava e Paolo Fresu.

È una poesia semplice e diretta quella di Nicola Vacca, penetra l’essenza di vite infuse in musica, oppure, viceversa, di musica che si fa essenza vitale, dato che si tratta proprio di quel jazz che della vita imita i ritmi ora sincopati ora indiavolati, le battute d’arresto e gli esiti imprevedibili. Si procede tra lentezze calcolate e scatti improvvisi che azzerano “i contatori dell’istante“, in un racconto che si tinge dei toni chiaroscurali consoni alle bocche d’oro dell’improvvisazione, per poi colorarsi delle vivide pennellate di ugole femminili paradisiache e ribelli a un tempo, fino a esplodere nella luce del “sole a mezzanotte” dell’amore per quell’arte che si fa vissuto. Mentre si avanza in questo affascinante percorso, Nina Simone guarda un po’ in tralice e chiede «Cosa significa essere liberi?». La risposta è nel geniale Miles Davis che “non ha mai sprecato il suo fiato“, opera compiuta delle “possibilità infinite” del genio umano; nelle mani di sublimi pianisti; nel sentimento intriso di dolcezza e Spleen di una musica frutto di ragionata follia nelle cui ombre si riverberano fiochi bagliori, poi tinte luminose e, infine, giochi d’artificio e deflagrazioni. “Sonic Boom“!

L’autore ha la capacità di trasmettere la sua grande passione per la materia trattata, accompagnare il lettore e farlo immergere nelle atmosfere vespertine di amare melodie in viaggio lungo i binari delle “ragioni torbide dell’inconscio” capaci, se percorse fino in fondo, di condurre a quella “porta che si apre sul divino“, con tutto lo stupore e la meraviglia che ne derivano.

È lo stupore del quotidiano, del sogno, dell’emozione dirompente come un “dialogo che nasce dal caos“. Sono pur sempre le povere cose del nostro vivere che, confuse tra di loro, illuminate da una luce ambigua che si mostra “nel rovescio di uno specchio”, ci appaiono indecifrabili. Per comprendere il reale così sfuggente e inestricabile nella sua complessità, proprio come il jazz, e scorgerne l’intima semplicità, ciò che occorre è fantasia. E cuore. Usiamolo, come bussola per non perdere l’orientamento, per adeguarci al passo di una vita che chiede semplicemente di essere festeggiata ogni giorno, anche quando si mostra in dissolvenza.

Solamente “Quando saremo capaci d’amare/porteremo con noi i fogli d’ipnos di Keith” oppure, più prosaicamente, saremo in grado di apprezzare le piccole gioie del momento, la vera libertà che viene “dal caffè che beviamo al mattino nelle persone che sfioriamo negli incontri che il caso ci mette sotto gli occhi”. La poesia ci permette di ricavare un senso dal caos delle apparenze, redimerci dall’insipienza del vano scorrere del tempo, a patto di soffermarci laddove vale la pena farlo, invece di passare oltre, inanemente, come se il vivere non fosse altro che un fugace, insensato passaggio. O meglio, lo è se deprivato dei suoi significati profondi, dei momenti di bellezza in cui poterci rifugiare per sfuggire a un “mondo che ci uccide con il frastuono“. Poesia come jazz, fragile opportunità di salvezza “in quest’autunno di giorni agnostici”.

(Nicola Vacca, Arrivano parole dal jazz, Nicola Vacca, Oltre edizioni pagine 91, € 14,00)

Nicola Vacca è stato ospite di una delle dirette di “PuntoZip Atupertù”, nella quale abbiamo parlato proprio di questo libro. Rivivila sulla pagina dedicata!



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PuntoZip - sabato 7 novembre 2020


di Giusi Sciortino
Un omaggio in versi al jazz e ai suoi esponenti più rappresentativi che fa pensare, soprattutto, alla magica stagione sbocciata negli Stati Uniti tra gli anni ‘50 e ‘60. Per farlo, utilizza una lingua precisa e sapiente, scevra di fronzoli e orpelli, capace di cogliere sfumature emotive e impressioni sonore e fissarle sul foglio attraverso potenti immagini. Jazz come poesia, espressioni e linguaggi differenti eppure accomunati dalla felice successione di note e parole sospese in armonioso equilibro tra pause e silenzi. Dopo una preziosa prefazione a cura di Vittorino Curci, veloci ed efficaci ritratti (belle le illustrazioni a corredo delle poesie realizzate di Alfonso Avagliano) introducono una carrellata di indimenticati strumentisti e interpreti, senza trascurare d’includere due importanti musicisti italiani contemporanei, ovvero: Enrico Rava e Paolo Fresu.

È una poesia semplice e diretta quella di Nicola Vacca, penetra l’essenza di vite infuse in musica, oppure, viceversa, di musica che si fa essenza vitale, dato che si tratta proprio di quel jazz che della vita imita i ritmi ora sincopati ora indiavolati, le battute d’arresto e gli esiti imprevedibili. Si procede tra lentezze calcolate e scatti improvvisi che azzerano “i contatori dell’istante“, in un racconto che si tinge dei toni chiaroscurali consoni alle bocche d’oro dell’improvvisazione, per poi colorarsi delle vivide pennellate di ugole femminili paradisiache e ribelli a un tempo, fino a esplodere nella luce del “sole a mezzanotte” dell’amore per quell’arte che si fa vissuto. Mentre si avanza in questo affascinante percorso, Nina Simone guarda un po’ in tralice e chiede «Cosa significa essere liberi?». La risposta è nel geniale Miles Davis che “non ha mai sprecato il suo fiato“, opera compiuta delle “possibilità infinite” del genio umano; nelle mani di sublimi pianisti; nel sentimento intriso di dolcezza e Spleen di una musica frutto di ragionata follia nelle cui ombre si riverberano fiochi bagliori, poi tinte luminose e, infine, giochi d’artificio e deflagrazioni. “Sonic Boom“!

L’autore ha la capacità di trasmettere la sua grande passione per la materia trattata, accompagnare il lettore e farlo immergere nelle atmosfere vespertine di amare melodie in viaggio lungo i binari delle “ragioni torbide dell’inconscio” capaci, se percorse fino in fondo, di condurre a quella “porta che si apre sul divino“, con tutto lo stupore e la meraviglia che ne derivano.

È lo stupore del quotidiano, del sogno, dell’emozione dirompente come un “dialogo che nasce dal caos“. Sono pur sempre le povere cose del nostro vivere che, confuse tra di loro, illuminate da una luce ambigua che si mostra “nel rovescio di uno specchio”, ci appaiono indecifrabili. Per comprendere il reale così sfuggente e inestricabile nella sua complessità, proprio come il jazz, e scorgerne l’intima semplicità, ciò che occorre è fantasia. E cuore. Usiamolo, come bussola per non perdere l’orientamento, per adeguarci al passo di una vita che chiede semplicemente di essere festeggiata ogni giorno, anche quando si mostra in dissolvenza.

Solamente “Quando saremo capaci d’amare/porteremo con noi i fogli d’ipnos di Keith” oppure, più prosaicamente, saremo in grado di apprezzare le piccole gioie del momento, la vera libertà che viene “dal caffè che beviamo al mattino nelle persone che sfioriamo negli incontri che il caso ci mette sotto gli occhi”. La poesia ci permette di ricavare un senso dal caos delle apparenze, redimerci dall’insipienza del vano scorrere del tempo, a patto di soffermarci laddove vale la pena farlo, invece di passare oltre, inanemente, come se il vivere non fosse altro che un fugace, insensato passaggio. O meglio, lo è se deprivato dei suoi significati profondi, dei momenti di bellezza in cui poterci rifugiare per sfuggire a un “mondo che ci uccide con il frastuono“. Poesia come jazz, fragile opportunità di salvezza “in quest’autunno di giorni agnostici”.

(Nicola Vacca, Arrivano parole dal jazz, Nicola Vacca, Oltre edizioni pagine 91, € 14,00)

Nicola Vacca è stato ospite di una delle dirette di “PuntoZip Atupertù”, nella quale abbiamo parlato proprio di questo libro. Rivivila sulla pagina dedicata!



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OGT newspaper
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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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