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'Cartagine oltre il mito. Prima e dopo il 146 a.C.' di Giovanni Distefano
sololibri.net di venerdģ 30 aprile 2021
In un agile saggio antologico, l’intera storia della rivale di Roma, prima e soprattutto dopo la distruzione del 146 a.C.: protagonisti la cultura, la vita quotidiana e religiosa della capitale punica

di Felice Laudadio

Delenda Cartago”: quando si parla della “nemica” di Roma, l’anatema di Catone il Censore è il poco che i più ricordano. In effetti, i programmi di terza elementare e prima media non andavano oltre i cliché della rivalità mortale tra le due potenze mediterranee, dell’abilità dei punici in mare, di Annibale, Canne, Zama e del sale sulle rovine, dopo la sconfitta. Ora, grazie all’archeologo Giovanni Distefano possiamo finalmente conoscere altro, senza l’incubo d’essere interrogati e senza avventurarci in un testo storico impegnativo, perché il suo Cartagine oltre il mito. Prima e dopo il 146 a.C., per quanto informato e dettagliato, è un testo semplice e alla portata di tutti, pubblicato nel 2020 da Oltre Edizioni di Sestri Levante (198 pagine).

C’è stato anche un “dopo” la sconfitta fatale e un “com’erano” i Cartaginesi, argomenti sviluppati in alcuni dei contributi saggistici che compongono il lavoro di Distefano. E non si tratta certo del primo per il già direttore del Parco archeologico di Camarina, docente di archeologia del Mediterraneo tardoantico nell’Università della Calabria e a Tor Vergata, responsabile di missioni archeologiche a Cartagine, a Malta e a Roma (pendici occidentali del Campidoglio, Portico dei trionfi).
Accanto alla storia, che di per sé è affascinante come una fiaba, tiene conto della leggenda di Qrt Hdst, la città nuova fondata da Elissa, in fuga dalla Fenicia alla fine dell’IX secolo a.C.. Una è Cartagine, l’altra Didone, la regina “errante”, come la chiamavano i nuovi sudditi. A Tiro, Elissa era sorella del re Pigmalione e moglie di Acherbas, un ricco sacerdote del dio Melquart fatto assassinare dal cognato per appropriarsi dei suoi beni. Per la vedova comincia una vera odissea, che la porta prima a Cipro — dove aggrega il sacerdote della dea Astarte e rapisce giovani donne per assicurare il futuro alla sua stirpe — e poi nel golfo di Tunisi. Tra una laguna e il mare, fa costruire una nuova città, sul terreno conseguito con lo stratagemma di ottenere dalle popolazioni locali la concessione di occupare uno spazio grande quanto la pelle di un bue. Fatta ritagliare a strisce, aveva delimitato un territorio vasto, la Byrsa, che si vuole assonante col greco “pelle di bue”.
Morì suicida, dopo la partenza di Enea, a quanto raccontano Timeo di Tauromenio e soprattutto Virgilio, nel primo libro dell’Eneide.

Il mito pone quindi alla base di Cartagine l’ingegno di una principessa coraggiosa e l’ardore di un eroe troiano. La storia — Didone governò bene, le sue leggi furono apprezzate da Aristotele — riporta invece alla crisi della monarchia di Tiro tremila anni fa, all’intraprendenza dei marinai fenici, alla strategia commerciale di nuove generazioni di élite aristocratiche orientali, che condussero alla fondazione di una colonia e “città nuova” nel Mediterraneo occidentale. L’integrazione con gli autoctoni, la creazione di un modello urbano e la sperimentazione politico-amministrativa di una repubblica oligarchica furono le realtà fondanti di uno dei miti della storia universale.
Mercanti intraprendenti e veri signori del mare, i cartaginesi navigarono con Annone alla ricerca d’oro oltre le colonne d’Eracle, fino alle coste del golfo di Guinea. A metà del V secolo a.C., Imilcone raggiunse quelle atlantiche della Bretagna, alla ricerca di stagno. Erodoto descrive il baratto silente di oro tra indigeni e fenici, Diodoro Siculo la scoperta dell’argento iberico.

Cartaginese il più grande condottiero dell’antichità, secondo Theodor Mommsen: Annibale Barca, stratega e protagonista di vittorie ancora studiate militarmente (Trebbia, Trasimeno, Canne), fino alla sconfitta a Zama, in Africa, nel 202 a. C.. Altri uomini celebrati risalgono alla Cartagine cristiana: Tertulliano (150-222), difensore della chiesa latina in Africa; Cipriano, martire e santo nel III secolo; il dottore della Chiesa Agostino d’Ippona, cartaginese di adozione; il vescovo di Ruspe Fulgenzio (468-533), custode della tradizione agostiniana dopo l’invasione vandala.
Il mito di Cartagine si rinnova in età moderna: le rovine della città affascinarono viaggiatori e grandi scrittori, come Alexandre Dumas, Guy de Maupassant, René de Chateaubriand.

Nei saggi vengono illustrati spaccati della vita urbana e religiosa della rivale di Roma, prima e dopo la distruzione del 146 a. C., oltre al raccapricciante mito dei miti: il rito dei neonati immolati a Baal Hammon. Testi di Diodoro accreditano la tesi di sacrifici rituali su larga scala di bambini e Gustave Flaubert, nel romanzo Salambò del 1862, descrive le pratiche rituali di piccoli corpi bruciati. Questo ha alimentato la suggestione e il sospetto, accresciuti dalla scoperta nel 1921 del tophet, distesa di urne con ossa di infanti cremati. A parte Diodoro e Flaubert, nessuna fonte storica conferma l’usanza e indagini antropologiche recenti attestano piuttosto l’inumazione di defunti d’età prenatale o neonatale, non vissuti abbastanza da essere sacrificati sull’altare di Baal. Un mito alimentato dalla storiografia greca partigiana e rinfocolato dal terribile racconto flaubertiano “a favore dei credenti cattolici europei”, sostiene Distefano.



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In un agile saggio antologico, l’intera storia della rivale di Roma, prima e soprattutto dopo la distruzione del 146 a.C.: protagonisti la cultura, la vita quotidiana e religiosa della capitale punica

di Felice Laudadio

Delenda Cartago”: quando si parla della “nemica” di Roma, l’anatema di Catone il Censore è il poco che i più ricordano. In effetti, i programmi di terza elementare e prima media non andavano oltre i cliché della rivalità mortale tra le due potenze mediterranee, dell’abilità dei punici in mare, di Annibale, Canne, Zama e del sale sulle rovine, dopo la sconfitta. Ora, grazie all’archeologo Giovanni Distefano possiamo finalmente conoscere altro, senza l’incubo d’essere interrogati e senza avventurarci in un testo storico impegnativo, perché il suo Cartagine oltre il mito. Prima e dopo il 146 a.C., per quanto informato e dettagliato, è un testo semplice e alla portata di tutti, pubblicato nel 2020 da Oltre Edizioni di Sestri Levante (198 pagine).

C’è stato anche un “dopo” la sconfitta fatale e un “com’erano” i Cartaginesi, argomenti sviluppati in alcuni dei contributi saggistici che compongono il lavoro di Distefano. E non si tratta certo del primo per il già direttore del Parco archeologico di Camarina, docente di archeologia del Mediterraneo tardoantico nell’Università della Calabria e a Tor Vergata, responsabile di missioni archeologiche a Cartagine, a Malta e a Roma (pendici occidentali del Campidoglio, Portico dei trionfi).
Accanto alla storia, che di per sé è affascinante come una fiaba, tiene conto della leggenda di Qrt Hdst, la città nuova fondata da Elissa, in fuga dalla Fenicia alla fine dell’IX secolo a.C.. Una è Cartagine, l’altra Didone, la regina “errante”, come la chiamavano i nuovi sudditi. A Tiro, Elissa era sorella del re Pigmalione e moglie di Acherbas, un ricco sacerdote del dio Melquart fatto assassinare dal cognato per appropriarsi dei suoi beni. Per la vedova comincia una vera odissea, che la porta prima a Cipro — dove aggrega il sacerdote della dea Astarte e rapisce giovani donne per assicurare il futuro alla sua stirpe — e poi nel golfo di Tunisi. Tra una laguna e il mare, fa costruire una nuova città, sul terreno conseguito con lo stratagemma di ottenere dalle popolazioni locali la concessione di occupare uno spazio grande quanto la pelle di un bue. Fatta ritagliare a strisce, aveva delimitato un territorio vasto, la Byrsa, che si vuole assonante col greco “pelle di bue”.
Morì suicida, dopo la partenza di Enea, a quanto raccontano Timeo di Tauromenio e soprattutto Virgilio, nel primo libro dell’Eneide.

Il mito pone quindi alla base di Cartagine l’ingegno di una principessa coraggiosa e l’ardore di un eroe troiano. La storia — Didone governò bene, le sue leggi furono apprezzate da Aristotele — riporta invece alla crisi della monarchia di Tiro tremila anni fa, all’intraprendenza dei marinai fenici, alla strategia commerciale di nuove generazioni di élite aristocratiche orientali, che condussero alla fondazione di una colonia e “città nuova” nel Mediterraneo occidentale. L’integrazione con gli autoctoni, la creazione di un modello urbano e la sperimentazione politico-amministrativa di una repubblica oligarchica furono le realtà fondanti di uno dei miti della storia universale.
Mercanti intraprendenti e veri signori del mare, i cartaginesi navigarono con Annone alla ricerca d’oro oltre le colonne d’Eracle, fino alle coste del golfo di Guinea. A metà del V secolo a.C., Imilcone raggiunse quelle atlantiche della Bretagna, alla ricerca di stagno. Erodoto descrive il baratto silente di oro tra indigeni e fenici, Diodoro Siculo la scoperta dell’argento iberico.

Cartaginese il più grande condottiero dell’antichità, secondo Theodor Mommsen: Annibale Barca, stratega e protagonista di vittorie ancora studiate militarmente (Trebbia, Trasimeno, Canne), fino alla sconfitta a Zama, in Africa, nel 202 a. C.. Altri uomini celebrati risalgono alla Cartagine cristiana: Tertulliano (150-222), difensore della chiesa latina in Africa; Cipriano, martire e santo nel III secolo; il dottore della Chiesa Agostino d’Ippona, cartaginese di adozione; il vescovo di Ruspe Fulgenzio (468-533), custode della tradizione agostiniana dopo l’invasione vandala.
Il mito di Cartagine si rinnova in età moderna: le rovine della città affascinarono viaggiatori e grandi scrittori, come Alexandre Dumas, Guy de Maupassant, René de Chateaubriand.

Nei saggi vengono illustrati spaccati della vita urbana e religiosa della rivale di Roma, prima e dopo la distruzione del 146 a. C., oltre al raccapricciante mito dei miti: il rito dei neonati immolati a Baal Hammon. Testi di Diodoro accreditano la tesi di sacrifici rituali su larga scala di bambini e Gustave Flaubert, nel romanzo Salambò del 1862, descrive le pratiche rituali di piccoli corpi bruciati. Questo ha alimentato la suggestione e il sospetto, accresciuti dalla scoperta nel 1921 del tophet, distesa di urne con ossa di infanti cremati. A parte Diodoro e Flaubert, nessuna fonte storica conferma l’usanza e indagini antropologiche recenti attestano piuttosto l’inumazione di defunti d’età prenatale o neonatale, non vissuti abbastanza da essere sacrificati sull’altare di Baal. Un mito alimentato dalla storiografia greca partigiana e rinfocolato dal terribile racconto flaubertiano “a favore dei credenti cattolici europei”, sostiene Distefano.



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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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