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Un tetto di radici
Osservatorio balcani e caucaso di martedě 26 ottobre 2021
Č ora in libreria "Un tetto di radici" a firma di Gianna Mazzieri-Sanković e Corinna Gerbaz, un libro che – sottolinea Diego Zandel - rappresenta una pietra miliare critica della letteratura fiumana

di Diego Zandel

Un verso del grande scrittore fiumano “rimasto”, Osvaldo Ramous, dà il titolo al libro, il primo in assoluto, che analizza ampiamente la letteratura esclusivamente fiumana di lingua italiana del dopoguerra, come espresso anche dallo stesso sottotitolo “Lettere italiane: il secondo Novecento a Fiume”, edito dalle edizioni Gammarò.

Il merito va a due autrici molto note al pubblico fiumano. Parliamo di Gianna Mazzieri-Sanković, capodipartimento e docente del Dipartimento di Italianistica dell’Università di Fiume (Rijeka), e Corinna Gerbaz Giuliano, docente della stessa cattedra di letteratura italiana presso lo stesso Dipartimento. Va aggiunto che le due autrici sono state anche cofondatrici dello stesso, conseguendo nel 2012 il Premio della Regione Litoranea-Montana per la sua istituzione e promozione.

Dicevamo che “Un tetto di radici” è il primo testo che affronta in maniera così vasta e organica una materia complessa che vede nella città di Fiume svolgersi sotto gli occhi della storia, dal 1945 in poi, un cambiamento così radicale da sottrarre nel volgere di pochi anni, con l’esodo di gran parte della sua popolazione originaria e la sostituzione di questa con gente proveniente dai paesi limitrofi e anche dai diversi paesi di quella che era la Jugoslavia, le ataviche tradizioni culturali, linguistiche e popolari che la caratterizzavano. Innanzitutto la sua vocazione cosmopolita, favorita dalla sua posizione di frontiera, che conteneva popolazioni diverse, da quella maggioritaria italiana a quelle croata, da quella ungherese, slovena, austriaca, financo greca ed altre, che avevano trovato nell’italiano la loro lingua franca, di uso comune che, al pari dell’asburgica Trieste, veniva usato, in maggioranza, anche nelle lettere come testimoniano le grandi opere di Italo Svevo, Umberto Saba, Scipio Slataper, Gianni Stuparich, Pier Antonio Quarantotti Gambini.

Dopo il 1945 - in ragione soprattutto della volontà del potere monocratico comunista jugoslavo, per un percorso politico che, come scrive Alessandro Vitale nel suo libro “L’unificazione impossibile”, puntava a “scolorire le identità etniche della Jugoslavia, sostituendovi l’omogeneità forzata della classe operaia come padrona dello stato multietnico attraverso il Partito comunista” e una lingua comune che doveva essere il serbo-croato - anche Fiume vide la sua popolazione di lingua italiana diventare minoranza.

Ciò non impedì la permanenza di una cultura e, nello specifico, una letteratura italiana, oltre che per gli autori nati a Fiume prima e dopo la guerra, poi rimasti come Osvaldo Ramous, Ezio Mestrovich, o esuli come Enrico Morovich, Paolo Santarcangeli, Franco Vegliani e, successivamente, anche per l’arrivo e permanenza in città, in ragione della loro adesione all’ideologia comunista, di scrittori provenienti dalla penisola italiana come Giacomo Scotti (da Saviano), Lucifero Martini (da Firenze), Alessandro Damiani (da Sant’andrea Apostolo dello Ionio), Mario Schiavato (da Quinto di Treviso), contribuendo al mantenimento della lingua con opere legate alla città di Fiume. Lo stesso dicasi per gli autori nati e cresciuti nella Fiume del dopoguerra come Laura Marchig.

Ma “Un tetto di radici” ha uno sguardo lungo e prende in esame anche quegli autori nati a Fiume ma partiti esuli ancora imberbi al seguito della famiglia, come Marisa Madieri, che esule a Trieste sposerà il grande Claudio Magris, o il poeta Valentino Zeichen o, addirittura, nati in esilio come Diego Bastianutti o il sottoscritto che coglie l’occasione qui per ringraziare le due autrici per la grande attenzione che è stata posta alla sua opera letteraria, con un’acutezza critica che rivela non solo la loro grande preparazione accademica, ma anche la passione che hanno messo nel loro lavoro e nella materia di non certo facile trattazione che, per gli aspetti controversi della storia, necessitava anche di un equilibrio e sapienza politica di cui hanno dato grande mostra.

Va aggiunto che il libro, seppur concentrato sulla letteratura del secondo dopoguerra, non trascura, prima di addentrarsi in questa, di raccontarne le origini, dal medioevo al neoclassicismo, da romanticismo al risveglio nazionale e, ancora la convenzione/tradizione anteica fiumana e la produzione in vernacolo fino alla letteratura a cavallo tra Otto e Novecento.

Insomma, un libro che – va detto - rappresenta una pietra miliare critica della letteratura fiumana.



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Č ora in libreria "Un tetto di radici" a firma di Gianna Mazzieri-Sanković e Corinna Gerbaz, un libro che – sottolinea Diego Zandel - rappresenta una pietra miliare critica della letteratura fiumana

di Diego Zandel

Un verso del grande scrittore fiumano “rimasto”, Osvaldo Ramous, dà il titolo al libro, il primo in assoluto, che analizza ampiamente la letteratura esclusivamente fiumana di lingua italiana del dopoguerra, come espresso anche dallo stesso sottotitolo “Lettere italiane: il secondo Novecento a Fiume”, edito dalle edizioni Gammarò.

Il merito va a due autrici molto note al pubblico fiumano. Parliamo di Gianna Mazzieri-Sanković, capodipartimento e docente del Dipartimento di Italianistica dell’Università di Fiume (Rijeka), e Corinna Gerbaz Giuliano, docente della stessa cattedra di letteratura italiana presso lo stesso Dipartimento. Va aggiunto che le due autrici sono state anche cofondatrici dello stesso, conseguendo nel 2012 il Premio della Regione Litoranea-Montana per la sua istituzione e promozione.

Dicevamo che “Un tetto di radici” è il primo testo che affronta in maniera così vasta e organica una materia complessa che vede nella città di Fiume svolgersi sotto gli occhi della storia, dal 1945 in poi, un cambiamento così radicale da sottrarre nel volgere di pochi anni, con l’esodo di gran parte della sua popolazione originaria e la sostituzione di questa con gente proveniente dai paesi limitrofi e anche dai diversi paesi di quella che era la Jugoslavia, le ataviche tradizioni culturali, linguistiche e popolari che la caratterizzavano. Innanzitutto la sua vocazione cosmopolita, favorita dalla sua posizione di frontiera, che conteneva popolazioni diverse, da quella maggioritaria italiana a quelle croata, da quella ungherese, slovena, austriaca, financo greca ed altre, che avevano trovato nell’italiano la loro lingua franca, di uso comune che, al pari dell’asburgica Trieste, veniva usato, in maggioranza, anche nelle lettere come testimoniano le grandi opere di Italo Svevo, Umberto Saba, Scipio Slataper, Gianni Stuparich, Pier Antonio Quarantotti Gambini.

Dopo il 1945 - in ragione soprattutto della volontà del potere monocratico comunista jugoslavo, per un percorso politico che, come scrive Alessandro Vitale nel suo libro “L’unificazione impossibile”, puntava a “scolorire le identità etniche della Jugoslavia, sostituendovi l’omogeneità forzata della classe operaia come padrona dello stato multietnico attraverso il Partito comunista” e una lingua comune che doveva essere il serbo-croato - anche Fiume vide la sua popolazione di lingua italiana diventare minoranza.

Ciò non impedì la permanenza di una cultura e, nello specifico, una letteratura italiana, oltre che per gli autori nati a Fiume prima e dopo la guerra, poi rimasti come Osvaldo Ramous, Ezio Mestrovich, o esuli come Enrico Morovich, Paolo Santarcangeli, Franco Vegliani e, successivamente, anche per l’arrivo e permanenza in città, in ragione della loro adesione all’ideologia comunista, di scrittori provenienti dalla penisola italiana come Giacomo Scotti (da Saviano), Lucifero Martini (da Firenze), Alessandro Damiani (da Sant’andrea Apostolo dello Ionio), Mario Schiavato (da Quinto di Treviso), contribuendo al mantenimento della lingua con opere legate alla città di Fiume. Lo stesso dicasi per gli autori nati e cresciuti nella Fiume del dopoguerra come Laura Marchig.

Ma “Un tetto di radici” ha uno sguardo lungo e prende in esame anche quegli autori nati a Fiume ma partiti esuli ancora imberbi al seguito della famiglia, come Marisa Madieri, che esule a Trieste sposerà il grande Claudio Magris, o il poeta Valentino Zeichen o, addirittura, nati in esilio come Diego Bastianutti o il sottoscritto che coglie l’occasione qui per ringraziare le due autrici per la grande attenzione che è stata posta alla sua opera letteraria, con un’acutezza critica che rivela non solo la loro grande preparazione accademica, ma anche la passione che hanno messo nel loro lavoro e nella materia di non certo facile trattazione che, per gli aspetti controversi della storia, necessitava anche di un equilibrio e sapienza politica di cui hanno dato grande mostra.

Va aggiunto che il libro, seppur concentrato sulla letteratura del secondo dopoguerra, non trascura, prima di addentrarsi in questa, di raccontarne le origini, dal medioevo al neoclassicismo, da romanticismo al risveglio nazionale e, ancora la convenzione/tradizione anteica fiumana e la produzione in vernacolo fino alla letteratura a cavallo tra Otto e Novecento.

Insomma, un libro che – va detto - rappresenta una pietra miliare critica della letteratura fiumana.



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OGT newspaper
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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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