La vera Qarth?
Uno dei motivi per cui vale la pena guardare Il Trono di Spade, se ha un po’ di gusto per queste cose, è la ricerca dei riferimenti reali che hanno ispirato George R. R. Martin. Sì, diciamolo, non è che la serie (cartacea e audiovisiva) brilli per inventiva, la maggior parte degli eventi, dei personaggi, degli elementi di scena e dei luoghi sono presi pari pari dalla realtà e coperti di fard quel tanto che basta per farli sembrare novità eccezionali. Le “nozze rosse”? Ripassate un po’ che cosa fece un certo Grifonetto Baglioni il 14 luglio 1500… Il “Titano di Braavos”? Andiamo, è il Colosso di Rodi. E poi c’è una città, Qarth, ubicata in Asi… ehm, nel continente di “Essos”.
Questa Qarth, benché giudicata da Martin un puro prodotto di fantasia, senza un corrispettivo storico, ha attirato l’attenzione di molti. La sua posizione geografica, i muri che la circondano, la sua società sofisticata dedita al commercio, tutto insomma fa credere che Qarth sia Costantinopoli con un altro nome. Il nome… lettori, vi dirò, il nome non mi è nuovo. I critici de Il Trono di Spade si sono concentrati sugli elementi più concreti e macroscopici di Qarth, sorvolando proprio sul nome: e se vi dicessi che io so addirittura che cosa significa “Qarth”?
Eh sì, la nostra città si chiama… “Città”! Va bene, lo spelling è diverso, ma ditemi voi se c’è qualche differenza fra “Qarth” e il toponimo “qrt hdšt”, che significa “città nuova”. Non trovate le vocali, vero? E da ciò capite che “qrt hdšt” è un’espressione semitica. Bene, ma le vocali? E se fosse “qurt”? Tranquilli lettori, ve l’assicuro, la vocale è proprio la “a”. “Qart”!
Bene, abbiamo fatto una bella figura davanti agli americani, dimostrando che non sono poi così furbi come credono, e abbiamo risolto un altro piccolo mistero della nostra contemporanea cultura popolare. Sì, però ne abbiamo portato alla luce un altro. Il toponimo “qrt hdšt”… di quale luogo è nome? Lettori, non vi farò penare, avrete subito la risposta che cercate. E state sicuri che vi sorprenderà. Qrt hdšt è una città molto antica, e anche molto nota: è Cartagine. Ma sì, è ovvio, “qrt” è proprio lì, non si nasconde alle nostre orecchie. Il solito caso di qualcosa che non notiamo proprio perché ci sta davanti. Adesso il pensiero sorge spontaneo, lo so: quante cose ancora ignoriamo su Cartagine?
A essere sinceri, per rispondere alla domanda è sufficiente elencare ciò che sappiamo della città: fu fondata dai fenici; era l’acerrima nemica di Roma, con cui si disputava il controllo del Mediterraneo; era la città natale di Annibale; fu distrutta proprio dai romani nel 146 a. C.; oggi nelle sue vicinanze sorge Tunisi. Coloro che hanno letto con attenzione la Bibbia forse sanno pure che i cartaginesi, da bravi idolatri fenici quali erano, veneravano Baal e Astarte, cui offrivano sacrifici umani, anche di bambini. I resti dei sacrificati li gettavano poi nel tophet, la collina sacra ripiena di ossa e di ceneri umane. O qualcosa del genere, almeno.
Insomma, sappiamo poco di Cartagine, dunque ignoriamo molto di essa. E c’è anche un altro problema: non tutto ciò che sappiamo è giusto. Sì, perché ci affidiamo a fonti non proprio neutrali e scientifiche. Pensateci, lettori, gli stessi romani che hanno detestato e distrutto Cartagine ci assicurano di dire tutta la verità su di essa. È un po’ sospetto, non trovate? Però, non c’è da preoccuparsi, perché oggi abbiamo modo di rimediare e di rendere una postuma giustizia ai cartaginesi. Come? Be’, ci basta leggere con un po’ di attenzione Cartagine oltre il mito, un saggio serio e rigoroso su cui non hanno potuto mettere le mani né senatori dell’Urbe desiderosi di orientare l’opinione pubblica, né religiosi preoccupati di mantenere la purezza del culto monoteistico. Sì, di Giovanni Di Stefano, archeologo che ha diretto numerose missioni a Cartagine, possiamo fidarci. E dunque, vediamo un po’ che cosa ha da dirci Cartagine oltre il mito.
Multiculturalismo all’antica
Una città fenicia. È vero, anche perché il “nuova” di “qrt hdšt” deve riferirsi a una città “vecchia”: e quest’ultima è Tiro, che sin dalle scuole elementari associamo proprio ai fenici. Ma sarebbe riduttivo e fuorviante limitarsi a una simile caratterizzazione etnica di Cartagine. No, non era soltanto una un nuovo avamposto del popolo per eccellenza di navigatori…
Cartagine in età tardo geometrica […] può essere stata un emporio internazionale, cosmopolita, con nuclei di famiglie di commercianti greci insediati funzionalmente nella cittadella fenicia, tanto da partecipare, probabilmente, alla fondazione di un santuario.
Se togliessimo i riferimenti geografici e temporali, non saremmo forse indotti a credere che si stia parlando di un insediamento urbano contemporaneo? Anzi, diremmo trattarsi di un modello esemplare di integrazione: ed è curioso che in un tempo così violento e “irrazionale” come l’Età antica, “nuclei di famiglie” non avessero molte difficoltà a diventare membri “funzionali” in una città straniera, pur mantenendo la propria identità culturale. Può darsi che oggigiorno si sia persa, da un lato, la volontà di essere “funzionali”, e dall’altro, la volontà di far “partecipare” chi da straniero entra in una città.
Sì, perché il nostro libro, come ho riportato, ci racconta non di un’amministrazione cartaginese che concede permessi per la costruzione di un santuario, lasciando poi indisturbati ai loro affari i diretti interessati: ci parla di un incontro, di una collaborazione. Presentando in modo particolareggiato i ritrovamenti dei reperti più antichi, cioè vasi, anfore, amuleti e suppellettili sacre, Giovanni Di Stefano chiarisce che:
È possibile ipotizzare un rito di fondazione, avvenuto alla metà del VIII secolo, che precedette ogni attività nel tophet; forse dopo una libagione comune alla quale parteciparono più clan familiari misti, fenici e greci, forse eubolici, fu sacralizzato il luogo con il seppellimento delle suppellettili utilizzate per il banchetto rituale.
Ebbene, una formalità piena di sostanza, perché il banchetto è la semplice registrazione, se così posso dire, di una situazione di fatto: noi lettori dobbiamo porre l’accento non tanto sulla ritualità, ma sulla natura mista, già multiculturale (in questo caso la parola ha pienamente senso) delle famiglie che si impegnarono a rendere un “emporio” qualcosa di più, una comunità vera e propria.
Cartagine oltre il mito ritorna sul tema più volte, pur senza insistenza; però io sono convinta, lettori, che abbiate già capito quali sono le conclusioni. Eh sì, non soltanto è il caso di rimodellare le nostre più basilari nozioni sulla natura di Cartagine, è anche opportuno riconsiderare gli stessi eventi che più spesso riportiamo alla mente quando si parla della città. Direste ancora, a questo punto, che le Guerre puniche abbiano rappresentato uno scontro di civiltà? Non occorre un grande sforzo per immaginare che c’era tanta “grecità” a Cartagine quanta ce n’era a Roma: anzi, è ora molto difficile togliersi dalla testa il pensiero di un mondo non separato in blocchi, bensì interconnesso, una sorta di villaggio globale ante litteram. E può essere a questo punto istruttivo riflettere sul fatto che un villaggio globale, cioè una rete di connessioni culturali e materiali, di per sé non soffoca gli impulsi prevaricatori e bellici insiti nell’animo umano (si tratti di singoli uomini, di città di uomini, di stati uniti di uomini). Sotto questo aspetto, devo dire che l’introduzione di Massimo Cultraro a Cartagine oltre il mito non vende fumo: effettivamente il saggio è un riuscito “tentativo di fornire una serie di riflessioni e possibili chiavi di lettura su una metropoli multiculturale, all’interno di un rigoroso e aggiornato quadro scientifico”.
E le nostre riflessioni non sono finite.
Un mito e nulla più
Vi starete certo domandando: prima questi cartaginesi multiculturali sono tutti animati da spirito di concordia e da voglia di fare, e poi diventano dei maniaci sanguinari? Eh già, perché nel tophet ci sono sia gli oggetti rituali simbolo di un patto di unione, sia le ossa dei bambini offerte senza alcuna vergogna (e senza alcuna ragione) agli idoli della città. Sì, vero? Così dicono, e così ho riportato anch’io in precedenza.
Ebbene, lettori, anche in questo caso è opportuno andare oltre il mito. Se rimaniamo fedeli a un metodo “classico” di indagine, dobbiamo a un certo punto fermarci alle parole di Diodoro Siculo, il primo e l’unico degli storici greci a raccontare del sacrificio di bambini. Ci fermiamo e… e basta, al più se siamo talentuosi possiamo scrivere noi stessi della faccenda, magari intitolando il nostro manoscritto Salammbô. Se invece lasciamo che il nostro metodo si conformi alla “rifondazione materialistica degli studi classici” (l’espressione, citata più volte in Cartagine oltre il mito, è di Andrea Carandini), interroghiamo direttamente le pietre e i cocci, meno loquaci di Diodoro, ma certamente incapaci di mentire. Fortunatamente, qualcuno ha già interrogato per noi questi testimoni, e…
Le più recenti indagini antropologiche attestano [che nel tophet] furono seppelliti individui in età neonatale o prenatale che non avrebbero vissuto abbastanza per essere sacrificati sull’altare di Baal.
Però, che notizia! Sorprende, perché i sacrifici umani sono spesso il primo dettaglio che si ricorda, quando si parla di Cartagine. So che cosa pensate: da un certo punto di vista è un peccato, si tratta di quel genere di eventi sufficientemente terribili e spettacolari, con cui si possono ricamare storie su storie. E infatti Di Stefano, tra le altre opere inventate su Cartagine (che accennano, più o meno, anche ai sacrifici), ricorda anche una serie di kolossal: dal prototipo Cabiria, “sottotitolato”, si direbbe oggi, da Gabriele D’Annunzio, a Cartagine in fiamme con Terence Hill, passando per Scipione l’Africano, in cui la propaganda fascista (i fascisti ovviamente sono da identificarsi con i romani) non è affatto velata.
Avete ragione lettori, l’arte e la fantasia sono indispensabili, una vita senza di esse è una vita vuota. Ma una vita senza la verità è una vita senza amici, perché la verità è la migliore delle amiche, come diceva qualcuno. E nel nostro caso, la verità è questa, i cartaginesi pervertiti che danno alle fiamme i loro stessi figli sono…
[…] un mito alimentato dalla storiografia greca partigiana e rinfocolato dal terribile racconto di Flaubert a favore dei credenti cattolici europei.
Alla luce di tutto questo, sapete dunque che cosa fa l’uomo accorto? Non si priva del piacere di leggere Salammbô, un “capolavoro della letteratura mondiale”, ma si cura di leggere al contempo anche Cartagine oltre il mito.
Cartagine oltre il mito che non si limita a demolire uno dei più tenaci stereotipi della scienza storica dell’uomo medio, sia chiaro. Bene, abbiamo capito che il tophet non conserva le prove di omicidi rituali, ma allora che forma aveva la spiritualità dei cartaginesi? Il nostro libro prova a darcene un’idea in un breve capitolo dedicato alla superstizione. Eh sì, gli scavi hanno riportato alla luce un piccolo cavallo di bronzo, un oggetto usato nella bardatura dei cavalli e di altri animali da soma. Che cos’ha di particolare? Su di esso è inciso (forse) un pentalfa, cioè una stella a cinque punte, la cui funzione è di protezione… dal malocchio! Con le parole inequivocabili, e anche involontariamente divertenti, del nostro autore:
A Cartagine […] si usavano formule magiche per difendere gli equini.
Altro che sacrifici umani! Inoltre, il reperto di cui vi ho parlato ci riporta al tema della multiculturalità di Cartagine. Secoli, infatti, separano il cavallino dai cocci sacri del banchetto di fondazione del santuario: siamo in epoca bizantina, la città ha superato le Guerre puniche, la distruzione e la ricostruzione da parte dei romani. È diventata “Colonia Iulia Concordia Karthago”, ha visto l’Impero romano spaccarsi in due; l’imperatore Teodosio l’ha circondata con imponenti mura difensive (lettori, niente niente Qarth è Cartagine e non Costantinopoli?) temendo un attacco dei Vandali, attacco che effettivamente avverrà e avrà successo. E con tutto ciò, Cartagine non perde la sua anima, sempre aperta al nuovo: l’usanza di proteggere le cavalcature dal malocchio, appunto, è diffusa nell’Impero d’oriente, e non trova affatto ostacoli nella nuova, vecchia Cartagine. Proprio come non trovò ostacoli Demetra, ai tempi in cui Qrt hdšt fronteggiava il senato e il popolo romano.
“Briefing”
Lettori, siamo alla fine. Non dubitate, però: il saggio di Giovanni Di Stefano non manca di trattare i punti della storia di Cartagine che ho volutamente tralasciato in questa recensione. E il modo di trattarli è nettamente scientifico: la cura nella presentazione dei reperti è massima, direi quasi maniacale, a tratti. In verità, sono sincera, Cartagine oltre il mito non si può definire “user friendly”, se con “user friendly” si intende un libro che si piega al suo lettore. No, i suoi brevi capitoli richiedono uno sforzo, perché chi legge le sue pagine non è affatto passivo, non si ritrova seduto intorno a un fuoco immaginario ad ascoltare una storia. Il lettore viene trasportato sul campo, è partecipe di un “briefing” con archeologi che a un certo punto è impossibile non considerare quasi dei colleghi di lunga data. Pure l’imponente bibliografia, distribuita alla fine di ogni capitolo, strizza l’occhio al lettore, da un lato invogliandolo ancora una volta a essere attivo nel dibattito culturale sulla storia di Cartagine, dall’altro avvertendolo che l’azione richiede preparazione, e che non ci si improvvisa esperti in nessuna materia.
No, Cartagine oltre il mito non è affatto un libro semplice, e richiede talmente tanta attenzione, che paradossalmente sfuggiranno allo sguardo alcuni piccoli errori di stampa. Non è un libro per l’uomo qualunque, lo dico senza timori. Ma non temo nemmeno che voi siate lettori qualunque e senza un briciolo di interesse per le sfide intellettuali, altrimenti frequentereste blog che vanno contro corrente come i sacchetti di plastica e blog condannati per atti di libridine violenti. Io so che il mio augurio non cadrà nel vuoto, perché vi verrà voglia di confrontarvi con le pagine di Cartagine oltre il mito: pertanto, fate una buona lettura!
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