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Quando la parola divenne piombo
LA PROVINCIA DI COMO di martedģ 2 novembre 2021
Curzia Ferrari con “L’ossessione delle Brigate rosse” propone un viaggio negli anni bui del Paese La degenerazione del linguaggio ideologico negli anni Settanta come specchio di sentimenti ancora oggi irrisolti

di Vincenzo Guarracino
Ha una storia quanto mai ricca e articolata, Curzia Ferrari, una donna «innamorata della vita» (come si è definita in una lettera «al suo parroco») che può rivendicare per sé l’appellativo coniato dai Romantici milanesi del Conciliatore di “ilichiastica” (“adatta al tempo”). Una storia che viene da lontano e abbraccia ambiti della scrittura molto diversi, dal giornalismo, alla pubblicistica d’arte, alla poesia, alla narrativa, all’antropologia biografica e ora anche alla memorialistica e saggistica politica e sociale, come dimostra la sua fatica più recente - “L’ossessione delle Brigate rosse (1968-1974) - la parabola della propaganda armata”, Gammarò Editore - dedicata alla riflessione su anni cruciali della storia dei “nostri” anni Settanta, destinati a sfociare nei cosiddetti Anni di Piombo, con tutto ciò che possono significare in termini di stragi, di sangue e di instabilità ideologica e politica. Fino all’oggi.
Una riflessione sugli Anni Settanta ed oltre, e sulla progressiva «parabola della propaganda armata» e la degenerazione del dibattito ideologico in lotta armata clandestina, contrassegnata dal proliferare di eventi (attentati, stragi, assalti, rapine ed “espropri proletari”, sequestri) firmati dal nihilismo di sigle criminali (Br, Lotta Continua, Potere Operaio), fino all’oggi del “bellum omnium contra omnes” che si configura ormai come guerra globale, lotta addirittura di civiltà contrapposte, diventata ormai un’“ossessione” di tanti, di tutti, con motivazioni spesso imperscrutabili, da analisi psicoanalitiche, come spiega anche nella prefazione Dario Fertilio. Ecco, il termine “ossessione” del titolo: indica, come si capisce, un sentimento febbrile, profondo e doloroso, perfino immotivato e irrazionale, ma che si fonda su paure e attese che interessano l’individuo (chi scrive) non meno della collettività, e attengono all’ambito profondo, da un lato, delle insicurezze e frustrazioni piccolo-borghesi e dall’altro di deliri messianici e palingenetici irrisolti e irrisolvibili, con l’immagine aleggiante e terrificante di un Nemico senza nome. Nello specifico, la “presenza” delle Br nella nostra vita degli Anni Settanta e Ottanta è letta dall’Autrice come un’“ossessione”, in grado di condizionare i sentimenti di tutti, dell’Autrice, della Società, e degli stessi ideologi e autori dei gesti, protagonisti e comprimari, tra utopie sociali, odio di classe e un’incomprimibile pulsione di morte, una «ossessione autodistruttiva», più forte ancora di quella distruttiva, come la definisce nella postfazione Giorgio De Varda. Mantello d’inchiostro. È in questo terreno che Curzia Ferrari si muove, attingendo a distanza di decenni dai fatti a materiali ed appunti ricevuti e gelosamente custoditi e ora riesumati dal «mantello d’inchiostro sbiadito della mitica Lettera 22» e dalla polvere di cassetti e archivi: per rendere onore alla verità di una cronaca diventata ormai storia e far rivivere oltre la memoria privata e collettiva vicende e personaggi adombrati già anche in un capitolo del romanzo “A fuochi spenti nel buio” (Aragno, 2004), non diversamente da quanto avviene per esempio anche nel carteggio tra Cesare Cavalleri e Arrigo Cavallina (cfr. “Il terrorista e il professore. Lettere dagli Anni di piombo e oltre”) da poco edito da Ares, 2021). «La cronaca mi ha sempre interessato», esordisce nella Nota d’apertura facendoci gettare lo sguardo su un universo proliferante di fatti e di nomi di fosca urgenza nell’immaginario dei nostri “verdi anni” di foscoliana memoria: il «lungo filo rosso» (di passione e sangue) che da “Osvaldo” e da Segrate, giù giù fino ai sequestri di Sossi e Moro tiene insieme un universo senza grandezza, senza eroismo, a dispetto degli slogan dell’epoca. Professionale freddezza Tutto questo con emozione a stento dissimulata dietro una professionale freddezza, a conferma di un abito di fierezza e insieme di ritrosia, come la protagonista Utiglie del romanzo prima citato, “A fuochi spenti nel buio”, cosciente di vivere «col panico delle contraddizioni» che la fanno bella e affascinante.


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LA PROVINCIA DI COMO - martedģ 2 novembre 2021
Curzia Ferrari con “L’ossessione delle Brigate rosse” propone un viaggio negli anni bui del Paese La degenerazione del linguaggio ideologico negli anni Settanta come specchio di sentimenti ancora oggi irrisolti

di Vincenzo Guarracino
Ha una storia quanto mai ricca e articolata, Curzia Ferrari, una donna «innamorata della vita» (come si è definita in una lettera «al suo parroco») che può rivendicare per sé l’appellativo coniato dai Romantici milanesi del Conciliatore di “ilichiastica” (“adatta al tempo”). Una storia che viene da lontano e abbraccia ambiti della scrittura molto diversi, dal giornalismo, alla pubblicistica d’arte, alla poesia, alla narrativa, all’antropologia biografica e ora anche alla memorialistica e saggistica politica e sociale, come dimostra la sua fatica più recente - “L’ossessione delle Brigate rosse (1968-1974) - la parabola della propaganda armata”, Gammarò Editore - dedicata alla riflessione su anni cruciali della storia dei “nostri” anni Settanta, destinati a sfociare nei cosiddetti Anni di Piombo, con tutto ciò che possono significare in termini di stragi, di sangue e di instabilità ideologica e politica. Fino all’oggi.
Una riflessione sugli Anni Settanta ed oltre, e sulla progressiva «parabola della propaganda armata» e la degenerazione del dibattito ideologico in lotta armata clandestina, contrassegnata dal proliferare di eventi (attentati, stragi, assalti, rapine ed “espropri proletari”, sequestri) firmati dal nihilismo di sigle criminali (Br, Lotta Continua, Potere Operaio), fino all’oggi del “bellum omnium contra omnes” che si configura ormai come guerra globale, lotta addirittura di civiltà contrapposte, diventata ormai un’“ossessione” di tanti, di tutti, con motivazioni spesso imperscrutabili, da analisi psicoanalitiche, come spiega anche nella prefazione Dario Fertilio. Ecco, il termine “ossessione” del titolo: indica, come si capisce, un sentimento febbrile, profondo e doloroso, perfino immotivato e irrazionale, ma che si fonda su paure e attese che interessano l’individuo (chi scrive) non meno della collettività, e attengono all’ambito profondo, da un lato, delle insicurezze e frustrazioni piccolo-borghesi e dall’altro di deliri messianici e palingenetici irrisolti e irrisolvibili, con l’immagine aleggiante e terrificante di un Nemico senza nome. Nello specifico, la “presenza” delle Br nella nostra vita degli Anni Settanta e Ottanta è letta dall’Autrice come un’“ossessione”, in grado di condizionare i sentimenti di tutti, dell’Autrice, della Società, e degli stessi ideologi e autori dei gesti, protagonisti e comprimari, tra utopie sociali, odio di classe e un’incomprimibile pulsione di morte, una «ossessione autodistruttiva», più forte ancora di quella distruttiva, come la definisce nella postfazione Giorgio De Varda. Mantello d’inchiostro. È in questo terreno che Curzia Ferrari si muove, attingendo a distanza di decenni dai fatti a materiali ed appunti ricevuti e gelosamente custoditi e ora riesumati dal «mantello d’inchiostro sbiadito della mitica Lettera 22» e dalla polvere di cassetti e archivi: per rendere onore alla verità di una cronaca diventata ormai storia e far rivivere oltre la memoria privata e collettiva vicende e personaggi adombrati già anche in un capitolo del romanzo “A fuochi spenti nel buio” (Aragno, 2004), non diversamente da quanto avviene per esempio anche nel carteggio tra Cesare Cavalleri e Arrigo Cavallina (cfr. “Il terrorista e il professore. Lettere dagli Anni di piombo e oltre”) da poco edito da Ares, 2021). «La cronaca mi ha sempre interessato», esordisce nella Nota d’apertura facendoci gettare lo sguardo su un universo proliferante di fatti e di nomi di fosca urgenza nell’immaginario dei nostri “verdi anni” di foscoliana memoria: il «lungo filo rosso» (di passione e sangue) che da “Osvaldo” e da Segrate, giù giù fino ai sequestri di Sossi e Moro tiene insieme un universo senza grandezza, senza eroismo, a dispetto degli slogan dell’epoca. Professionale freddezza Tutto questo con emozione a stento dissimulata dietro una professionale freddezza, a conferma di un abito di fierezza e insieme di ritrosia, come la protagonista Utiglie del romanzo prima citato, “A fuochi spenti nel buio”, cosciente di vivere «col panico delle contraddizioni» che la fanno bella e affascinante.


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OGT newspaper
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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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