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Aljoša Curavić – Scadenzario minimo di un viaggio senza fine
Imperfetta Ellisse di venerdě 8 gennaio 2021
Aljoša Curavić č giŕ stato presente su questo blog circa dieci anni fa almeno in un paio di occasioni, una delle quali riguarda un suo interessante articolo intitolato “Trasparenze di confine”...

Aljoša Curavić è già stato presente su questo blog circa dieci anni fa almeno in un paio di occasioni, una delle quali riguarda un suo interessante articolo intitolato “Trasparenze di confine” (v. QUI), relativo alla “parentela” che gli sloveni di lingua italiana come lui, attraverso anche la mediazione della cultura triestina, hanno sempre nutrito con la nostra/loro cultura, soprattutto quella di ambito fiorentino (anche il nostro autore ha studiato Lettere a Firenze). L’altra sua presenza sul blog si riferisce alla silloge Silenziario, con cui ha vinto il Premio Istria Nobilissima, confluita ora – insieme ad altre poesie che coprono un arco di tempo che va dal 1980 al 2019 – nella presente raccolta. Ed è per questo che partirei riproponendo quello che brevemente scrissi nel 2010, che è ancora parte di un approccio possibile alla poesia di Aljoša. Scrissi allora: “Curavić è un poeta che ha letto parecchio, si direbbe. Non solo dagli exerga di autori noti spesso presenti, ma anche da richiami abbastanza decifrabili nella sua scrittura. C’è un Saba (ovviamente), sincopato e infitto in una sensibilità tutta ultramoderna attraverso l’uso di parole di allora (sciabordii, flutti, rabescate) inchiodate in una visione di oggi, c’è qualche limpido endecasillabo di stampo leopardiano, c’è anche il Pavese poeta narratore, da qualche parte. Comunque sia la poesia di Curavić riesce poi a liberarsi di certi debiti (ma chi non ne ha?) acquistando una sua originalità, sopratutto in quei testi connessi a una identità, anche storica e ambientale, più specifica, a cui il poeta è legato, non ostante “la nostra micragnosa storia”. Assai significative, da questo punto di vista, poesie come “Frammenti di un viaggio” e “Un pò di pace” (v. QUI), ispirate da un sentimento partecipe di appartenenza. Ma Curavić non è poeta confinario, almeno non nel senso che intendeva Magris, dire questo sarebbe riduttivo. L’identità di cui si diceva non è tutto, in lui si ritrovano – in testi più essenziali, quasi spogli, a volte lapidari – anche i denominatori comuni della poesia, italiana e non, attuale, la riflessione dell’io sulla realtà, certa inanità dell’essere di fronte all’esistenza e alla sua descrizione (“come descrivere questa sorta / di molle refrattarietà del male / di ostile benevolenza del bene?”, dice in un testo qui riprodotto). La risposta, anche per lui, credo che sia: provarci sempre, provarci con la poesia”. E’ ovvio che si debba aggiungere qualcosa a queste parole, innanzitutto perchè il libro di cui stiamo parlando è una esplicita distillazione di un lungo periodo, una distillazione immagino anche severa se, come appare, questa raccolta non è un canzoniere, non vuole essere una autoantologia, né forse aspira ad essere essenziale. Potremmo dire che quella di Aljoša Curavić è una poesia di momenti topici, di punti di caduta sentimentali, di legami inscindibili disposti sui due assi del tempo (questi lunghi anni) e dello spazio (diversi luoghi del mondo, Firenze, Lisbona, la Grecia, l’America) senza che questi due assi determinino per così dire una necessaria sequenzialità “storica” ma siano semmai legati da un “genuino desiderio di ricomporre brani del passato” (…) “consapevole che la memoria non recupera l’accaduto se non per brevi spazi sospesi”. (Musetti). Aljoša in questi spazi sospesi tenta di ricostruire a memoria una sorta di viaggio astrale (la raccolta è datata singolarmente “Stardate 198011.03 – 201912.04”), fatto non tanto di frammenti di tempo ma di luoghi in cui il poeta si è manifestato come frammento riconoscibile di sè, di una identità in cui si ritrova, luoghi in cui un’aura poetica permane. Con un interessante uso della lingua e una abile scrittura in cui si intravedono paradigmi di tutto il maggiore Novecento italiano e oltre, compresi – come nota Musetti – certi stilemi della poesia di ricerca, Curavić quindi annota in questo libro ricorrenze di vita, incontri, viaggi, amori, città, perdite (intensa la poesia dedicata alla madre, v. oltre) o semplici percezioni, in una sorta appunto di scadenzario ex post, fatto per non dimenticare certi appuntamenti con la vita, di quelli che solo in un secondo tempo individui come memorabili. Se è vero che il viaggio non può essere infinito, da questo punto di vista può esserlo la casualità che determina non tanto il ricordo in sé quanto la sua persistenza, la sua coscienza, quanto cioè concorra, come direbbe Paul Ricoeur, all’ipseità, al racconto di sé, al “piccolo miracolo del riconoscimento”. Dal libro emerge una apparente diaspora di momenti, come un che di rapsodico, come una sorta – annota ancora Musetti – di “scritture ancora in elaborazione, una sorta di work in progress” però, aggiungerei, proiettato in qualche modo verso il futuro di altre “scadenze”. Ma tutti questi testi sono legati da un filo esistenziale, da un modo di vedere le cose tra lo smaliziato e il doloroso, tra l’innocente meraviglia e la consapevolezza del “raro”, di una speciale rarità di momenti di cui a volte sulle prime stentiamo a riconoscere il valore. Su questi presupposti Curavić costruisce la sua personale galleria, forse più per sé che per il lettore, a cui resta la curiosità di conoscere cos’altro sia poeticamente accaduto in questi quarant’anni, cos’altro, forse per timidezza o pudore o eccessiva autocritica, Aljoša abbia lasciato nel cassetto. (g. cerrai) Madre, scongiura disgiungi impreca Lo stacco sereno lo smacco, Spigola sterra l’aria crudele , Disossa impasta trama La tua assenza insetto infelice. Fatto di nulla e di grasso Il tuo sconcio amore sa le scorciatoie Che conducono a me. Ricordi ancora di nuovo, In te neanche l’inanità s’arresta. O cellulosa silfide Che pedali leggera con me nella vita, Non resta che un amniotico zinale, Mucido e muto, a segnarmi la via Che t’ha sfinita.. *** Forse calerà la notte un’ altra volta E il giorno scoppierà fra le tue mani Come una cosa Come una rosa Né tanto rara né tanto comune Né tanto mia né tanto tua. Forse una tana. O una tara. Avrà le tue mani la mia notte Scintillerà come bilioni di soli La mia calata. Saremo –fratello mio– In tanti vedrai non aver paura A frotte. Forse un’altra volta ancora di nuovo Le mie mani un’altra insolita volta Si fermano e non aspirano più Le polveri del mondo. *** Oggi la giornata scorre senz’angoscia, Trasumanata come uno pneumatico Urta qualcosa d’anteriore A quest’ andatura floscia. Forse sei spericolata lasciatura Di qualche divino tipografo E non cronica contingenza di pedone Vetturale. O sei come Chi in una improbabile 126 posa Una improbabile velocità culona E d’ogni passante coglie ciò che passa. Va vite,legere peigneur de cometes! Sì, vai veloce, leggero pettinatore di comete! *** Istria. La nostra micragnosa storia Convulsa come guati appesi all’ amo E’ nata su banchi di arenarie marnose. Ti odio e ti amo o carogna rossa Di terra e carnosa per quel che in te Non è storia ma ossa. *** Non è una questione di mente Non è nemmeno una questione. Come descrivere questa sorta Di molle refrattarietà del male Di ostile benevolenza del bene? Amore mio che sopporti Tutti quelli che t’hanno Amata con leggerezza Oppure no, lascia Che m’adagi accanto a tutti Quelli che t’hanno amata Oppure no. Bellezze plastificate liofilizzate Omogeneizzate Copule computerizzate Compite infrazioni, aimè, Non ci sono rimaste neanche Le scorciatoie che conducono A Te. *** VERRAI ALLA TUA MORTE Il dubbio s’insinua Dove rimani sospeso Appannato Come il parabrezza Dopo uno scroscio d’acqua Improvviso Equatoriale Indeciso Non più certo del certo Senza forma né peso Come mai nato Dannato a non esserci dopo Che sei stato Il dubbio Certo s’insinua Nella certezza d’esser passato. Verrai Come non visto Sterzando Giù Per la discesa *** SOLO Alla fine Ti ritrovi solo Appoggiato allo stipite Duro Di una porta che hai varcato E rivarcato all’ infinito Nudo Spogliato di tutto Del sangue che t’ha generato Delle lingue che hai parlato Delle case che hai abitato Degli amori che hai rubato O che t’hanno depredato Solo Dell’ indifferenza indifferente Duro al duro Un po’ dentro Un po’ fuori Né dentro né fuori Come i morti che nessuno ricorda Alla fine


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Aljoša Curavić č giŕ stato presente su questo blog circa dieci anni fa almeno in un paio di occasioni, una delle quali riguarda un suo interessante articolo intitolato “Trasparenze di confine”...

Aljoša Curavić è già stato presente su questo blog circa dieci anni fa almeno in un paio di occasioni, una delle quali riguarda un suo interessante articolo intitolato “Trasparenze di confine” (v. QUI), relativo alla “parentela” che gli sloveni di lingua italiana come lui, attraverso anche la mediazione della cultura triestina, hanno sempre nutrito con la nostra/loro cultura, soprattutto quella di ambito fiorentino (anche il nostro autore ha studiato Lettere a Firenze). L’altra sua presenza sul blog si riferisce alla silloge Silenziario, con cui ha vinto il Premio Istria Nobilissima, confluita ora – insieme ad altre poesie che coprono un arco di tempo che va dal 1980 al 2019 – nella presente raccolta. Ed è per questo che partirei riproponendo quello che brevemente scrissi nel 2010, che è ancora parte di un approccio possibile alla poesia di Aljoša. Scrissi allora: “Curavić è un poeta che ha letto parecchio, si direbbe. Non solo dagli exerga di autori noti spesso presenti, ma anche da richiami abbastanza decifrabili nella sua scrittura. C’è un Saba (ovviamente), sincopato e infitto in una sensibilità tutta ultramoderna attraverso l’uso di parole di allora (sciabordii, flutti, rabescate) inchiodate in una visione di oggi, c’è qualche limpido endecasillabo di stampo leopardiano, c’è anche il Pavese poeta narratore, da qualche parte. Comunque sia la poesia di Curavić riesce poi a liberarsi di certi debiti (ma chi non ne ha?) acquistando una sua originalità, sopratutto in quei testi connessi a una identità, anche storica e ambientale, più specifica, a cui il poeta è legato, non ostante “la nostra micragnosa storia”. Assai significative, da questo punto di vista, poesie come “Frammenti di un viaggio” e “Un pò di pace” (v. QUI), ispirate da un sentimento partecipe di appartenenza. Ma Curavić non è poeta confinario, almeno non nel senso che intendeva Magris, dire questo sarebbe riduttivo. L’identità di cui si diceva non è tutto, in lui si ritrovano – in testi più essenziali, quasi spogli, a volte lapidari – anche i denominatori comuni della poesia, italiana e non, attuale, la riflessione dell’io sulla realtà, certa inanità dell’essere di fronte all’esistenza e alla sua descrizione (“come descrivere questa sorta / di molle refrattarietà del male / di ostile benevolenza del bene?”, dice in un testo qui riprodotto). La risposta, anche per lui, credo che sia: provarci sempre, provarci con la poesia”. E’ ovvio che si debba aggiungere qualcosa a queste parole, innanzitutto perchè il libro di cui stiamo parlando è una esplicita distillazione di un lungo periodo, una distillazione immagino anche severa se, come appare, questa raccolta non è un canzoniere, non vuole essere una autoantologia, né forse aspira ad essere essenziale. Potremmo dire che quella di Aljoša Curavić è una poesia di momenti topici, di punti di caduta sentimentali, di legami inscindibili disposti sui due assi del tempo (questi lunghi anni) e dello spazio (diversi luoghi del mondo, Firenze, Lisbona, la Grecia, l’America) senza che questi due assi determinino per così dire una necessaria sequenzialità “storica” ma siano semmai legati da un “genuino desiderio di ricomporre brani del passato” (…) “consapevole che la memoria non recupera l’accaduto se non per brevi spazi sospesi”. (Musetti). Aljoša in questi spazi sospesi tenta di ricostruire a memoria una sorta di viaggio astrale (la raccolta è datata singolarmente “Stardate 198011.03 – 201912.04”), fatto non tanto di frammenti di tempo ma di luoghi in cui il poeta si è manifestato come frammento riconoscibile di sè, di una identità in cui si ritrova, luoghi in cui un’aura poetica permane. Con un interessante uso della lingua e una abile scrittura in cui si intravedono paradigmi di tutto il maggiore Novecento italiano e oltre, compresi – come nota Musetti – certi stilemi della poesia di ricerca, Curavić quindi annota in questo libro ricorrenze di vita, incontri, viaggi, amori, città, perdite (intensa la poesia dedicata alla madre, v. oltre) o semplici percezioni, in una sorta appunto di scadenzario ex post, fatto per non dimenticare certi appuntamenti con la vita, di quelli che solo in un secondo tempo individui come memorabili. Se è vero che il viaggio non può essere infinito, da questo punto di vista può esserlo la casualità che determina non tanto il ricordo in sé quanto la sua persistenza, la sua coscienza, quanto cioè concorra, come direbbe Paul Ricoeur, all’ipseità, al racconto di sé, al “piccolo miracolo del riconoscimento”. Dal libro emerge una apparente diaspora di momenti, come un che di rapsodico, come una sorta – annota ancora Musetti – di “scritture ancora in elaborazione, una sorta di work in progress” però, aggiungerei, proiettato in qualche modo verso il futuro di altre “scadenze”. Ma tutti questi testi sono legati da un filo esistenziale, da un modo di vedere le cose tra lo smaliziato e il doloroso, tra l’innocente meraviglia e la consapevolezza del “raro”, di una speciale rarità di momenti di cui a volte sulle prime stentiamo a riconoscere il valore. Su questi presupposti Curavić costruisce la sua personale galleria, forse più per sé che per il lettore, a cui resta la curiosità di conoscere cos’altro sia poeticamente accaduto in questi quarant’anni, cos’altro, forse per timidezza o pudore o eccessiva autocritica, Aljoša abbia lasciato nel cassetto. (g. cerrai) Madre, scongiura disgiungi impreca Lo stacco sereno lo smacco, Spigola sterra l’aria crudele , Disossa impasta trama La tua assenza insetto infelice. Fatto di nulla e di grasso Il tuo sconcio amore sa le scorciatoie Che conducono a me. Ricordi ancora di nuovo, In te neanche l’inanità s’arresta. O cellulosa silfide Che pedali leggera con me nella vita, Non resta che un amniotico zinale, Mucido e muto, a segnarmi la via Che t’ha sfinita.. *** Forse calerà la notte un’ altra volta E il giorno scoppierà fra le tue mani Come una cosa Come una rosa Né tanto rara né tanto comune Né tanto mia né tanto tua. Forse una tana. O una tara. Avrà le tue mani la mia notte Scintillerà come bilioni di soli La mia calata. Saremo –fratello mio– In tanti vedrai non aver paura A frotte. Forse un’altra volta ancora di nuovo Le mie mani un’altra insolita volta Si fermano e non aspirano più Le polveri del mondo. *** Oggi la giornata scorre senz’angoscia, Trasumanata come uno pneumatico Urta qualcosa d’anteriore A quest’ andatura floscia. Forse sei spericolata lasciatura Di qualche divino tipografo E non cronica contingenza di pedone Vetturale. O sei come Chi in una improbabile 126 posa Una improbabile velocità culona E d’ogni passante coglie ciò che passa. Va vite,legere peigneur de cometes! Sì, vai veloce, leggero pettinatore di comete! *** Istria. La nostra micragnosa storia Convulsa come guati appesi all’ amo E’ nata su banchi di arenarie marnose. Ti odio e ti amo o carogna rossa Di terra e carnosa per quel che in te Non è storia ma ossa. *** Non è una questione di mente Non è nemmeno una questione. Come descrivere questa sorta Di molle refrattarietà del male Di ostile benevolenza del bene? Amore mio che sopporti Tutti quelli che t’hanno Amata con leggerezza Oppure no, lascia Che m’adagi accanto a tutti Quelli che t’hanno amata Oppure no. Bellezze plastificate liofilizzate Omogeneizzate Copule computerizzate Compite infrazioni, aimè, Non ci sono rimaste neanche Le scorciatoie che conducono A Te. *** VERRAI ALLA TUA MORTE Il dubbio s’insinua Dove rimani sospeso Appannato Come il parabrezza Dopo uno scroscio d’acqua Improvviso Equatoriale Indeciso Non più certo del certo Senza forma né peso Come mai nato Dannato a non esserci dopo Che sei stato Il dubbio Certo s’insinua Nella certezza d’esser passato. Verrai Come non visto Sterzando Giù Per la discesa *** SOLO Alla fine Ti ritrovi solo Appoggiato allo stipite Duro Di una porta che hai varcato E rivarcato all’ infinito Nudo Spogliato di tutto Del sangue che t’ha generato Delle lingue che hai parlato Delle case che hai abitato Degli amori che hai rubato O che t’hanno depredato Solo Dell’ indifferenza indifferente Duro al duro Un po’ dentro Un po’ fuori Né dentro né fuori Come i morti che nessuno ricorda Alla fine


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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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