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Valerio Di Donato
solomente.it di giovedģ 11 marzo 2021
“Descrivi un sogno che ti ha particolarmente colpito”. Quando, in prima media, la professoressa di Italiano dettņ il tema del compito in classe, non potevo sapere che quello sarebbe stato l’incipit di un sogno lungo, che mi avrebbe accompagnato per sempre...

di Francesca Meucci
“Descrivi un sogno che ti ha particolarmente colpito”. Quando, in prima media, la professoressa di Italiano dettò il tema del compito in classe, non potevo sapere che quello sarebbe stato l’incipit di un sogno lungo, che mi avrebbe accompagnato per sempre. Scrivere. Inventai, seduta stante, la storia di un ragazzino, mio alias, che mentre volava verso Washington immaginava di intervistare Robert McNamara. Chi era? Il segretario alla Difesa Usa di Kennedy e Johnson, stratega dell’intervento americano in Vietnam. Ma questo, a undici anni, non potevo saperlo. Avevo sentito fare il suo nome al telegiornale della sera e mi era rimasto impresso il suo nome, insieme alle immagini di marines e blindati che si imbarcavano per Saigon. Presi 9 e da allora decisi che, sì, avrei fatto il narratore, di storie, di personaggi, di sogni. Magari il giornalista, che sembrava una affascinante missione più che un lavoro. D’altronde, odiando la matematica e le materie scientifiche in generale, non avevo scelta. Così, con diverse lacune, riuscii a valicare ansimante la maturità classica, inseguito dall’immagine monitoria dell’Alfieri legato alla sedia per studiare con profitto. Il primo articolo da collaboratore di un settimanale del Veneto, lo battei a 21 anni sull’Olivetti Lettera 22 di mio padre, la sera del vicino terremoto in Friuli, il 6 maggio 1976. La concentrazione sul resoconto di una vertenza sindacale dei tessili era tale che quasi non me ne accorsi. Serata indimenticabile, non certo per la qualità dello scritto. Faticoso e fatidico. “Per riuscire a fare il giornalista, dovrai terremotare la tua vita”, mi disse la stessa voce che mi aveva suggerito il tema su McNamara. E così fu. Passarono quindici anni prima che, dopo una laurea in Scienze politiche, un trasloco causa matrimonio in Lombardia, otto anni di lavoro fra associazioni di categoria e uffici stampa, entrassi in redazione come giornalista professionista al “Giornale di Brescia” e lì dessi forma al mai sopito sogno infantile. Lì potei liberare la mia passione per la politica interna e estera, con un’attenzione spontanea, irresistibile verso i Balcani. Erano gli anni della dissoluzione sanguinosa dell’ex Jugoslavia, ma anche quelli della riscoperta di una pagina di Storia stracciata o dimenticata: l’odissea degli italiani fuggiti in massa dal trionfante comunismo titino del dopoguerra. Dai miei viaggi in Istria, in Croazia, in Serbia, a Pola, Fiume, Belgrado, Sarajevo, Srebrenica, dagli incontri, le esperienze, le letture, da tutto questo bagaglio culturale e sentimentale nacquero i due libri che ho scritto. “ISTRIANIeri. Storie di esilio” (Liberedizioni 2006). E “Le fiamme dei Balcani. Guerra e amore dentro l’anima di un mondo ‘ex’” (Oltre edizioni 2021). Questo secondo, portato a termine dopo il pensionamento anticipato dal “Giornale di Brescia”, rappresenta il mio romanzo d’esordio. Con esso, il bambino in volo verso l’America si è definitivamente svegliato e prova a realizzare fino in fondo se stesso. Non avrebbe, però, sopportato una così infinita attesa, se non fosse stato aiutato dal combinato disposto delle sue molteplici passioni: la musica rock, come cantante e chitarrista della sua band, i “200 km”, facendo il pendolare fra Brescia e Treviso; il running metodico, medicina naturale del corpo e della mente; i viaggi in moto con la sua compagna (tanti i progetti ancora in corso). Sempre con la penna, il taccuino e un buon libro nella borsa.


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solomente.it - giovedģ 11 marzo 2021
“Descrivi un sogno che ti ha particolarmente colpito”. Quando, in prima media, la professoressa di Italiano dettņ il tema del compito in classe, non potevo sapere che quello sarebbe stato l’incipit di un sogno lungo, che mi avrebbe accompagnato per sempre...

di Francesca Meucci
“Descrivi un sogno che ti ha particolarmente colpito”. Quando, in prima media, la professoressa di Italiano dettò il tema del compito in classe, non potevo sapere che quello sarebbe stato l’incipit di un sogno lungo, che mi avrebbe accompagnato per sempre. Scrivere. Inventai, seduta stante, la storia di un ragazzino, mio alias, che mentre volava verso Washington immaginava di intervistare Robert McNamara. Chi era? Il segretario alla Difesa Usa di Kennedy e Johnson, stratega dell’intervento americano in Vietnam. Ma questo, a undici anni, non potevo saperlo. Avevo sentito fare il suo nome al telegiornale della sera e mi era rimasto impresso il suo nome, insieme alle immagini di marines e blindati che si imbarcavano per Saigon. Presi 9 e da allora decisi che, sì, avrei fatto il narratore, di storie, di personaggi, di sogni. Magari il giornalista, che sembrava una affascinante missione più che un lavoro. D’altronde, odiando la matematica e le materie scientifiche in generale, non avevo scelta. Così, con diverse lacune, riuscii a valicare ansimante la maturità classica, inseguito dall’immagine monitoria dell’Alfieri legato alla sedia per studiare con profitto. Il primo articolo da collaboratore di un settimanale del Veneto, lo battei a 21 anni sull’Olivetti Lettera 22 di mio padre, la sera del vicino terremoto in Friuli, il 6 maggio 1976. La concentrazione sul resoconto di una vertenza sindacale dei tessili era tale che quasi non me ne accorsi. Serata indimenticabile, non certo per la qualità dello scritto. Faticoso e fatidico. “Per riuscire a fare il giornalista, dovrai terremotare la tua vita”, mi disse la stessa voce che mi aveva suggerito il tema su McNamara. E così fu. Passarono quindici anni prima che, dopo una laurea in Scienze politiche, un trasloco causa matrimonio in Lombardia, otto anni di lavoro fra associazioni di categoria e uffici stampa, entrassi in redazione come giornalista professionista al “Giornale di Brescia” e lì dessi forma al mai sopito sogno infantile. Lì potei liberare la mia passione per la politica interna e estera, con un’attenzione spontanea, irresistibile verso i Balcani. Erano gli anni della dissoluzione sanguinosa dell’ex Jugoslavia, ma anche quelli della riscoperta di una pagina di Storia stracciata o dimenticata: l’odissea degli italiani fuggiti in massa dal trionfante comunismo titino del dopoguerra. Dai miei viaggi in Istria, in Croazia, in Serbia, a Pola, Fiume, Belgrado, Sarajevo, Srebrenica, dagli incontri, le esperienze, le letture, da tutto questo bagaglio culturale e sentimentale nacquero i due libri che ho scritto. “ISTRIANIeri. Storie di esilio” (Liberedizioni 2006). E “Le fiamme dei Balcani. Guerra e amore dentro l’anima di un mondo ‘ex’” (Oltre edizioni 2021). Questo secondo, portato a termine dopo il pensionamento anticipato dal “Giornale di Brescia”, rappresenta il mio romanzo d’esordio. Con esso, il bambino in volo verso l’America si è definitivamente svegliato e prova a realizzare fino in fondo se stesso. Non avrebbe, però, sopportato una così infinita attesa, se non fosse stato aiutato dal combinato disposto delle sue molteplici passioni: la musica rock, come cantante e chitarrista della sua band, i “200 km”, facendo il pendolare fra Brescia e Treviso; il running metodico, medicina naturale del corpo e della mente; i viaggi in moto con la sua compagna (tanti i progetti ancora in corso). Sempre con la penna, il taccuino e un buon libro nella borsa.


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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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