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«GUERRA E AMORE DENTRO L’ANIMA DI UNMONDO
Giornale di Brescia di sabato 20 febbraio 2021
L’intervista - Valerio Di Donato, giornalista e scrittore, autore del romanzo «Le fiamme dei Balcani»

Una mirabile storia tra realtŕ e fantasia «Mirna e Ivan sono la speranza di una democrazia vera»

di FRANCESCO MANNONI
Arriva un romanzo che chiarisce molte incognite sulle guerre che negli anni Novanta disgregarono la ex Iugoslavia e che tra realtà e fantasia racconta una mirabile storia d’amore. L’autore è lo scrittore e giornalista Valerio Di Donato, che seguì da vicino - per conto del nostro giornale - le guerre etniche che infuriarono in un territorio vicinissimo all’Italia,ai cui confini ancora si piange un passato disastroso: la perdita dell’Istria e le migliaia di persone che nel 1943 furono uccise riempiendo con i loro corpi i grandi inghiottitoi carsici, le foibe adibite a fosse comuni dai partigiani titini.
Per scrivere «Le fiamme dei Balcani» (Oltre edizioni, 282 pagine,18 euro; disponibile dal 23 febbraio) e raccontare «Guerra e amore dentro l’anima di un mondo "ex"», Di Donato si è documentato per anni, ha intervistato diversi storici e ha visitato diverse volte Belgrado, epicentro della crisiiugoslava.E tra le pagine, nella baraonda delle armi rimbomba il battito dei cuori di Ivane Mirna, un soldato croato e un’infermiera che s’incontrano e capiscono d’amarsi sin dal primo sguardo.
«La storia d’amore tra Mirna e Ivan è del tutto inventata» precisa Di Donato: «La vicenda parte dal mancato attentato all’esule istriano Antonio Fabris detto "Tonci",scappatoaTrieste nel 1943 non appena gli umori locali lo allarmarono. Tornato in Croazia in vacanza dopo molti anni, apprende che i titini avevano incaricato un sicario per eliminarlo. Così ho pensato di imbastire una vicenda che mi consentisse di raccontare mezzo secolo di storia di questa terra tormentata, l’Istria, che migliaia di italiani hanno dovuto lasciare abbandonando tutto. Il fatto di Antonio Fabris( nella finzione zio di Ivan) ha un filo sotterraneo, invisibile, tra le vicende della Seconda guerra mondiale e quella di cinquant’anni dopo».

Con quali intenti ha scritto il romanzo?

Cercare di capire una terra complessa che m’inquietava e perché la guerra in Bosnia e in Serbia è stata molto seguita, ma molto meno si è parlato della guerra tra croati e serbi scoppiata a fine agosto ’91 e conclusa nel ’95 con la riconquista da parte dei croati di tutte quelle terre di cui i serbi avevano tentato di depredarla. La nuova Croazia, animata da un patriottismo molto forte, legava due epoche di sangue: la costruzione da parte di Tito di un Paese che univa macedoni,serbi, croati e sloveni finito tra nazionalismi drastici, e la disgregazione violenta tra criteri etnici che smembrarono le comunità creando drammi pazzeschi.

Cosa rappresentano nel contesto bellico Ivan, Mirna e il loro amore?

Ivan e Mirna rappresentano quella parte vicina all’Italia - nella quale si rifugeranno provvisoriamente -, e una gioventù meno patriottica. Mirna e Ivan sono la speranza di una democrazia vera nelle nuove società nate dalle ceneri del comunismo.

Quanto ha idealizzato il personaggio di Ivan?

Molto, perché ho cercato - forse inconsciamente - di uniformarmi al suo modo di pensare. Ma è idealizzato,non tanto sulla messa in discussione della guerra patriottica in tutti i Paesi dell’exIugoslavia, ma sui giovani che non credevano in quella guerra e venivano fermati di notte per essere arruolati a forza. Avevano studiato nelle università straniere, parlavano le lingue, guardavano la televisione e il loro modello era l’Occidente libero, non certo gli antichi Stati che si presentavano sotto vesti democratiche ma che si rifacevano ad antichi regimi, regni medievali dimenticati che avevano creato il mito delle nazioni.Il dialogo tra Ivan e lo zio Tonci - che confessa al nipote d’essere alla ricerca del suo sicario -, è una costruzione letteraria per far dialogare due pezzi di storia e generazioni diverse.

Quanto ha idealizzato il personaggio di Ivan?

Due anni fa sono tornato a Belgrado, ma ho constatato che la ruggine fatica a staccarsi. Tuttora, se un serbo passa per la Croazia e si ferma conl’auto, dopo può trovare una gomma bucata. Sulla costa dalmata a Spalato, città accesamente nazionalista, ci sono ancora episodi di aggressività verbale. Non tutto è finito. Vivono una pace fredda,sospettosa. Hanno ripescato nei vocabolari vecchi termini per dimostrare che il croato è diverso dal serbo. Sono democrazie fragili, che hanno bisogno di una forza identitaria per consolidarsi.


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Giornale di Brescia - sabato 20 febbraio 2021
L’intervista - Valerio Di Donato, giornalista e scrittore, autore del romanzo «Le fiamme dei Balcani»

Una mirabile storia tra realtŕ e fantasia «Mirna e Ivan sono la speranza di una democrazia vera»

di FRANCESCO MANNONI
Arriva un romanzo che chiarisce molte incognite sulle guerre che negli anni Novanta disgregarono la ex Iugoslavia e che tra realtà e fantasia racconta una mirabile storia d’amore. L’autore è lo scrittore e giornalista Valerio Di Donato, che seguì da vicino - per conto del nostro giornale - le guerre etniche che infuriarono in un territorio vicinissimo all’Italia,ai cui confini ancora si piange un passato disastroso: la perdita dell’Istria e le migliaia di persone che nel 1943 furono uccise riempiendo con i loro corpi i grandi inghiottitoi carsici, le foibe adibite a fosse comuni dai partigiani titini.
Per scrivere «Le fiamme dei Balcani» (Oltre edizioni, 282 pagine,18 euro; disponibile dal 23 febbraio) e raccontare «Guerra e amore dentro l’anima di un mondo "ex"», Di Donato si è documentato per anni, ha intervistato diversi storici e ha visitato diverse volte Belgrado, epicentro della crisiiugoslava.E tra le pagine, nella baraonda delle armi rimbomba il battito dei cuori di Ivane Mirna, un soldato croato e un’infermiera che s’incontrano e capiscono d’amarsi sin dal primo sguardo.
«La storia d’amore tra Mirna e Ivan è del tutto inventata» precisa Di Donato: «La vicenda parte dal mancato attentato all’esule istriano Antonio Fabris detto "Tonci",scappatoaTrieste nel 1943 non appena gli umori locali lo allarmarono. Tornato in Croazia in vacanza dopo molti anni, apprende che i titini avevano incaricato un sicario per eliminarlo. Così ho pensato di imbastire una vicenda che mi consentisse di raccontare mezzo secolo di storia di questa terra tormentata, l’Istria, che migliaia di italiani hanno dovuto lasciare abbandonando tutto. Il fatto di Antonio Fabris( nella finzione zio di Ivan) ha un filo sotterraneo, invisibile, tra le vicende della Seconda guerra mondiale e quella di cinquant’anni dopo».

Con quali intenti ha scritto il romanzo?

Cercare di capire una terra complessa che m’inquietava e perché la guerra in Bosnia e in Serbia è stata molto seguita, ma molto meno si è parlato della guerra tra croati e serbi scoppiata a fine agosto ’91 e conclusa nel ’95 con la riconquista da parte dei croati di tutte quelle terre di cui i serbi avevano tentato di depredarla. La nuova Croazia, animata da un patriottismo molto forte, legava due epoche di sangue: la costruzione da parte di Tito di un Paese che univa macedoni,serbi, croati e sloveni finito tra nazionalismi drastici, e la disgregazione violenta tra criteri etnici che smembrarono le comunità creando drammi pazzeschi.

Cosa rappresentano nel contesto bellico Ivan, Mirna e il loro amore?

Ivan e Mirna rappresentano quella parte vicina all’Italia - nella quale si rifugeranno provvisoriamente -, e una gioventù meno patriottica. Mirna e Ivan sono la speranza di una democrazia vera nelle nuove società nate dalle ceneri del comunismo.

Quanto ha idealizzato il personaggio di Ivan?

Molto, perché ho cercato - forse inconsciamente - di uniformarmi al suo modo di pensare. Ma è idealizzato,non tanto sulla messa in discussione della guerra patriottica in tutti i Paesi dell’exIugoslavia, ma sui giovani che non credevano in quella guerra e venivano fermati di notte per essere arruolati a forza. Avevano studiato nelle università straniere, parlavano le lingue, guardavano la televisione e il loro modello era l’Occidente libero, non certo gli antichi Stati che si presentavano sotto vesti democratiche ma che si rifacevano ad antichi regimi, regni medievali dimenticati che avevano creato il mito delle nazioni.Il dialogo tra Ivan e lo zio Tonci - che confessa al nipote d’essere alla ricerca del suo sicario -, è una costruzione letteraria per far dialogare due pezzi di storia e generazioni diverse.

Quanto ha idealizzato il personaggio di Ivan?

Due anni fa sono tornato a Belgrado, ma ho constatato che la ruggine fatica a staccarsi. Tuttora, se un serbo passa per la Croazia e si ferma conl’auto, dopo può trovare una gomma bucata. Sulla costa dalmata a Spalato, città accesamente nazionalista, ci sono ancora episodi di aggressività verbale. Non tutto è finito. Vivono una pace fredda,sospettosa. Hanno ripescato nei vocabolari vecchi termini per dimostrare che il croato è diverso dal serbo. Sono democrazie fragili, che hanno bisogno di una forza identitaria per consolidarsi.


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OGT newspaper
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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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