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Una donna italiana con la pistola: “Tutto ciņ che vidi. Parla Maria Pasquinelli…”
La Voce di New York di domenica 14 febbraio 2021
1943-1945 fosse comuni, foibe, mare. All’interno l’elenco dettagliato degli italiani istriani trucidati dai titini in Istria nel settembre-ottobre 1943

di Elisabetta De Dominis
Il libro (Oltre edizioni) è stato scritto da due giornaliste di origine istriana Rosanna Turcinovich e Rossana Poletti che recuperano i documenti conservati dalla donna che uccise nel 1947 un generale inglese rappresentante del governo alleato a Pola. Nel 2007 Maria Pasquinelli concede l’unica intervista della sua vita a Rosanna Turcinovich, che l’ascolta rapita per ore per capire fino a dove può condurre l’amore patrio e il senso di giustizia disatteso

“Tutto ciò che vidi e non voglio più vedere. Non voglio più vivere. Oggi sparo e uccido chi consegnerà le chiavi di Pola ai comunisti”

E’ il 10 febbraio del 1947, giorno della firma del trattato di pace, e Maria Pasquinelli, maestra bergamasca poco più che trentenne, abbatte con tre colpi di pistola il generale inglese Robert De Winton, rappresentante del Governo Alleato. L’antica città romana di Pola si era mantenuta italiana al 98 per cento, tanto che era stata considerata zona A, come Trieste, e amministrata dagli inglesi. Avrebbe dovuto tornare all’Italia. Ma al dittatore comunista Tito faceva troppa gola e con lei tutta l’Istria in gran parte italiana. Era una terra ricca, produttiva. Bisognava eliminare la popolazione e sistemarci dei bravi jugoslavi. Così fece: chiamò gente povera dall’interno della Croazia e Slovenia, Bosnia, Erzegovina, Kosovo invitandoli a liberare quella terra razziando e uccidendo: “Buttate tutti nelle foibe. Prendetevi le loro vite, le loro case, le loro cose. Ora la nostra razza comanderà. Gli italiani devono crepare: ci hanno rubato le nostre terre”. Chi non morì, partì. A Pola rimase solo un centinaio di italiani.
Maria non venne uccisa sul colpo, ma arrestata. A Trieste fu processata e condannata a morte, poi la sua pena fu commutata nell’ergastolo. Non chiese mai la grazia, ma l’ottenne dopo 18 anni di detenzione grazie all’intercessione della sorella al capo dello Stato. E’ morta a Bergamo alla soglia dei cent’anni.
L’assassina era una pazza? Tutt’altro, era “soltanto un’italiana”, come dirà al processo, profondamente delusa dalla sua patria, del suo esercito, dei suoi politici: per due anni viaggiò tra Milano e Pola cercando di far capire la situazione al confine Orientale italiano. Come sparivano gli italiani. A nessuno sembrava importare nulla.

Tutto ciò che vidi. Parla Maria Pasquinelli. 1943-1945 fosse comuni, foibe, mare. All’interno l’elenco dettagliato degli italiani istriani trucidati dai titini in Istria nel settembre-ottobre 1943 (Oltre edizioni) è stato scritto da due giornaliste di origine istriana Rosanna Turcinovich e Rossana Poletti.

Nel 2007 Maria Pasquinelli concede l’unica intervista della sua vita a Rosanna Turcinovich, che l’ascolta rapita per ore per capire fino a dove può condurre l’amore patrio e il senso di giustizia disatteso. Ne nascerà un primo libro: La giustizia secondo Maria (Del Bianco Editore). Quando sta per andarsene le lascia un biglietto vergato e firmato da lei: l’autorizza a richiedere al Vescovado di Trieste la consegna del baule che custodisce tutte le interviste che lei ha effettuato per due anni alle famiglie degli infoibati, le liste con i nomi e cognomi e il luogo della foiba dove sono stati gettati. Turcinovich entra in possesso del baule, depositato in una banca, solo qualche anno fa. Sono dettagliatissime cronache da giornalista di guerra.

Nel 1942 Pasquinelli era andata ad insegnare a Spalato, che era stata annessa all’Italia nel Governatorato di Dalmazia. L’11 settembre del 1943 assiste alla resa delle nostre armi ai partigiani slavi che saccheggiano la città e fanno esecuzioni sommarie lungo la strada. Poi si organizzano: scavano fosse e ci mettono dentro i civili vivi, a cui sparano, così non devono trasportarli da morti. Vengono uccisi dei suoi colleghi insegnanti assieme al preside e al provveditore agli Studi. Poi arrivano i tedeschi da cui ottiene, pagando, di esumare 106 italiani fucilati. Ritorna in Italia, a Trieste apprende delle foibe in Istria e chiede un incontro a Junio Valerio Borghese che le dà il mandato per andare in Istria. I partigiani slavi hanno instaurato una strategia del terrore, scatenando in nome del nazionalismo slavo l’odio per gli italiani. Maria assiste a delle atrocità che la segnano profondamente. Un padre, ad esempio, vede estrarre dalla foiba le sue tre figlie.

Scrivono le autrici: “In tempi recenti, storici croati hanno dichiarato pubblicamente che gli istriani e fiumani italiani non sono altro che croati opportunisti che avevano scelto la lingua e la cultura italiane per essere ammessi nelle stanze del potere”. Sì, me lo sono sentita dire anch’io in Croazia che i miei antenati erano croati, come mai allora scrivevano in latino e poi in italiano? E come si spiega che 350 mila abitanti dell’Istria e della Dalmazia, se erano croati, abbiano preferito abbandonare tutto e perfino morire soltanto perché si sentivano italiani?


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La Voce di New York - domenica 14 febbraio 2021
1943-1945 fosse comuni, foibe, mare. All’interno l’elenco dettagliato degli italiani istriani trucidati dai titini in Istria nel settembre-ottobre 1943

di Elisabetta De Dominis
Il libro (Oltre edizioni) è stato scritto da due giornaliste di origine istriana Rosanna Turcinovich e Rossana Poletti che recuperano i documenti conservati dalla donna che uccise nel 1947 un generale inglese rappresentante del governo alleato a Pola. Nel 2007 Maria Pasquinelli concede l’unica intervista della sua vita a Rosanna Turcinovich, che l’ascolta rapita per ore per capire fino a dove può condurre l’amore patrio e il senso di giustizia disatteso

“Tutto ciò che vidi e non voglio più vedere. Non voglio più vivere. Oggi sparo e uccido chi consegnerà le chiavi di Pola ai comunisti”

E’ il 10 febbraio del 1947, giorno della firma del trattato di pace, e Maria Pasquinelli, maestra bergamasca poco più che trentenne, abbatte con tre colpi di pistola il generale inglese Robert De Winton, rappresentante del Governo Alleato. L’antica città romana di Pola si era mantenuta italiana al 98 per cento, tanto che era stata considerata zona A, come Trieste, e amministrata dagli inglesi. Avrebbe dovuto tornare all’Italia. Ma al dittatore comunista Tito faceva troppa gola e con lei tutta l’Istria in gran parte italiana. Era una terra ricca, produttiva. Bisognava eliminare la popolazione e sistemarci dei bravi jugoslavi. Così fece: chiamò gente povera dall’interno della Croazia e Slovenia, Bosnia, Erzegovina, Kosovo invitandoli a liberare quella terra razziando e uccidendo: “Buttate tutti nelle foibe. Prendetevi le loro vite, le loro case, le loro cose. Ora la nostra razza comanderà. Gli italiani devono crepare: ci hanno rubato le nostre terre”. Chi non morì, partì. A Pola rimase solo un centinaio di italiani.
Maria non venne uccisa sul colpo, ma arrestata. A Trieste fu processata e condannata a morte, poi la sua pena fu commutata nell’ergastolo. Non chiese mai la grazia, ma l’ottenne dopo 18 anni di detenzione grazie all’intercessione della sorella al capo dello Stato. E’ morta a Bergamo alla soglia dei cent’anni.
L’assassina era una pazza? Tutt’altro, era “soltanto un’italiana”, come dirà al processo, profondamente delusa dalla sua patria, del suo esercito, dei suoi politici: per due anni viaggiò tra Milano e Pola cercando di far capire la situazione al confine Orientale italiano. Come sparivano gli italiani. A nessuno sembrava importare nulla.

Tutto ciò che vidi. Parla Maria Pasquinelli. 1943-1945 fosse comuni, foibe, mare. All’interno l’elenco dettagliato degli italiani istriani trucidati dai titini in Istria nel settembre-ottobre 1943 (Oltre edizioni) è stato scritto da due giornaliste di origine istriana Rosanna Turcinovich e Rossana Poletti.

Nel 2007 Maria Pasquinelli concede l’unica intervista della sua vita a Rosanna Turcinovich, che l’ascolta rapita per ore per capire fino a dove può condurre l’amore patrio e il senso di giustizia disatteso. Ne nascerà un primo libro: La giustizia secondo Maria (Del Bianco Editore). Quando sta per andarsene le lascia un biglietto vergato e firmato da lei: l’autorizza a richiedere al Vescovado di Trieste la consegna del baule che custodisce tutte le interviste che lei ha effettuato per due anni alle famiglie degli infoibati, le liste con i nomi e cognomi e il luogo della foiba dove sono stati gettati. Turcinovich entra in possesso del baule, depositato in una banca, solo qualche anno fa. Sono dettagliatissime cronache da giornalista di guerra.

Nel 1942 Pasquinelli era andata ad insegnare a Spalato, che era stata annessa all’Italia nel Governatorato di Dalmazia. L’11 settembre del 1943 assiste alla resa delle nostre armi ai partigiani slavi che saccheggiano la città e fanno esecuzioni sommarie lungo la strada. Poi si organizzano: scavano fosse e ci mettono dentro i civili vivi, a cui sparano, così non devono trasportarli da morti. Vengono uccisi dei suoi colleghi insegnanti assieme al preside e al provveditore agli Studi. Poi arrivano i tedeschi da cui ottiene, pagando, di esumare 106 italiani fucilati. Ritorna in Italia, a Trieste apprende delle foibe in Istria e chiede un incontro a Junio Valerio Borghese che le dà il mandato per andare in Istria. I partigiani slavi hanno instaurato una strategia del terrore, scatenando in nome del nazionalismo slavo l’odio per gli italiani. Maria assiste a delle atrocità che la segnano profondamente. Un padre, ad esempio, vede estrarre dalla foiba le sue tre figlie.

Scrivono le autrici: “In tempi recenti, storici croati hanno dichiarato pubblicamente che gli istriani e fiumani italiani non sono altro che croati opportunisti che avevano scelto la lingua e la cultura italiane per essere ammessi nelle stanze del potere”. Sì, me lo sono sentita dire anch’io in Croazia che i miei antenati erano croati, come mai allora scrivevano in latino e poi in italiano? E come si spiega che 350 mila abitanti dell’Istria e della Dalmazia, se erano croati, abbiano preferito abbandonare tutto e perfino morire soltanto perché si sentivano italiani?


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OGT newspaper
oggi
01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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