“Delenda Cartago”: quando si parla della “nemica” di Roma, l’anatema di Catone il Censore è il poco che i più ricordano. In effetti, i programmi di terza elementare e prima media non andavano oltre i cliché della rivalità mortale tra le due potenze mediterranee, dell’abilità dei punici in mare, di Annibale, Canne, Zama e del sale sulle rovine, dopo la sconfitta. Ora, grazie all’archeologo Giovanni Distefano possiamo finalmente conoscere altro, senza l’incubo d’essere interrogati e senza avventurarci in un testo storico impegnativo, perché il suo Cartagine oltre il mito. Prima e dopo il 146 a.C., per quanto informato e dettagliato, è un testo semplice e alla portata di tutti, pubblicato nel 2020 da Oltre Edizioni di Sestri Levante (198 pagine).
C’è stato anche un “dopo” la sconfitta fatale e un “com’erano” i Cartaginesi, argomenti sviluppati in alcuni dei contributi saggistici che compongono il lavoro di Distefano. E non si tratta certo del primo per il già direttore del Parco archeologico di Camarina, docente di archeologia del Mediterraneo tardoantico nell’Università della Calabria e a Tor Vergata, responsabile di missioni archeologiche a Cartagine, a Malta e a Roma (pendici occidentali del Campidoglio, Portico dei trionfi).
Accanto alla storia, che di per sé è affascinante come una fiaba, tiene conto della leggenda di Qrt Hdst, la città nuova fondata da Elissa, in fuga dalla Fenicia alla fine dell’IX secolo a.C.. Una è Cartagine, l’altra Didone, la regina “errante”, come la chiamavano i nuovi sudditi. A Tiro, Elissa era sorella del re Pigmalione e moglie di Acherbas, un ricco sacerdote del dio Melquart fatto assassinare dal cognato per appropriarsi dei suoi beni. Per la vedova comincia una vera odissea, che la porta prima a Cipro — dove aggrega il sacerdote della dea Astarte e rapisce giovani donne per assicurare il futuro alla sua stirpe — e poi nel golfo di Tunisi. Tra una laguna e il mare, fa costruire una nuova città, sul terreno conseguito con lo stratagemma di ottenere dalle popolazioni locali la concessione di occupare uno spazio grande quanto la pelle di un bue. Fatta ritagliare a strisce, aveva delimitato un territorio vasto, la Byrsa, che si vuole assonante col greco “pelle di bue”.
Morì suicida, dopo la partenza di Enea, a quanto raccontano Timeo di Tauromenio e soprattutto Virgilio, nel primo libro dell’Eneide.
Il mito pone quindi alla base di Cartagine l’ingegno di una principessa coraggiosa e l’ardore di un eroe troiano. La storia — Didone governò bene, le sue leggi furono apprezzate da Aristotele — riporta invece alla crisi della monarchia di Tiro tremila anni fa, all’intraprendenza dei marinai fenici, alla strategia commerciale di nuove generazioni di élite aristocratiche orientali, che condussero alla fondazione di una colonia e “città nuova” nel Mediterraneo occidentale. L’integrazione con gli autoctoni, la creazione di un modello urbano e la sperimentazione politico-amministrativa di una repubblica oligarchica furono le realtà fondanti di uno dei miti della storia universale.
Mercanti intraprendenti e veri signori del mare, i cartaginesi navigarono con Annone alla ricerca d’oro oltre le colonne d’Eracle, fino alle coste del golfo di Guinea. A metà del V secolo a.C., Imilcone raggiunse quelle atlantiche della Bretagna, alla ricerca di stagno. Erodoto descrive il baratto silente di oro tra indigeni e fenici, Diodoro Siculo la scoperta dell’argento iberico.
Cartaginese il più grande condottiero dell’antichità, secondo Theodor Mommsen: Annibale Barca, stratega e protagonista di vittorie ancora studiate militarmente (Trebbia, Trasimeno, Canne), fino alla sconfitta a Zama, in Africa, nel 202 a. C.. Altri uomini celebrati risalgono alla Cartagine cristiana: Tertulliano (150-222), difensore della chiesa latina in Africa; Cipriano, martire e santo nel III secolo; il dottore della Chiesa Agostino d’Ippona, cartaginese di adozione; il vescovo di Ruspe Fulgenzio (468-533), custode della tradizione agostiniana dopo l’invasione vandala.
Il mito di Cartagine si rinnova in età moderna: le rovine della città affascinarono viaggiatori e grandi scrittori, come Alexandre Dumas, Guy de Maupassant, René de Chateaubriand.
Nei saggi vengono illustrati spaccati della vita urbana e religiosa della rivale di Roma, prima e dopo la distruzione del 146 a. C., oltre al raccapricciante mito dei miti: il rito dei neonati immolati a Baal Hammon. Testi di Diodoro accreditano la tesi di sacrifici rituali su larga scala di bambini e Gustave Flaubert, nel romanzo Salambò del 1862, descrive le pratiche rituali di piccoli corpi bruciati. Questo ha alimentato la suggestione e il sospetto, accresciuti dalla scoperta nel 1921 del tophet, distesa di urne con ossa di infanti cremati. A parte Diodoro e Flaubert, nessuna fonte storica conferma l’usanza e indagini antropologiche recenti attestano piuttosto l’inumazione di defunti d’età prenatale o neonatale, non vissuti abbastanza da essere sacrificati sull’altare di Baal. Un mito alimentato dalla storiografia greca partigiana e rinfocolato dal terribile racconto flaubertiano “a favore dei credenti cattolici europei”, sostiene Distefano.
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