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Cartagine oltre il mito
Lankenauta.it di martedě 29 dicembre 2020
C’č una sorta di mitologia attorno alla cittŕ fenicia di Cartagine che nasce con la sua fondatrice, Elissa, in fuga da Tiro – siamo nel IX secolo a.C., chiamata Didone dalla popolazione della costa africana (dove infine la fuga termina) e continua con la costruzione della cittŕ nuova, Qrt Hdst secondo la toponomastica punica. I Fenici sono marinai-commercianti, alla perenne ricerca di oro e argento (cosě li descrivono Erodoto e Diodoro Siculo), seguaci di dči sanguinari: ma forse qui il mito dei tophet – uno č visibile sull’isola di Mozia, di fronte a Marsala – cioč i cimiteri che conterrebbero i resti di infanti sacrificati – deve la sua origine piů a una storiografia greca “partigiana”, e ai romanzi di Flaubert, che alla realtŕ storica.

di Ilde Menis

C’è una sorta di mitologia attorno alla città fenicia di Cartagine che nasce con la sua fondatrice, Elissa, in fuga da Tiro – siamo nel IX secolo a.C., chiamata Didone dalla popolazione della costa africana (dove infine la fuga termina) e continua con la costruzione della città nuova, Qrt Hdst secondo la toponomastica punica. I Fenici sono marinai-commercianti, alla perenne ricerca di oro e argento (così li descrivono Erodoto e Diodoro Siculo), seguaci di dèi sanguinari: ma forse qui il mito dei tophet – uno è visibile sull’isola di Mozia, di fronte a Marsala – cioè i cimiteri che conterrebbero i resti di infanti sacrificati – deve la sua origine più a una storiografia greca “partigiana”, e ai romanzi di Flaubert, che alla realtà storica.

Cartagine è la mitica città da cui muove Annibale, e nella quale si svolgono le guerre puniche, ma sarà anche la patria di Tertulliano, Agostino, Fulgenzio. Una “seconda Roma”, secondo lo stereotipo che continua a condizionare l’immaginario collettivo, come giustamente nota Massimo Cultraro nella prefazione. Un punto strategico, crocevia tra Occidente e Africa, luogo di scambi, di incontro tra culture, ma anche centro di interesse, nella scacchiera imperiale, per rafforzare l’autorità, o per giochi di forza (si veda la rivolta contro Massenzio).

L’interesse per l’antica Cartagine, scrive il professor Giovanni Di Stefano, non è recente, e gli studi archeologici (anche pre-archeologici in senso stretto) non sono appannaggio esclusivo di Inglesi e Francesi. Già nel Sedicesimo secolo il veneziano Giovanni Bembo aveva affrontato un viaggio toccando le coste dell’Africa e visitando rovine, nel Diciassettesimo fu la volta di Giovanni Pagni da Pisa che vide le rovine di Cartagine riportando epigrafi latine, nel Diciannovesimo il padre Felice Caronni si fermò a lungo in zona, tra Cartagine e Tunisi, redigendo una mappa in cui compare l’acropoli della Byrsa, le cisterne, un tempio circolare, i porti, le mura… Esiliato a Tunisi, il conte Camillo Borgia tra 1815 e 1816 diede un altro importante contributo alla cartografia dell’epoca. Importanti sono allo stesso modo le ricerche e gli scritti del gesuita siciliano padre Giorgio Maria Ciaceri.

L’interesse in senso coloniale verso la Tripolitania e la Cirenaica, dopo la prima guerra mondiale porteranno Biagio Pace ad approfondire l’interesse per Cartagine, soprattutto dopo la scoperta del tophet nel 1922. Ma dobbiamo aspettare gli anni Settanta per “quell’esperimento di ricerca internazionale rimasto a tutt’oggi l’unico nel panorama dell’archeologia mediterranea” (p.29) che furono le cinque campagne di ricerca (1973-1977) con il governo tunisino, l’Unesco e gli archeologi italiani (soprattutto Andrea Carandini e Antonino De Vita che le diressero).

Per le ricerche sulla Cartagine antica le scoperte importanti, dopo il tophet, riguardano negli anni Quaranta un recinto all’interno di questo, probabilmente contenente le suppellettili di un banchetto rituale risalente all’VIII sec. a.C. con l’intento di consacrare un altare: un luogo di fondazione al cui rito sacralizzatorio parteciparono più clan misti, con sicura presenza di Greci (Euboici) attestata dalla provenienza di molte delle suppellettili (presenti in tutta l’area mediterranea). In questo momento la zona non sembra ancora destinata a inumazione, funzione che acquisirà in seguito. Siamo qui alla seconda generazione dopo la fondazione di Cartagine, data attorno alla tradizionale fondazione della mitica città da parte di Tiro nell’818-814 a.C. La presenza di vasellame di provenienza euboica anche in aree proto urbane attesta gli scambi mercantili tra Fenici, Greci, Corinzi ed Euboici. Tenendo presente, grazie a recenti scoperte di un’anfora micenea, che l’area era probabilmente frequentata in epoca pre-fenicia. La vocazione commerciale e di scambio dei Fenici spiega anche la presenza di culti ellenistici probabilmente arrivati dalla Sicilia, come quello di Demetra Core, ancora prima delle evidenze archeologiche risalenti al terzo e secondo secolo a.C.

Il periodo romano della Colonia Iulia Concordia Karthago dalla fase augustea a quella giulio-claudia è ben attestato innanzitutto da tre monumenti figurati: l’Ara Gentis Augustea, contemporanea alla romana Ara Pacis, rinvenuta alla Byrsa, anepigrafica ma riconducibile al liberto Publio Perelio Edulo, istoriata con i topoi  iconografici romani della fuga di Enea con Ascanio e Anchise, la dea Roma, Apollo e una scena di sacrificio; e due lastre d’altare provenienti dall’area situata tra le cisterne della Malga e l’anfiteatro, vicino all’ingresso principale della città: anche in queste lastre le raffigurazioni ripropongono iconografie romane, influenzate dalla committenza e dalla religiosità locale (culto di Demetra, richiami egizi al culto di Osiride, Marte Ultore, Venere e forse una solennizzazione del giovane Gaio Cesare, prematuramente scomparso, cui venne assegnata postuma la vittoria sui Parti). Sia l’ara che il tempio mostrano da un lato la continuità della nuova colonia da Roma, ma ostentano i risultati della pax augustea che assieme all’ubicazione dei  luoghi politici, religiosi e pubblici della città (foro, ingresso, anfiteatro, templi, terme), fanno di Cartagine davvero la “Roma africana”.

Lo studio passa ad analizzare punto per punto l’antica colonia romana, o almeno ciò che finora è emerso dagli scavi: dopo gli altari, gli immensi serbatoi d’acqua de “La Malga”, le più grandi cisterne coperte del mondo romano, che portavano acqua alla città, alle fontane, alle terme, persino all’anfiteatro ove si tenevano le naumachie, costituiti da quindici camere longitudinali con una portata stimata di 44.000 metri cubi d’acqua. E sempre in tema di acqua, la fontana di Nettuno, di epoca imperiale, forse edificata al tempo del completamento dell’acquedotto di Zaghouan (dopo il 128 d.C.), di cui rimangono tre lati e la decorazione musiva. Poi le case, le tabernae, le botteghe, spesso unite a magazzini e cisterne. Alcuni di questi ambienti, monolocali molto modesti, erano affittati. Di alcune botteghe si può ipotizzare l’attività, grazie alle decorazioni presenti: c’erano sicuramente edifici dedicati alla vendita e alla lavorazione dei prodotti ittici e mulini per la macina del grano e dell’orzo (non è stato però trovato un forno che avrebbe dovuto completare il ciclo con la produzione di pane: forse successivi scavi daranno fondamento a questa ipotesi).

Le case “gentilizie” di età romana, di cui sono state ricostruite le piante, sono dotate (16 su 28) di ambienti per il banchetto (stibadia), talvolta collegati a fontane che facevano scorrere l’acqua davanti ai convitati. La pianta è variabile, a seconda probabilmente della forma sia dei triclini sia dei tavoli (a sigma) utilizzati per arredare queste sale da convito. Molti edifici vennero in realtà restaurati e ricostruiti dopo la rivolta del 311 che costò la vita a seimila persone, in occasione della successione del vicario imperiale, Lucio Domizio Alessandro, contro Massenzio. Cartagine si mantenne sempre anti-massenziana e questo consentì a Costantino di lasciare un’impronta anche culturale nei sudditi: le élites di Cartagine si identificavano ora con lo stile di vita dell’imperatore, così che si moltiplicano i mosaici con scene di circo e le raffigurazioni di vita quotidiana del dominus prendono il posto delle allegorie mitologiche.

Cartagine è considerata alla stregua di Alessandria e Costantinopoli, per qualcuno addirittura seconda solo a Roma. Nonostante il possente cerchio di mura fatto erigere da Teodosio II nel 425, la città un decennio più tardi (439) cade in mano ai Vandali. A questo periodo viene fatto risalire anche un bronzetto ippomorfo che, come altri rinvenuti in Sicilia, doveva servire come amuleto protettivo. Il muro teodosiano comporta un riassetto della viabilità urbana e l’abbandono di alcune zone sembra effettivamente legato all’innalzamento del muro (con l’isolamento di alcune zone) piuttosto che alle distruzioni dei Vandali.

L’Autore che ci ha fin qui condotti lungo la storia della Cartagine antica, offre infine una panoramica su quelli che dovettero costituire i confini del territorio cartaginese, nell’odierna Tunisia meridionale, secondo un accatastamento voluto da Traiano. E incontriamo così la Civitas Nybgeniorum (terra dei Nybgenii) che si estendeva da Gafsa a Gabes. La contiguità con il territorio pre-desertico rende questi territori strategici ed è certo che ai tempi di Traiano il limes corrispondesse con la linea del deserto. Il centro della civitas chiamato Turris Tamalleni (identificato con Telmine) diventa municipium nel 128 e nel quarto secolo è sede vescovile. Le ricerche nell’oasi di Telmine non sono ancora concluse, la presenza di un castellum apre nuove ipotesi, rafforzando in ogni caso l’idea di un avamposto strategico. Anche le fattorie rinvenute nell’oasi di Chebika raccontano di vie frequentate in epoca imperiale e aumentano le conoscenze relative al limes nell’Africa proconsolare.

L’ultimo capitolo della ricerca è incentrato su un argomento caro all’Autore che vi ha dedicato più di una pubblicazione: due relitti di epoca imperiale, che trasportavano colonne e vasellame (il relitto rinvenuto sulla costa ragusana, presso Camarina) e generi alimentari (il relitto rinvenuto a Randello) a riprova dei legami commerciali tra Cartagine (probabile scalo) e il resto del Mediterraneo.

L’appendice finale riassume i monumenti romani della città, dal foro (la cui basilica pare fosse seconda solo alla romana Basilica Ulpia e a quella di Leptis Magna) agli edifici per gli spettacoli (il teatro con la cavea costruita; l’anfiteatro che vide il martirio di due sante cristiane, Felicita e Perpetua; l’odéon, forse il più grande del mondo romano, di età severiana; il circo che occupava l’equivalente di 12 insulae e ospitava 60.000 spettatori), le terme sul mare, i porti ricostruiti su quelli punici secondo modelli planimetrci in uso a Ostia, circondati da magazzini e luoghi di culto.

Incentrato soprattutto sulla Karthago romana di epoca imperiale, il libro è di agevole lettura per chi non sia un addetto ai lavori in senso stretto, anche per la scelta di limitare gli argomenti a capitoli brevi (segnalo in ogni caso un apparato bibliografico importante al termine di ogni capitolo): ottima la veste tipografica, avrebbe forse meritato fotografie a colori dei molti reperti raffigurati. Di Stefano ci restituisce una città viva, ben definita nell’impianto punico, fiorente nell’epoca romana soprattutto imperiale, che neppure le invasioni barbariche riuscirono a cancellare. Lo faranno gli Omayyadi, nel 698, decretandone l’abbandono e lo spopolamento. L’auspicio dell’Autore, tra le righe, è che le collaborazioni tra gli Stati in materia di ricerca archeologica e storica consentano la prosecuzione degli scavi e dello studio di quest’area, di importanza strategica per tutta la storia del Mediterraneo antico.



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C’č una sorta di mitologia attorno alla cittŕ fenicia di Cartagine che nasce con la sua fondatrice, Elissa, in fuga da Tiro – siamo nel IX secolo a.C., chiamata Didone dalla popolazione della costa africana (dove infine la fuga termina) e continua con la costruzione della cittŕ nuova, Qrt Hdst secondo la toponomastica punica. I Fenici sono marinai-commercianti, alla perenne ricerca di oro e argento (cosě li descrivono Erodoto e Diodoro Siculo), seguaci di dči sanguinari: ma forse qui il mito dei tophet – uno č visibile sull’isola di Mozia, di fronte a Marsala – cioč i cimiteri che conterrebbero i resti di infanti sacrificati – deve la sua origine piů a una storiografia greca “partigiana”, e ai romanzi di Flaubert, che alla realtŕ storica.

di Ilde Menis

C’è una sorta di mitologia attorno alla città fenicia di Cartagine che nasce con la sua fondatrice, Elissa, in fuga da Tiro – siamo nel IX secolo a.C., chiamata Didone dalla popolazione della costa africana (dove infine la fuga termina) e continua con la costruzione della città nuova, Qrt Hdst secondo la toponomastica punica. I Fenici sono marinai-commercianti, alla perenne ricerca di oro e argento (così li descrivono Erodoto e Diodoro Siculo), seguaci di dèi sanguinari: ma forse qui il mito dei tophet – uno è visibile sull’isola di Mozia, di fronte a Marsala – cioè i cimiteri che conterrebbero i resti di infanti sacrificati – deve la sua origine più a una storiografia greca “partigiana”, e ai romanzi di Flaubert, che alla realtà storica.

Cartagine è la mitica città da cui muove Annibale, e nella quale si svolgono le guerre puniche, ma sarà anche la patria di Tertulliano, Agostino, Fulgenzio. Una “seconda Roma”, secondo lo stereotipo che continua a condizionare l’immaginario collettivo, come giustamente nota Massimo Cultraro nella prefazione. Un punto strategico, crocevia tra Occidente e Africa, luogo di scambi, di incontro tra culture, ma anche centro di interesse, nella scacchiera imperiale, per rafforzare l’autorità, o per giochi di forza (si veda la rivolta contro Massenzio).

L’interesse per l’antica Cartagine, scrive il professor Giovanni Di Stefano, non è recente, e gli studi archeologici (anche pre-archeologici in senso stretto) non sono appannaggio esclusivo di Inglesi e Francesi. Già nel Sedicesimo secolo il veneziano Giovanni Bembo aveva affrontato un viaggio toccando le coste dell’Africa e visitando rovine, nel Diciassettesimo fu la volta di Giovanni Pagni da Pisa che vide le rovine di Cartagine riportando epigrafi latine, nel Diciannovesimo il padre Felice Caronni si fermò a lungo in zona, tra Cartagine e Tunisi, redigendo una mappa in cui compare l’acropoli della Byrsa, le cisterne, un tempio circolare, i porti, le mura… Esiliato a Tunisi, il conte Camillo Borgia tra 1815 e 1816 diede un altro importante contributo alla cartografia dell’epoca. Importanti sono allo stesso modo le ricerche e gli scritti del gesuita siciliano padre Giorgio Maria Ciaceri.

L’interesse in senso coloniale verso la Tripolitania e la Cirenaica, dopo la prima guerra mondiale porteranno Biagio Pace ad approfondire l’interesse per Cartagine, soprattutto dopo la scoperta del tophet nel 1922. Ma dobbiamo aspettare gli anni Settanta per “quell’esperimento di ricerca internazionale rimasto a tutt’oggi l’unico nel panorama dell’archeologia mediterranea” (p.29) che furono le cinque campagne di ricerca (1973-1977) con il governo tunisino, l’Unesco e gli archeologi italiani (soprattutto Andrea Carandini e Antonino De Vita che le diressero).

Per le ricerche sulla Cartagine antica le scoperte importanti, dopo il tophet, riguardano negli anni Quaranta un recinto all’interno di questo, probabilmente contenente le suppellettili di un banchetto rituale risalente all’VIII sec. a.C. con l’intento di consacrare un altare: un luogo di fondazione al cui rito sacralizzatorio parteciparono più clan misti, con sicura presenza di Greci (Euboici) attestata dalla provenienza di molte delle suppellettili (presenti in tutta l’area mediterranea). In questo momento la zona non sembra ancora destinata a inumazione, funzione che acquisirà in seguito. Siamo qui alla seconda generazione dopo la fondazione di Cartagine, data attorno alla tradizionale fondazione della mitica città da parte di Tiro nell’818-814 a.C. La presenza di vasellame di provenienza euboica anche in aree proto urbane attesta gli scambi mercantili tra Fenici, Greci, Corinzi ed Euboici. Tenendo presente, grazie a recenti scoperte di un’anfora micenea, che l’area era probabilmente frequentata in epoca pre-fenicia. La vocazione commerciale e di scambio dei Fenici spiega anche la presenza di culti ellenistici probabilmente arrivati dalla Sicilia, come quello di Demetra Core, ancora prima delle evidenze archeologiche risalenti al terzo e secondo secolo a.C.

Il periodo romano della Colonia Iulia Concordia Karthago dalla fase augustea a quella giulio-claudia è ben attestato innanzitutto da tre monumenti figurati: l’Ara Gentis Augustea, contemporanea alla romana Ara Pacis, rinvenuta alla Byrsa, anepigrafica ma riconducibile al liberto Publio Perelio Edulo, istoriata con i topoi  iconografici romani della fuga di Enea con Ascanio e Anchise, la dea Roma, Apollo e una scena di sacrificio; e due lastre d’altare provenienti dall’area situata tra le cisterne della Malga e l’anfiteatro, vicino all’ingresso principale della città: anche in queste lastre le raffigurazioni ripropongono iconografie romane, influenzate dalla committenza e dalla religiosità locale (culto di Demetra, richiami egizi al culto di Osiride, Marte Ultore, Venere e forse una solennizzazione del giovane Gaio Cesare, prematuramente scomparso, cui venne assegnata postuma la vittoria sui Parti). Sia l’ara che il tempio mostrano da un lato la continuità della nuova colonia da Roma, ma ostentano i risultati della pax augustea che assieme all’ubicazione dei  luoghi politici, religiosi e pubblici della città (foro, ingresso, anfiteatro, templi, terme), fanno di Cartagine davvero la “Roma africana”.

Lo studio passa ad analizzare punto per punto l’antica colonia romana, o almeno ciò che finora è emerso dagli scavi: dopo gli altari, gli immensi serbatoi d’acqua de “La Malga”, le più grandi cisterne coperte del mondo romano, che portavano acqua alla città, alle fontane, alle terme, persino all’anfiteatro ove si tenevano le naumachie, costituiti da quindici camere longitudinali con una portata stimata di 44.000 metri cubi d’acqua. E sempre in tema di acqua, la fontana di Nettuno, di epoca imperiale, forse edificata al tempo del completamento dell’acquedotto di Zaghouan (dopo il 128 d.C.), di cui rimangono tre lati e la decorazione musiva. Poi le case, le tabernae, le botteghe, spesso unite a magazzini e cisterne. Alcuni di questi ambienti, monolocali molto modesti, erano affittati. Di alcune botteghe si può ipotizzare l’attività, grazie alle decorazioni presenti: c’erano sicuramente edifici dedicati alla vendita e alla lavorazione dei prodotti ittici e mulini per la macina del grano e dell’orzo (non è stato però trovato un forno che avrebbe dovuto completare il ciclo con la produzione di pane: forse successivi scavi daranno fondamento a questa ipotesi).

Le case “gentilizie” di età romana, di cui sono state ricostruite le piante, sono dotate (16 su 28) di ambienti per il banchetto (stibadia), talvolta collegati a fontane che facevano scorrere l’acqua davanti ai convitati. La pianta è variabile, a seconda probabilmente della forma sia dei triclini sia dei tavoli (a sigma) utilizzati per arredare queste sale da convito. Molti edifici vennero in realtà restaurati e ricostruiti dopo la rivolta del 311 che costò la vita a seimila persone, in occasione della successione del vicario imperiale, Lucio Domizio Alessandro, contro Massenzio. Cartagine si mantenne sempre anti-massenziana e questo consentì a Costantino di lasciare un’impronta anche culturale nei sudditi: le élites di Cartagine si identificavano ora con lo stile di vita dell’imperatore, così che si moltiplicano i mosaici con scene di circo e le raffigurazioni di vita quotidiana del dominus prendono il posto delle allegorie mitologiche.

Cartagine è considerata alla stregua di Alessandria e Costantinopoli, per qualcuno addirittura seconda solo a Roma. Nonostante il possente cerchio di mura fatto erigere da Teodosio II nel 425, la città un decennio più tardi (439) cade in mano ai Vandali. A questo periodo viene fatto risalire anche un bronzetto ippomorfo che, come altri rinvenuti in Sicilia, doveva servire come amuleto protettivo. Il muro teodosiano comporta un riassetto della viabilità urbana e l’abbandono di alcune zone sembra effettivamente legato all’innalzamento del muro (con l’isolamento di alcune zone) piuttosto che alle distruzioni dei Vandali.

L’Autore che ci ha fin qui condotti lungo la storia della Cartagine antica, offre infine una panoramica su quelli che dovettero costituire i confini del territorio cartaginese, nell’odierna Tunisia meridionale, secondo un accatastamento voluto da Traiano. E incontriamo così la Civitas Nybgeniorum (terra dei Nybgenii) che si estendeva da Gafsa a Gabes. La contiguità con il territorio pre-desertico rende questi territori strategici ed è certo che ai tempi di Traiano il limes corrispondesse con la linea del deserto. Il centro della civitas chiamato Turris Tamalleni (identificato con Telmine) diventa municipium nel 128 e nel quarto secolo è sede vescovile. Le ricerche nell’oasi di Telmine non sono ancora concluse, la presenza di un castellum apre nuove ipotesi, rafforzando in ogni caso l’idea di un avamposto strategico. Anche le fattorie rinvenute nell’oasi di Chebika raccontano di vie frequentate in epoca imperiale e aumentano le conoscenze relative al limes nell’Africa proconsolare.

L’ultimo capitolo della ricerca è incentrato su un argomento caro all’Autore che vi ha dedicato più di una pubblicazione: due relitti di epoca imperiale, che trasportavano colonne e vasellame (il relitto rinvenuto sulla costa ragusana, presso Camarina) e generi alimentari (il relitto rinvenuto a Randello) a riprova dei legami commerciali tra Cartagine (probabile scalo) e il resto del Mediterraneo.

L’appendice finale riassume i monumenti romani della città, dal foro (la cui basilica pare fosse seconda solo alla romana Basilica Ulpia e a quella di Leptis Magna) agli edifici per gli spettacoli (il teatro con la cavea costruita; l’anfiteatro che vide il martirio di due sante cristiane, Felicita e Perpetua; l’odéon, forse il più grande del mondo romano, di età severiana; il circo che occupava l’equivalente di 12 insulae e ospitava 60.000 spettatori), le terme sul mare, i porti ricostruiti su quelli punici secondo modelli planimetrci in uso a Ostia, circondati da magazzini e luoghi di culto.

Incentrato soprattutto sulla Karthago romana di epoca imperiale, il libro è di agevole lettura per chi non sia un addetto ai lavori in senso stretto, anche per la scelta di limitare gli argomenti a capitoli brevi (segnalo in ogni caso un apparato bibliografico importante al termine di ogni capitolo): ottima la veste tipografica, avrebbe forse meritato fotografie a colori dei molti reperti raffigurati. Di Stefano ci restituisce una città viva, ben definita nell’impianto punico, fiorente nell’epoca romana soprattutto imperiale, che neppure le invasioni barbariche riuscirono a cancellare. Lo faranno gli Omayyadi, nel 698, decretandone l’abbandono e lo spopolamento. L’auspicio dell’Autore, tra le righe, è che le collaborazioni tra gli Stati in materia di ricerca archeologica e storica consentano la prosecuzione degli scavi e dello studio di quest’area, di importanza strategica per tutta la storia del Mediterraneo antico.



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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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