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Quelle fiamme di sangue nei Balcani
La Gazzetta del Mezzogiorno di domenica 18 luglio 2021
Andato in pensione dopo anni di giornalismo quale inviato de Il Giornale di Brescia, Valerio Di Donato ha messo a frutto la sua esperienza, soprattutto quella nell’ambito della guerra nei Balcani per scrivere un romanzo Le fiamme dei Balcani...

di DIEGO ZANDEL
Andato in pensione dopo anni di giornalismo quale inviato de Il Giornale di Brescia, Valerio Di Donato ha messo a frutto la sua esperienza, soprattutto quella nell’ambito della guerra nei Balcani per scrivere un romanzo Le fiamme dei Balcani, che racconta una lunga storia di sangue che comincia in Istria, negli anni della seconda guerra mondiale con la tragedia dell’esodo istriano e con la successiva nascita della Repubblica Socialista di Jugoslavia, e finisce negli anni della guerra interetnica che, negli anni Novanta, avrebbe portato alla dissoluzione della stessa guerra, di cui ricorre quest’anno il trentennale del suo inizio (Oltre Edizioni, pag. 284, . 18,00). Al centro della storia due personaggi: l’istriano Antonio Fabris, esule in Italia, e il partigiano comunista Mirko Marinić, al quale si aggiungerà un terzo personaggio, anni dopo: Ivan, il nipote di Antonio Fabris, figlio della sorella, sposata a Marijan Marković, e che, al contrario del fratello, com’è capitato in molte famiglie, era rimasta nel suo paese di origine, in questo caso a Fasana, a nove chilometri da Pola, nel frattempo diventata, come quasi tutta l’Istria, jugoslava. Antonio Fabris, chiamato in famiglia con l’abbreviativo di Tonci, ci ritorna in vacanza per la prima colta con la moglie Amalia nel 1965, per riabbracciare la sorella, il cognato eil nipotino Ivannato nel frattempo, oltre ai pochi amici che sono lì rimasti. Tra questi anche alcuni conoscenti, vecchi partigiani venuti dall’interno della Jugoslavia al tempo della cosiddetta Lotta Popolare, tra cui un certo Stjepan Berčić, che gli fa una rivelazione: «Pensavamo che tu fossi una spia e avevamo l’ordine di ucciderti». Lasciandogli intendere, in qualche modo, che quella condanna fosse ancora in piedi. Naturalmente il povero Antonio Fabris, che pur aveva fatto il partigiano, comincia a temere il peggio, soprattutto dopo aver saputo anche chi era stato deputato ad essere il suo killer: il serbocroato Mirko Marinić, ufficiale dell’Ozna, la polizia politica di Tito. Valerio Di Donato fa il suo racconto andando indietro negli anni della guerra che costrinsero poi Antonio Fabris all’esilio, prima a Trieste, ospite di uno zio prete, per poi trasferirsi a Bolzano. Dall’esilio un salto di anni, altri ritorni di Fabris in famiglia, con il nipote Ivan ormai diventato grande, con il quale troverà affiatamento e che, come gli altri, verrà a conoscenza della condanna a morte dello zio così come del nome dell’uomo che gli ha giurato vendetta, cioè Mirko Marinić. Finché non scoppia la guerra interetnica e il nipote Ivan, ormai cittadino croato, dopo esserlo stato obbligatoriamente jugoslavo, come altri istriani rimasti, parte soldato. Andrà a combattere nella zona di Vukovar dove verrà ferito e, quindi, portato all’ospedale di Karlovac, nel Gorski Kotar, dove, tra le infermiere, conoscerà la bellissima e gentile Mirna, in quel momento amante del capitano medico Goran Kraljević, un uomo sposato che fa sentire alla donna, ingenuamente innamorata di lui, i privilegi del suo potere. Sta di fatto che Ivan, a sua volta, si innamora di lei, e mentre Mirna lo cura, lui, seppur timidamente la corteggia, non senza turbare la ragazza. Poi lei tornerà per un permesso dai genitori a Zagabria dove vive e, nel distacco, avrà una maggiore lucidità nel valutare la sua condizione di amante del capitano, interessato solo al corpo di lei, di fronte all’amore puro che intuisce animare il suo coetaneo Ivan. Un po’ alla volta, tra varie vicende, ritorni sul fronte, partenze, vuoti, sullo sfondo della guerra che continua e della vendetta del capitano medico che si è visto sottrarre la sua amante dal giovane innamorato, nasce il grande amore tra i due giovani. Amore che, ancora in fase di costruzione dello stesso, porterà Ivan a conoscere i genitori di lei, che lo accoglieranno benevolmente. Ed è con loro che Ivan fa una scoperta che lo riporta allo zio Tonci: scopre che la famiglia dell’amata Mirna ha un legame con Mirko Marinić, il killer deciso a uccidere lo zio Antonio Fabris, fermo nel suo proposito nonostante siano trascorsi tanti anni dalla fine della seconda guerra mondiale. Il finale lo lasciamo al lettore. Intanto, amore e guerra, passato e presente, si alternano all’interno di una storia che prende spunto dalle tragedie che hanno attraversato i Balcani, tragedie a cui la intensa storia d’amore di Ivan e di Mirna cercheranno di dare una via di uscita. Il risultato è un romanzo avvincente, molto informato, che sembra far perno su poche figure, ma che in realtà assume in tutta la sua costruzione una dimensione corale, ben rappresentata anche dalla copertina disegnata per il romanzo dal fiumano Riccardo Lenski che ha saputo interpretare le fiamme che sempre hanno agitato quelle terre.


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La Gazzetta del Mezzogiorno - domenica 18 luglio 2021
Andato in pensione dopo anni di giornalismo quale inviato de Il Giornale di Brescia, Valerio Di Donato ha messo a frutto la sua esperienza, soprattutto quella nell’ambito della guerra nei Balcani per scrivere un romanzo Le fiamme dei Balcani...

di DIEGO ZANDEL
Andato in pensione dopo anni di giornalismo quale inviato de Il Giornale di Brescia, Valerio Di Donato ha messo a frutto la sua esperienza, soprattutto quella nell’ambito della guerra nei Balcani per scrivere un romanzo Le fiamme dei Balcani, che racconta una lunga storia di sangue che comincia in Istria, negli anni della seconda guerra mondiale con la tragedia dell’esodo istriano e con la successiva nascita della Repubblica Socialista di Jugoslavia, e finisce negli anni della guerra interetnica che, negli anni Novanta, avrebbe portato alla dissoluzione della stessa guerra, di cui ricorre quest’anno il trentennale del suo inizio (Oltre Edizioni, pag. 284, . 18,00). Al centro della storia due personaggi: l’istriano Antonio Fabris, esule in Italia, e il partigiano comunista Mirko Marinić, al quale si aggiungerà un terzo personaggio, anni dopo: Ivan, il nipote di Antonio Fabris, figlio della sorella, sposata a Marijan Marković, e che, al contrario del fratello, com’è capitato in molte famiglie, era rimasta nel suo paese di origine, in questo caso a Fasana, a nove chilometri da Pola, nel frattempo diventata, come quasi tutta l’Istria, jugoslava. Antonio Fabris, chiamato in famiglia con l’abbreviativo di Tonci, ci ritorna in vacanza per la prima colta con la moglie Amalia nel 1965, per riabbracciare la sorella, il cognato eil nipotino Ivannato nel frattempo, oltre ai pochi amici che sono lì rimasti. Tra questi anche alcuni conoscenti, vecchi partigiani venuti dall’interno della Jugoslavia al tempo della cosiddetta Lotta Popolare, tra cui un certo Stjepan Berčić, che gli fa una rivelazione: «Pensavamo che tu fossi una spia e avevamo l’ordine di ucciderti». Lasciandogli intendere, in qualche modo, che quella condanna fosse ancora in piedi. Naturalmente il povero Antonio Fabris, che pur aveva fatto il partigiano, comincia a temere il peggio, soprattutto dopo aver saputo anche chi era stato deputato ad essere il suo killer: il serbocroato Mirko Marinić, ufficiale dell’Ozna, la polizia politica di Tito. Valerio Di Donato fa il suo racconto andando indietro negli anni della guerra che costrinsero poi Antonio Fabris all’esilio, prima a Trieste, ospite di uno zio prete, per poi trasferirsi a Bolzano. Dall’esilio un salto di anni, altri ritorni di Fabris in famiglia, con il nipote Ivan ormai diventato grande, con il quale troverà affiatamento e che, come gli altri, verrà a conoscenza della condanna a morte dello zio così come del nome dell’uomo che gli ha giurato vendetta, cioè Mirko Marinić. Finché non scoppia la guerra interetnica e il nipote Ivan, ormai cittadino croato, dopo esserlo stato obbligatoriamente jugoslavo, come altri istriani rimasti, parte soldato. Andrà a combattere nella zona di Vukovar dove verrà ferito e, quindi, portato all’ospedale di Karlovac, nel Gorski Kotar, dove, tra le infermiere, conoscerà la bellissima e gentile Mirna, in quel momento amante del capitano medico Goran Kraljević, un uomo sposato che fa sentire alla donna, ingenuamente innamorata di lui, i privilegi del suo potere. Sta di fatto che Ivan, a sua volta, si innamora di lei, e mentre Mirna lo cura, lui, seppur timidamente la corteggia, non senza turbare la ragazza. Poi lei tornerà per un permesso dai genitori a Zagabria dove vive e, nel distacco, avrà una maggiore lucidità nel valutare la sua condizione di amante del capitano, interessato solo al corpo di lei, di fronte all’amore puro che intuisce animare il suo coetaneo Ivan. Un po’ alla volta, tra varie vicende, ritorni sul fronte, partenze, vuoti, sullo sfondo della guerra che continua e della vendetta del capitano medico che si è visto sottrarre la sua amante dal giovane innamorato, nasce il grande amore tra i due giovani. Amore che, ancora in fase di costruzione dello stesso, porterà Ivan a conoscere i genitori di lei, che lo accoglieranno benevolmente. Ed è con loro che Ivan fa una scoperta che lo riporta allo zio Tonci: scopre che la famiglia dell’amata Mirna ha un legame con Mirko Marinić, il killer deciso a uccidere lo zio Antonio Fabris, fermo nel suo proposito nonostante siano trascorsi tanti anni dalla fine della seconda guerra mondiale. Il finale lo lasciamo al lettore. Intanto, amore e guerra, passato e presente, si alternano all’interno di una storia che prende spunto dalle tragedie che hanno attraversato i Balcani, tragedie a cui la intensa storia d’amore di Ivan e di Mirna cercheranno di dare una via di uscita. Il risultato è un romanzo avvincente, molto informato, che sembra far perno su poche figure, ma che in realtà assume in tutta la sua costruzione una dimensione corale, ben rappresentata anche dalla copertina disegnata per il romanzo dal fiumano Riccardo Lenski che ha saputo interpretare le fiamme che sempre hanno agitato quelle terre.


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OGT newspaper
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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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