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Legami di confine
Corriere della Sera (BS) di martedì 16 marzo 2021
A ritroso nella verità: destini incrociati tra Italia e Jugoslavia, all'alba di una guerra fratricida
Esodi e sofferenze, storia e segreti in "Le fiamme dei Balcani" di Valerio Di Donato


di Marco Roncalli
Tra realtà e fantasia, una prova narrativa ad alto contenuto storico questa di Valerio Di Donato, giornalista a lungo al «Giornale di Brescia». In libreria da pochi giorni, il suo romanzo «Le fiamme dei Balcani » (Oltre edizioni, pp. 206, euro 18) valorizza testimonianze disparate di gente comune, intellettuali, politici… Per lo più raccolte durante i ripetuti viaggi in Istria dell’autore, che ha già al suo attivo un’altra raccolta sul tema: «Istrianieri. Storie di esilio ». Se però in quel volume — uscito nel 2006—al centro vi erano i racconti di persone che avevano lasciato la loro terra dopo il passaggio dalla sovranità italiana a quella jugoslava nel ‘47, e di altre invece rimaste a viverci sotto il regime titino, qui lo è la guerra fratricida che ad inizio Anni ’90 – primo atto la secessione slovena—spazzò via la Federazione socialista del Maresciallo Tito. Attento ai risvolti umani degli sconvolgimenti provocati dalla storia ancora una volta lungo una frontiera teatro di esodi e sofferenze, Di Donato costruisce qui la sua trama attorno alla vicenda di Antonio Fabris, detto Tonci, esule da Fasana, 9 km da Pola, sulla quale ne innesta altre di italiani, croati, serbi, dai legami e dai destini annodati e intrecciati, fra non poche sorprese. Così fatti risalenti al tempo del II conflitto bellico mondiale si saldano alla disgregazione dell’ex Jugoslavia, grazie a una narrazione tinta di giallo che accompagna i lettori oltre la soluzione del mistero. Quello di un attentato mancato che avrebbe potuto spezzare la vita del protagonista, riparato a Trieste nel ’43, poi stabilitosi a Bolzano, venuto a conoscenza anni dopo del fatto. Tonci, infatti, scoprirà tutto durante uno dei soggiorni estivi da un compaesano, Stjepan Bercic, che avverte il bisogno di confidargli quella decisione presa anni prima dai compagni del «Narodno Oslobodilacki Odbor» - che da tempo lo sospettavano come spia e avevano predisposto un piano per ucciderlo (ma sbagliarono persona). E qui ci si ferma, fatto salvo un cenno alla storia – inventata, ma verosimiledella bella infermiera Mirna Vukic e e del soldato croato Ivan Markovic (nipote di Tonci) finito in un ospedale a Karlovac reduce da Vukovar, l’inferno dell’odio interetnico. Una storia d’amore e speranza che invade queste pagine dove più generazioni legate al «confine orientale» subiscono lo stesso destino. Che si ripete. Inesorabilmente nefasto. Un incendio che ritorna puntualmente a distruggere quanto faticosamente costruito prima. Le fiamme dei Balcani.


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Corriere della Sera (BS) - martedì 16 marzo 2021
A ritroso nella verità: destini incrociati tra Italia e Jugoslavia, all'alba di una guerra fratricida
Esodi e sofferenze, storia e segreti in "Le fiamme dei Balcani" di Valerio Di Donato


di Marco Roncalli
Tra realtà e fantasia, una prova narrativa ad alto contenuto storico questa di Valerio Di Donato, giornalista a lungo al «Giornale di Brescia». In libreria da pochi giorni, il suo romanzo «Le fiamme dei Balcani » (Oltre edizioni, pp. 206, euro 18) valorizza testimonianze disparate di gente comune, intellettuali, politici… Per lo più raccolte durante i ripetuti viaggi in Istria dell’autore, che ha già al suo attivo un’altra raccolta sul tema: «Istrianieri. Storie di esilio ». Se però in quel volume — uscito nel 2006—al centro vi erano i racconti di persone che avevano lasciato la loro terra dopo il passaggio dalla sovranità italiana a quella jugoslava nel ‘47, e di altre invece rimaste a viverci sotto il regime titino, qui lo è la guerra fratricida che ad inizio Anni ’90 – primo atto la secessione slovena—spazzò via la Federazione socialista del Maresciallo Tito. Attento ai risvolti umani degli sconvolgimenti provocati dalla storia ancora una volta lungo una frontiera teatro di esodi e sofferenze, Di Donato costruisce qui la sua trama attorno alla vicenda di Antonio Fabris, detto Tonci, esule da Fasana, 9 km da Pola, sulla quale ne innesta altre di italiani, croati, serbi, dai legami e dai destini annodati e intrecciati, fra non poche sorprese. Così fatti risalenti al tempo del II conflitto bellico mondiale si saldano alla disgregazione dell’ex Jugoslavia, grazie a una narrazione tinta di giallo che accompagna i lettori oltre la soluzione del mistero. Quello di un attentato mancato che avrebbe potuto spezzare la vita del protagonista, riparato a Trieste nel ’43, poi stabilitosi a Bolzano, venuto a conoscenza anni dopo del fatto. Tonci, infatti, scoprirà tutto durante uno dei soggiorni estivi da un compaesano, Stjepan Bercic, che avverte il bisogno di confidargli quella decisione presa anni prima dai compagni del «Narodno Oslobodilacki Odbor» - che da tempo lo sospettavano come spia e avevano predisposto un piano per ucciderlo (ma sbagliarono persona). E qui ci si ferma, fatto salvo un cenno alla storia – inventata, ma verosimiledella bella infermiera Mirna Vukic e e del soldato croato Ivan Markovic (nipote di Tonci) finito in un ospedale a Karlovac reduce da Vukovar, l’inferno dell’odio interetnico. Una storia d’amore e speranza che invade queste pagine dove più generazioni legate al «confine orientale» subiscono lo stesso destino. Che si ripete. Inesorabilmente nefasto. Un incendio che ritorna puntualmente a distruggere quanto faticosamente costruito prima. Le fiamme dei Balcani.


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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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