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“Vite maledette” la bellezza delle anime perdute
PuntoZip di martedģ 5 gennaio 2021
Vito Molinari, regista televisivo e teatrale di grande fama, con il suo libro Vite Maledette, edito da Gammarņ, rende omaggio a cinque grandi nomi dell’arte italiana. I protagonisti appartengono a cinque epoche diverse e sono autori di autentici capolavori di musica e pittura. Nel libro questi artisti si raccontano post mortem come fantasmi che dall’esterno guardano ai drammi della propria vita e agli impulsi che li hanno indotti a creare le loro opere, quasi a voler riscrivere la propria vita oltre la vita. La loro fama di artisti maledetti, del resto, accompagna con un’aura drammatica e passionale le opere che essi ci hanno lasciato e che ancora oggi evocano in noi meraviglia e il ricordo della loro drammatica esistenza; fantasmi, appunto, che manifestano la loro eternitą.

di Laura Lippolis
Vito Molinari, regista televisivo e teatrale di grande fama, con il suo libro Vite Maledette, edito da Gammarò, rende omaggio a cinque grandi nomi dell’arte italiana.
I protagonisti appartengono a cinque epoche diverse e sono autori di autentici capolavori di musica e pittura.

Nel libro questi artisti si raccontano post mortem come fantasmi che dall’esterno guardano ai drammi della propria vita e agli impulsi che li hanno indotti a creare le loro opere, quasi a voler riscrivere la propria vita oltre la vita.
La loro fama di artisti maledetti, del resto, accompagna con un’aura drammatica e passionale le opere che essi ci hanno lasciato e che ancora oggi evocano in noi meraviglia e il ricordo della loro drammatica esistenza; fantasmi, appunto, che manifestano la loro eternità.

Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, spirito indomito e ribelle, litigioso, disordinato, promiscuo, mai inquadrabile, errante e fuggiasco, provocatore. I soggetti di molti dei suoi quadri religiosi erano prostitute o mendicanti. Era infatti il magnificatore degli ultimi, di cui anche egli riteneva di far parte e sublimava i contrasti nell’animo umano, attraverso un uso sapiente di giochi di luci e ombre.

Due musicisti del Cinquecento-Seicento: Stradella e Gesualdo da Venosa, colpevoli rispettivamente di uxoricidio e femminicidio. Assolutamente disarmonici nella condotta di vita, tendevano in contrasto ad un’armonia nella musica, volta proprio ad espiare le loro brutture, alla ricerca di un perdono divino e personale mai concesso nemmeno da se stessi a loro stessi.
Amedeo Modigliani, provato nel corpo e nello spirito da una grave malattia, seduttore e sedotto dagli esseri umani nel vano tentativo di catturare e fare propria la loro anima. Un’anima a lui, drogato consapevole (la droga come mezzo e non come un fine) e inquieto, mai accessibile. Gli occhi nei suoi ritratti infatti, sono ridotti a vuote fessure, tratti resi con linee decise, quasi a voler manifestare proprio questa incapacità.

Antonio Ligabue che viveva come un eremita selvaggio, un disadattato psichico, recluso numerose volte in manicomio, alla disperata ricerca di un semplice “bacio”, di un affetto primitivo e ancestrale che scaldasse la sua vita. Il rosso delle Moto Guzzi acquistate con i proventi dei sempre più numerosi guadagni dai dipinti venduti, compensava a questa mancanza di calore. I suoi quadri erano immaginifici testimoni della sua vita primitiva e dei demoni che abitavano la sua mente: tigri e animali selvatici raffigurati in un coloratissimo paesaggio Pavese. Il disordine e il caos, la fabbricazione dei materiali organici con cui creare i colori, compresi i propri effluvi biologici, rendono le sue opere carnali e paradossalmente precise nelle linee e nei dettagli, quasi a voler creare una parvenza d’ordine nel caos esistenziale.

Tutti questi dettagli sono descritti con grande maestria e scrittura lineare all’interno del libro, così come la nascita delle opere che consegue cronologicamente a eventi e percorsi personali. Il racconto in prima persona del fantasma, senza la pretesa di indugiare troppo sul piano emotivo, induce il lettore a interrogarsi, riflettere e desiderare di guardare e ascoltare le opere menzionate. Come se il pittore o il musicista ci lasciasse lo spazio di interpretare e ampliare le nostre impressioni e considerazioni su quanto creato, spesso, più per istinto, che in modo ragionato.

Ogni impressione è lasciata al sentire di ognuno di noi e soprattutto alla nostra curiosità.
Il racconto delle vite incompiute e maledette di questi miti, del loro modo di guardare a se stessi e la storia delle loro opere, quasi mai apprezzate dai contemporanei, ci porta a provare empatia per queste anime perdute. Ci spinge a desiderare di scorgere le tracce della loro fragilità all’interno dei loro tratti di pennello e tra una nota e l’altra.

L’arte in chi la fa è puro istinto, la bellezza in chi la guarda.
Il vero senso dell’arte probabilmente è proprio questo: riuscire a cogliere la bellezza della fragilità e prenderne parte.

La commozione e l’emozione che ne conseguono sono il segno che la scintilla ha innescato nello spettatore lo stesso fuoco sacro, dirompente nel cuore dell’artista, e lo ha sublimato.
Questo libro vuole essere, e ci riesce, un piccolo fiammifero.

Nell’ultima pagina il libro si potrebbe chiudere come un titolo di coda, “Regia di Vito Molinari”. Lo stesso titolo di coda del 3 gennaio 1954: fu proprio lui a dirigere la trasmissione inaugurale della TV italiana. Aveva appena 22 anni, oggi ha brillantemente superato i 90.


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PuntoZip - martedģ 5 gennaio 2021
Vito Molinari, regista televisivo e teatrale di grande fama, con il suo libro Vite Maledette, edito da Gammarņ, rende omaggio a cinque grandi nomi dell’arte italiana. I protagonisti appartengono a cinque epoche diverse e sono autori di autentici capolavori di musica e pittura. Nel libro questi artisti si raccontano post mortem come fantasmi che dall’esterno guardano ai drammi della propria vita e agli impulsi che li hanno indotti a creare le loro opere, quasi a voler riscrivere la propria vita oltre la vita. La loro fama di artisti maledetti, del resto, accompagna con un’aura drammatica e passionale le opere che essi ci hanno lasciato e che ancora oggi evocano in noi meraviglia e il ricordo della loro drammatica esistenza; fantasmi, appunto, che manifestano la loro eternitą.

di Laura Lippolis
Vito Molinari, regista televisivo e teatrale di grande fama, con il suo libro Vite Maledette, edito da Gammarò, rende omaggio a cinque grandi nomi dell’arte italiana.
I protagonisti appartengono a cinque epoche diverse e sono autori di autentici capolavori di musica e pittura.

Nel libro questi artisti si raccontano post mortem come fantasmi che dall’esterno guardano ai drammi della propria vita e agli impulsi che li hanno indotti a creare le loro opere, quasi a voler riscrivere la propria vita oltre la vita.
La loro fama di artisti maledetti, del resto, accompagna con un’aura drammatica e passionale le opere che essi ci hanno lasciato e che ancora oggi evocano in noi meraviglia e il ricordo della loro drammatica esistenza; fantasmi, appunto, che manifestano la loro eternità.

Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, spirito indomito e ribelle, litigioso, disordinato, promiscuo, mai inquadrabile, errante e fuggiasco, provocatore. I soggetti di molti dei suoi quadri religiosi erano prostitute o mendicanti. Era infatti il magnificatore degli ultimi, di cui anche egli riteneva di far parte e sublimava i contrasti nell’animo umano, attraverso un uso sapiente di giochi di luci e ombre.

Due musicisti del Cinquecento-Seicento: Stradella e Gesualdo da Venosa, colpevoli rispettivamente di uxoricidio e femminicidio. Assolutamente disarmonici nella condotta di vita, tendevano in contrasto ad un’armonia nella musica, volta proprio ad espiare le loro brutture, alla ricerca di un perdono divino e personale mai concesso nemmeno da se stessi a loro stessi.
Amedeo Modigliani, provato nel corpo e nello spirito da una grave malattia, seduttore e sedotto dagli esseri umani nel vano tentativo di catturare e fare propria la loro anima. Un’anima a lui, drogato consapevole (la droga come mezzo e non come un fine) e inquieto, mai accessibile. Gli occhi nei suoi ritratti infatti, sono ridotti a vuote fessure, tratti resi con linee decise, quasi a voler manifestare proprio questa incapacità.

Antonio Ligabue che viveva come un eremita selvaggio, un disadattato psichico, recluso numerose volte in manicomio, alla disperata ricerca di un semplice “bacio”, di un affetto primitivo e ancestrale che scaldasse la sua vita. Il rosso delle Moto Guzzi acquistate con i proventi dei sempre più numerosi guadagni dai dipinti venduti, compensava a questa mancanza di calore. I suoi quadri erano immaginifici testimoni della sua vita primitiva e dei demoni che abitavano la sua mente: tigri e animali selvatici raffigurati in un coloratissimo paesaggio Pavese. Il disordine e il caos, la fabbricazione dei materiali organici con cui creare i colori, compresi i propri effluvi biologici, rendono le sue opere carnali e paradossalmente precise nelle linee e nei dettagli, quasi a voler creare una parvenza d’ordine nel caos esistenziale.

Tutti questi dettagli sono descritti con grande maestria e scrittura lineare all’interno del libro, così come la nascita delle opere che consegue cronologicamente a eventi e percorsi personali. Il racconto in prima persona del fantasma, senza la pretesa di indugiare troppo sul piano emotivo, induce il lettore a interrogarsi, riflettere e desiderare di guardare e ascoltare le opere menzionate. Come se il pittore o il musicista ci lasciasse lo spazio di interpretare e ampliare le nostre impressioni e considerazioni su quanto creato, spesso, più per istinto, che in modo ragionato.

Ogni impressione è lasciata al sentire di ognuno di noi e soprattutto alla nostra curiosità.
Il racconto delle vite incompiute e maledette di questi miti, del loro modo di guardare a se stessi e la storia delle loro opere, quasi mai apprezzate dai contemporanei, ci porta a provare empatia per queste anime perdute. Ci spinge a desiderare di scorgere le tracce della loro fragilità all’interno dei loro tratti di pennello e tra una nota e l’altra.

L’arte in chi la fa è puro istinto, la bellezza in chi la guarda.
Il vero senso dell’arte probabilmente è proprio questo: riuscire a cogliere la bellezza della fragilità e prenderne parte.

La commozione e l’emozione che ne conseguono sono il segno che la scintilla ha innescato nello spettatore lo stesso fuoco sacro, dirompente nel cuore dell’artista, e lo ha sublimato.
Questo libro vuole essere, e ci riesce, un piccolo fiammifero.

Nell’ultima pagina il libro si potrebbe chiudere come un titolo di coda, “Regia di Vito Molinari”. Lo stesso titolo di coda del 3 gennaio 1954: fu proprio lui a dirigere la trasmissione inaugurale della TV italiana. Aveva appena 22 anni, oggi ha brillantemente superato i 90.


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OGT newspaper
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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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