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Ungaretti e il verbo delle immagini
Avvenire di mercoledì 15 dicembre 2021
Un volume di Carla Boroni sul poeta non offre occasionali spunti di studio e di professionali curiosità, bensì di sostanziali "affinità espressive" fra l'arte figurativa e la sua poesia...

di Vincenzo Guarracino

Un poeta, quant’altri mai, assetato della luce, di immagini fondanti, Ungaretti. Da sempre: fin dai primi versi (si pensi a “come un beduino / mi sono chinato a ricevere / il sole”, 1916). fino ai bagliori degli “occhioni” di Dunja dell'estrema febbricitante stagione della sua vita (“occhioni notturni, scrigni di abissi di luce”, 1969). senza contare il celeberrimo “M'illumino / d'immenso”, 1917. Capace di guardare oltre il muro, oltre la “siepe” leopardiana, con l'occhio febbricitante dei mistici.

Forse solo Dante, prima di lui, ha saputo perdersi guardando con altrettanto ardire la luce (“aquila sì non lì s'affisse unquanco”, Par I, 48) e dar voce con altrettanta intensità a questa sua “sete appassionata”. segno di un'urgenza di verità, esistenziale e insieme metafisica, disponendosi e aprendosi al mistero (dell'esistente non meno che dell'infinito, del trascendente), attraverso una parola che mira all'illuminazione, all'essenzialità, a partire dalla “forza geometrica” di immagini “aurorali”, come Ungaretti stesso ammette in un testo fondamentale, Ragioni d'una poesia.

Fiero di tale ardire, per la capacità di concentrazione dello sguardo, sulla natura e i suoi scenari, non meno che sulle immagini iconiche provenienti dal mondo artistico, Ungaretti partecipa dell'ansia di un tempo culturalmente fervido e disponibile verso tutto ciò che reclama uno sguardo nell' “abisso”,  nel “delirante fermento” delle cose, forte di una visionarietà fiduciosa, fortemente onirica e simbolica: un modo, il suo, di guardare e “sentire le cose”, ben oltre la letteratura, in difficile problematico equilibrio tra innocenza e memoria, tale da fare di lui un poeta "religioso”, addirittura tra i poeti “il più religioso, almeno fra i viventi”, secondo Divo Borsoni, che già nel 1961 leggeva nell'avventura poetica ungarettiana l'esemplare, paradigma di ogni uomo, “una via per scoprire anche noi stessi”.

È questo che emerge anche da un libro recentemente pubblicato da Carla Boroni, docente associata alla cattedra di Letteratura Italiana Contemporanea presso l' Univerrstà Cattolica di Brescia, non nuova all'interesse per II Poeta dell'Allegria e di Sentimento del tempo (Dall'Innocenza alla Memoria: Giuseppe Ungaretti, 1992), e che ora con Lo sguardo di Ungaretti (Gammarò edizioni, pagine 200, euro 18) ritorna sull'argomento sviluppando e approfondendo, come recita il sottotitolo, proprio questo aspetto, ossia la "visività e l'influenza dell'arte figurativa nella poesia ungarettiana”, alla ricerca, come più volte si sottolinea, non di occasionali spunti di studio e di professionali curiosità, bensì di sostanziali "affinità espressive", volte cioè alla costruzione di quel grande bagaglio di immagini che alimentano la fantasia e il cuore di ogni poeta e che nel caso specifico ne costituiscono il prezioso deposito, come riconosciuto dall'Autore stesso, per il “potere magico” che un'immagine possiede di “restituire un momento della realtà”. Si tratta di un percorso ermeneutico quanto mai prezioso e necessario, che, sulla scorta anche di una ricca bibliografia sull'argomento, indaga e si sofferma facendo convivere due cose apparentemente contraddittorie, "distacco e partecipazione”, in una maniera che merita di essere approfondita ulteriormente.



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Avvenire - mercoledì 15 dicembre 2021
Un volume di Carla Boroni sul poeta non offre occasionali spunti di studio e di professionali curiosità, bensì di sostanziali "affinità espressive" fra l'arte figurativa e la sua poesia...

di Vincenzo Guarracino

Un poeta, quant’altri mai, assetato della luce, di immagini fondanti, Ungaretti. Da sempre: fin dai primi versi (si pensi a “come un beduino / mi sono chinato a ricevere / il sole”, 1916). fino ai bagliori degli “occhioni” di Dunja dell'estrema febbricitante stagione della sua vita (“occhioni notturni, scrigni di abissi di luce”, 1969). senza contare il celeberrimo “M'illumino / d'immenso”, 1917. Capace di guardare oltre il muro, oltre la “siepe” leopardiana, con l'occhio febbricitante dei mistici.

Forse solo Dante, prima di lui, ha saputo perdersi guardando con altrettanto ardire la luce (“aquila sì non lì s'affisse unquanco”, Par I, 48) e dar voce con altrettanta intensità a questa sua “sete appassionata”. segno di un'urgenza di verità, esistenziale e insieme metafisica, disponendosi e aprendosi al mistero (dell'esistente non meno che dell'infinito, del trascendente), attraverso una parola che mira all'illuminazione, all'essenzialità, a partire dalla “forza geometrica” di immagini “aurorali”, come Ungaretti stesso ammette in un testo fondamentale, Ragioni d'una poesia.

Fiero di tale ardire, per la capacità di concentrazione dello sguardo, sulla natura e i suoi scenari, non meno che sulle immagini iconiche provenienti dal mondo artistico, Ungaretti partecipa dell'ansia di un tempo culturalmente fervido e disponibile verso tutto ciò che reclama uno sguardo nell' “abisso”,  nel “delirante fermento” delle cose, forte di una visionarietà fiduciosa, fortemente onirica e simbolica: un modo, il suo, di guardare e “sentire le cose”, ben oltre la letteratura, in difficile problematico equilibrio tra innocenza e memoria, tale da fare di lui un poeta "religioso”, addirittura tra i poeti “il più religioso, almeno fra i viventi”, secondo Divo Borsoni, che già nel 1961 leggeva nell'avventura poetica ungarettiana l'esemplare, paradigma di ogni uomo, “una via per scoprire anche noi stessi”.

È questo che emerge anche da un libro recentemente pubblicato da Carla Boroni, docente associata alla cattedra di Letteratura Italiana Contemporanea presso l' Univerrstà Cattolica di Brescia, non nuova all'interesse per II Poeta dell'Allegria e di Sentimento del tempo (Dall'Innocenza alla Memoria: Giuseppe Ungaretti, 1992), e che ora con Lo sguardo di Ungaretti (Gammarò edizioni, pagine 200, euro 18) ritorna sull'argomento sviluppando e approfondendo, come recita il sottotitolo, proprio questo aspetto, ossia la "visività e l'influenza dell'arte figurativa nella poesia ungarettiana”, alla ricerca, come più volte si sottolinea, non di occasionali spunti di studio e di professionali curiosità, bensì di sostanziali "affinità espressive", volte cioè alla costruzione di quel grande bagaglio di immagini che alimentano la fantasia e il cuore di ogni poeta e che nel caso specifico ne costituiscono il prezioso deposito, come riconosciuto dall'Autore stesso, per il “potere magico” che un'immagine possiede di “restituire un momento della realtà”. Si tratta di un percorso ermeneutico quanto mai prezioso e necessario, che, sulla scorta anche di una ricca bibliografia sull'argomento, indaga e si sofferma facendo convivere due cose apparentemente contraddittorie, "distacco e partecipazione”, in una maniera che merita di essere approfondita ulteriormente.



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