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CARLO BO, UN SILENZIOSO «MAESTRO DI VERITÀ»
Giornale di Brescia di lunedì 20 settembre 2021
A vent'anni dalla scomparsa, un ricordo del grande letterato a cui è dedicato il bel libro di Vincenzo Gueglio

di cURZIA fERRARI
La casa di Carlo Bo alle spalle della Borsa, piano alto pieno centro di una Milano colma di studi d'artisti, un corridoio tappezzato di libri prima di arrivare al suo studio, dove lui - regolarmente in pantofole, si accomodava alla scrivania indicandovi, di fronte, una poltroncina che dava le spalle a una vetrata.
L'ultima volta che lo vidi eravamo nel mezzo degli anni Ottanta, aveva scritto una benevola introduzione a un mio libro di versi, scambiai qualche parola con Marise Ferro sull'uscio, prima di andar mene. I dialoghi con Bo (scomparso il 21 luglio 2001) erano punteggiati di pause, di sospensioni in cui il filo del discorso non si interrompeva ma rimaneva muto, nell'aria - le stesse che Vincenzo Gueglio avverte nel suo bellissimo libro «Carlo Bo, agonista» Curzia Ferrar! (Garnmarò edizioni, 320 pp.), un'esplorazione in forma dialogica del «maestro di verità» e del suo mondo letterario. È da questo andirivieni di domande e di risposte, mai obbligate a combaciare e spesso intercalate da riflessioni filosofiche o estratti da pagine sapienziali, che sguscia il ritratto del più popolare, e forse per ciò meno interiormente conosciuto, dei letterati nostri contemporanei. Gueglio, colto e raffinato critico, pur nell'ammirazione che nutre per il Maestro, riesce a non compromettersi, spesso rifugiandosi nell'ironia come valenza speculativa del vivere e del pensare. Entrambi scommettono su qualche cosa: Bo nella «continua ricerca del proprio errore», Gueglio nell'ostinazione dello scavatore - e in mezzo c'è lo spirito della parola, il suo I 1) senso e la sua virtù. Come osserva il prefatore Francesco De Nicola, uno dei meriti principali del libro è l'aver spazzato via i luoghi comuni, dal «critico cattolico» al «sacerdote dell'ermetismo» solo in parte calzanti (e specie quest'ultimo, se si pensa all'a p ostolato svolto presso l'Accademia Svedese a vantaggio del Quasimodo di impronta realista, cosiddetto «civile»): il secondo merito è stato lo schiodare Bo dalla cella di studioso della letteratura italiana. Lo spettro dei suoi studi è infatti assai vasto: la sua formazione francese non esclude quella spagnola e nord-americana tanto che fu tra i primi a sottolineare l'importanza di Herningway, recuperato all'indice fascista. Un molto significativo capitolo è dedicato a Vittorini - dove l'inchiesta ci lascia con il presentimento di un qualcosa che la sorpassi.


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Giornale di Brescia - lunedì 20 settembre 2021
A vent'anni dalla scomparsa, un ricordo del grande letterato a cui è dedicato il bel libro di Vincenzo Gueglio

di cURZIA fERRARI
La casa di Carlo Bo alle spalle della Borsa, piano alto pieno centro di una Milano colma di studi d'artisti, un corridoio tappezzato di libri prima di arrivare al suo studio, dove lui - regolarmente in pantofole, si accomodava alla scrivania indicandovi, di fronte, una poltroncina che dava le spalle a una vetrata.
L'ultima volta che lo vidi eravamo nel mezzo degli anni Ottanta, aveva scritto una benevola introduzione a un mio libro di versi, scambiai qualche parola con Marise Ferro sull'uscio, prima di andar mene. I dialoghi con Bo (scomparso il 21 luglio 2001) erano punteggiati di pause, di sospensioni in cui il filo del discorso non si interrompeva ma rimaneva muto, nell'aria - le stesse che Vincenzo Gueglio avverte nel suo bellissimo libro «Carlo Bo, agonista» Curzia Ferrar! (Garnmarò edizioni, 320 pp.), un'esplorazione in forma dialogica del «maestro di verità» e del suo mondo letterario. È da questo andirivieni di domande e di risposte, mai obbligate a combaciare e spesso intercalate da riflessioni filosofiche o estratti da pagine sapienziali, che sguscia il ritratto del più popolare, e forse per ciò meno interiormente conosciuto, dei letterati nostri contemporanei. Gueglio, colto e raffinato critico, pur nell'ammirazione che nutre per il Maestro, riesce a non compromettersi, spesso rifugiandosi nell'ironia come valenza speculativa del vivere e del pensare. Entrambi scommettono su qualche cosa: Bo nella «continua ricerca del proprio errore», Gueglio nell'ostinazione dello scavatore - e in mezzo c'è lo spirito della parola, il suo I 1) senso e la sua virtù. Come osserva il prefatore Francesco De Nicola, uno dei meriti principali del libro è l'aver spazzato via i luoghi comuni, dal «critico cattolico» al «sacerdote dell'ermetismo» solo in parte calzanti (e specie quest'ultimo, se si pensa all'a p ostolato svolto presso l'Accademia Svedese a vantaggio del Quasimodo di impronta realista, cosiddetto «civile»): il secondo merito è stato lo schiodare Bo dalla cella di studioso della letteratura italiana. Lo spettro dei suoi studi è infatti assai vasto: la sua formazione francese non esclude quella spagnola e nord-americana tanto che fu tra i primi a sottolineare l'importanza di Herningway, recuperato all'indice fascista. Un molto significativo capitolo è dedicato a Vittorini - dove l'inchiesta ci lascia con il presentimento di un qualcosa che la sorpassi.


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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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