Zona di disagio di venerdì 8 gennaio 2021
«Una musica che manda in frantumi il rumore» è un miracolo che può accadere solo nel silenzio, «il silenzio del jazz», come scrive Nicola Vacca nella sua ultima raccolta di poesie in ascolto, appunto, di quelle parole: le parole dal jazz
di Paolo Fiore
«Una musica che manda in frantumi il rumore» è un miracolo che può accadere solo nel silenzio, «il silenzio del jazz», come scrive Nicola Vacca nella sua ultima raccolta di poesie in ascolto, appunto, di quelle parole: le parole dal jazz.
Una musica che non si gioca sulla partitura muscolare dei decibel ma solo nel volume di un ensemble.
Volume molto singolare: non acustico ma spaziale che ( esso soltanto ) può accogliere le parole dal jazz.
E ognuna di esse è necessariamente un libero as-solo nel silenzio delle altre per essere “sentita” autenticamente da loro.
Solo alla fine si potrà “parlare” finalmente insieme, come band, nella suprema libertà di una jam session.
Ancor prima che negli strumenti dei musicisti, il Jazz si muove nei piedi ritmici sul pavimento di chi ascolta, nelle dita tamburellanti sul bicchiere, negli occhi socchiusi della penombra, nei corpi caldi dell’ attesa.
Per questo ciascuno potrà dire: «Amo il jazz / perché quando sogno / mi lascia sempre con i piedi per terra».
Solo dopo c’è la batteria di Art Blakey, il piano del “ Duke”, la tromba di Lee Morgan e Miles Davis, il sax di John Coltrane e Charlie Parker, il contrabasso di Charles, le voci di Billie Holiday ed Ella Fitzgerald.
Sono proprio assoli in un ensemble questi schizzi jazzistici di Nicola Vacca (Arrivano parole dal jazz, Oltre edizioni ) che si fanno figura nelle veloci linee dei disegni chiaroscurali di Alfonso Avagliano e una dettagliata playlist a cura di Tommaso Tucci.
Se, in generale, la fruizione della musica è, fondamentalmente, ascolto, in questo caso è ancora oltre: coinvolgimento corporeo, intima partecipazione.
Perché è sempre contro-canto il jazz, sincope dopo lo scatto, silenzio dopo la voce, a inzupparsi dello «spleen» che «cade dal cielo» come scrive Nicola Vacca in Jazz a Parigi.
Il sound del jazz, infatti, non si dispiega nei molli declivî di una pastorale ma in uno scroscio improvviso, non copre la metrica solenne di un’epica ma il tempo contratto di un enjambement: le parole del jazz vanno sempre a capo, un rigo soltanto non le contiene!
Per «Centrare il cuore», ci ricorda Nicola Vacca, non puoi inseguire la supponenza di un punto fisso come la perfezione eterea di un Canone di Pachelbell che disegna la circolarità inerziale di massimi sistemi ma il tempo stracciato di un ragtime che si contrae e si dilata in una sistole e una diastole sanguinando d’amore o il legno storto dell ‘umano nelle sembianze di Dizzy Gillespie che «Con le guance gonfie / suonava trombe storte» del bebop.
Ma la velocità ha un valore solo se si tratta di intercettare il senso della poesia perché nella tromba di Paolo Fresu «La lentezza è prodigio / ferma il tempo, azzera i contatori dell’istante» così che «Quasi all’improvviso la poesia / arriva dagli spazi provvisori di un deserto» ed «Emozioni e sogno su una tela di malinconia / colmano un dialogo che nasce dal caos».
Se questa musica parlasse in greco avrebbe un coro che all’attore risponderebbe con il tempo della strofa e dell’antistrofa ma la lingua del jazz ha frantumato il metro e per questo è forse ancor più autentica tragedia umana!
Il tempo del jazz, infatti, disturba o interrompe il flusso regolare del tempo.
Ma poiché questa è anche la definizione musicale di sincope, l’effetto sull’uomo non può che essere sincopale, una morte improvvisa sia pure passeggera, una sospensione temporanea, una prova generale e musicale del definitivo trapasso poiché il «paradiso» ha un suono di tromba e può essere a «pochi passi» dietro la porta di quel locale «che suona le note di “In a silent way”» di Miles Davis.
Ma lo spirito ( del jazz ) soffia venti impetuosi e contrari come «A Love supreme, Meditations, Blue train / il jazz di John è una porta che si apre sul divino / un mondo meraviglioso che contiene / lo stupore nei minimi dettagli / ma è anche l’inferno dove incontra i suoi demoni».
Un nome che li ricapitola tutti: «Semplicemente Coltrane»!
Una musica che non si gioca sulla partitura muscolare dei decibel ma solo nel volume di un ensemble.
Volume molto singolare: non acustico ma spaziale che ( esso soltanto ) può accogliere le parole dal jazz.
E ognuna di esse è necessariamente un libero as-solo nel silenzio delle altre per essere “sentita” autenticamente da loro.
Solo alla fine si potrà “parlare” finalmente insieme, come band, nella suprema libertà di una jam session.
Ancor prima che negli strumenti dei musicisti, il Jazz si muove nei piedi ritmici sul pavimento di chi ascolta, nelle dita tamburellanti sul bicchiere, negli occhi socchiusi della penombra, nei corpi caldi dell’ attesa.
Per questo ciascuno potrà dire: «Amo il jazz / perché quando sogno / mi lascia sempre con i piedi per terra».
Solo dopo c’è la batteria di Art Blakey, il piano del “ Duke”, la tromba di Lee Morgan e Miles Davis, il sax di John Coltrane e Charlie Parker, il contrabasso di Charles, le voci di Billie Holiday ed Ella Fitzgerald.
Sono proprio assoli in un ensemble questi schizzi jazzistici di Nicola Vacca (Arrivano parole dal jazz, Oltre edizioni ) che si fanno figura nelle veloci linee dei disegni chiaroscurali di Alfonso Avagliano e una dettagliata playlist a cura di Tommaso Tucci.
Se, in generale, la fruizione della musica è, fondamentalmente, ascolto, in questo caso è ancora oltre: coinvolgimento corporeo, intima partecipazione.
Perché è sempre contro-canto il jazz, sincope dopo lo scatto, silenzio dopo la voce, a inzupparsi dello «spleen» che «cade dal cielo» come scrive Nicola Vacca in Jazz a Parigi.
Il sound del jazz, infatti, non si dispiega nei molli declivî di una pastorale ma in uno scroscio improvviso, non copre la metrica solenne di un’epica ma il tempo contratto di un enjambement: le parole del jazz vanno sempre a capo, un rigo soltanto non le contiene!
Per «Centrare il cuore», ci ricorda Nicola Vacca, non puoi inseguire la supponenza di un punto fisso come la perfezione eterea di un Canone di Pachelbell che disegna la circolarità inerziale di massimi sistemi ma il tempo stracciato di un ragtime che si contrae e si dilata in una sistole e una diastole sanguinando d’amore o il legno storto dell ‘umano nelle sembianze di Dizzy Gillespie che «Con le guance gonfie / suonava trombe storte» del bebop.
Ma la velocità ha un valore solo se si tratta di intercettare il senso della poesia perché nella tromba di Paolo Fresu «La lentezza è prodigio / ferma il tempo, azzera i contatori dell’istante» così che «Quasi all’improvviso la poesia / arriva dagli spazi provvisori di un deserto» ed «Emozioni e sogno su una tela di malinconia / colmano un dialogo che nasce dal caos».
Se questa musica parlasse in greco avrebbe un coro che all’attore risponderebbe con il tempo della strofa e dell’antistrofa ma la lingua del jazz ha frantumato il metro e per questo è forse ancor più autentica tragedia umana!
Il tempo del jazz, infatti, disturba o interrompe il flusso regolare del tempo.
Ma poiché questa è anche la definizione musicale di sincope, l’effetto sull’uomo non può che essere sincopale, una morte improvvisa sia pure passeggera, una sospensione temporanea, una prova generale e musicale del definitivo trapasso poiché il «paradiso» ha un suono di tromba e può essere a «pochi passi» dietro la porta di quel locale «che suona le note di “In a silent way”» di Miles Davis.
Ma lo spirito ( del jazz ) soffia venti impetuosi e contrari come «A Love supreme, Meditations, Blue train / il jazz di John è una porta che si apre sul divino / un mondo meraviglioso che contiene / lo stupore nei minimi dettagli / ma è anche l’inferno dove incontra i suoi demoni».
Un nome che li ricapitola tutti: «Semplicemente Coltrane»!
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