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«L’ultimo ebreo» di Ivo Scanner
SoloLibri.net di venerdì 24 dicembre 2021
Attenzione: questa recensione è per necessità scorretta storicamente e politicamente, ma descrive un romanzo di storia ucronica alternativa che fantastica sulla vittoria del nazismo nel 1943

di Felice Laudadio

Germania, 1958. Nelle strade campeggiano cartelloni colorati col ritratto a mezzo busto di Adolf Hitler. Le sue foto si affacciano dalle vetrine di tutti i negozi. Nei primi costosi televisori, i telegiornali non fanno che mostrare il fuhrer e farlo parlare. Avete letto bene, i nazisti hanno vinto la Seconda guerra mondiale, nel romanzo L’ultimo ebreo di Ivo Scanner, pubblicato da Oltre Edizioni (febbraio 2021, 338 pagine), nella collana I Gialli Oltre, diretta da un cacciatore di talenti come Diego Zandel.

Scanner, fondatore del movimento neonoir e autore di fantapolitica, propone questa volta un romanzo di genere ucronico: “la storia che non è stata mai, ma che avrebbe potuto essere”.
Sull’ucronia si sofferma Fabio Giovannini nella postfazione. È un gioco intellettuale in cui le vicende si svolgono secondo una sequenza causa-effetto diversa da quella reale. Storia alternativa, storia immaginaria, storia virtuale, controstoria, altra storia, quanto sarebbe potuto accadere se un evento chiave del passato si fosse sviluppato in maniera diversa da come si è svolto. In effetti, nell’immaginazione dello scrittore l’esito del conflitto di metà Novecento è stato opposto alla vittoria alleata sul III Reich e questo cambiamento modifica la serie causale di tutte le vicende successive, cambiando il corso della storia.

Gli scenari ucronici sono infiniti, quanti ne possono concepire gli autori. Quello di Scanner ha visto il successo delle armate naziste. Hitler, Mussolini e gli eserciti europei hanno combattuto a lungo contro la Russia, rimasta sola dopo la pace tra Germania e Stati Uniti. Nel 1943, Mosca è stata colpita da una testata atomica, spinta da un missile progettato dal geniale Werner von Braun. Dopo la sconfitta dell’URSS, Stalin è stato deposto nel 1947 da un colpo di stato ordito da Berija, ma il comunismo non è sopravvissuto al ridimensionamento del territorio sovietico.

Oltre alle gigantografie di Hitler, le strade di Berlino espongono pubblicità contro il fumo. Sotto la sagoma riconoscibile di un israelita, avvolta dalla nuvola biancastra di un sigaro, una scritta a caratteri gotici ammonisce a non imitare gli ebrei, “tanto schiavi del fumo”, slogan che allude a una diceria diffusa sulla sorte ignota degli ebrei. Ma nel Reich è proibito credere a quelle voci, che il regime non conferma.
In una Germania grigio-nera e autoritaria, i leader nazisti sono tutti vivi, vegeti e al potere. Tra gli emergenti, si fa notare la figura da perfetto combattente ariano del maggiore Kurt Konig, comandante dell’Einsatzgrupppe Fanger, composto da fanatici cacciatori di tutti gli ebrei del mondo. Tutti, tanto che in Germania è in atto una campagna d’indagine sui sospetti superstiti, una serie di visite psicofisiche e anagrafiche (si scandagliano in profondità gli alberi genealogici), per individuare l’ultimo degli ebrei in vita.

Konig non si fermerà fino a quando non l’avrà eliminato, identificandolo attraverso la tortura e altri metodi brutali, che il capo del nazismo trova sconvenienti, sul piano della politica internazionale. Non apprezza la pratica di filmare gli interrogatori feroci, che ha indignato l’opinione pubblica in America. In quel Paese si indignano facilmente, sebbene le autorità statunitensi si siano dimostrate zelanti nel consegnare alla Germania fino al più piccolo semita.

A proposito di voci, raccontano che la bellissima moglie tradisse Konig con un circonciso. Pare siano state le SS a informare il maggiore. Due giorni dopo è morta, di morte violenta. Il vedovo conserva un calco in cera della testa della giovane, una riproduzione perfetta, impressionante, anche macabra.

L’ultimo ebreo esiste davvero. È l’io narrante del romanzo. Riesce a fuggire dalla Germania con l’aiuto dei comunisti clandestini, i pochi rimasti. Raggiunge Roma, che scopriamo trasformata dal Duce. L’urbanistica littoria ha continuato a sbancare vecchi quartieri e liberare grandi spazi, per la maggior gloria della capitale e del fascismo. Mussolini è anziano, non ricorre più alla luce sempre accesa nello studio di Palazzo Venezia per mostrarsi infaticabile, ma la mania di grandezza è la stessa.

Sulla via Ardeatina, nei pressi delle catacombe di San Callisto, ha fatto realizzare il più grande parco pubblico di Roma, un prato enorme sopra le cave Ardeatine di pozzolana. Si dice che sotto siano sepolti centinaia di ebrei e di antifascisti, uccisi con un colpo alla nuca. Crolli provocati da esplosioni avrebbero occultato tutto.
Del ghetto ebraico nel centro non è rimasto nulla. I vecchi palazzi sono stati abbattuti, anche la Sinagoga. Al loro posto, un enorme piazzale, Largo dell’amicizia italo-tedesca, dal Tevere alla fontana delle tartarughe, dietro il Teatro Marcello.
Eccidi nascosti e spazi vuoti al posto della storia, una prospettiva terrificante, un vero incubo.



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Attenzione: questa recensione è per necessità scorretta storicamente e politicamente, ma descrive un romanzo di storia ucronica alternativa che fantastica sulla vittoria del nazismo nel 1943

di Felice Laudadio

Germania, 1958. Nelle strade campeggiano cartelloni colorati col ritratto a mezzo busto di Adolf Hitler. Le sue foto si affacciano dalle vetrine di tutti i negozi. Nei primi costosi televisori, i telegiornali non fanno che mostrare il fuhrer e farlo parlare. Avete letto bene, i nazisti hanno vinto la Seconda guerra mondiale, nel romanzo L’ultimo ebreo di Ivo Scanner, pubblicato da Oltre Edizioni (febbraio 2021, 338 pagine), nella collana I Gialli Oltre, diretta da un cacciatore di talenti come Diego Zandel.

Scanner, fondatore del movimento neonoir e autore di fantapolitica, propone questa volta un romanzo di genere ucronico: “la storia che non è stata mai, ma che avrebbe potuto essere”.
Sull’ucronia si sofferma Fabio Giovannini nella postfazione. È un gioco intellettuale in cui le vicende si svolgono secondo una sequenza causa-effetto diversa da quella reale. Storia alternativa, storia immaginaria, storia virtuale, controstoria, altra storia, quanto sarebbe potuto accadere se un evento chiave del passato si fosse sviluppato in maniera diversa da come si è svolto. In effetti, nell’immaginazione dello scrittore l’esito del conflitto di metà Novecento è stato opposto alla vittoria alleata sul III Reich e questo cambiamento modifica la serie causale di tutte le vicende successive, cambiando il corso della storia.

Gli scenari ucronici sono infiniti, quanti ne possono concepire gli autori. Quello di Scanner ha visto il successo delle armate naziste. Hitler, Mussolini e gli eserciti europei hanno combattuto a lungo contro la Russia, rimasta sola dopo la pace tra Germania e Stati Uniti. Nel 1943, Mosca è stata colpita da una testata atomica, spinta da un missile progettato dal geniale Werner von Braun. Dopo la sconfitta dell’URSS, Stalin è stato deposto nel 1947 da un colpo di stato ordito da Berija, ma il comunismo non è sopravvissuto al ridimensionamento del territorio sovietico.

Oltre alle gigantografie di Hitler, le strade di Berlino espongono pubblicità contro il fumo. Sotto la sagoma riconoscibile di un israelita, avvolta dalla nuvola biancastra di un sigaro, una scritta a caratteri gotici ammonisce a non imitare gli ebrei, “tanto schiavi del fumo”, slogan che allude a una diceria diffusa sulla sorte ignota degli ebrei. Ma nel Reich è proibito credere a quelle voci, che il regime non conferma.
In una Germania grigio-nera e autoritaria, i leader nazisti sono tutti vivi, vegeti e al potere. Tra gli emergenti, si fa notare la figura da perfetto combattente ariano del maggiore Kurt Konig, comandante dell’Einsatzgrupppe Fanger, composto da fanatici cacciatori di tutti gli ebrei del mondo. Tutti, tanto che in Germania è in atto una campagna d’indagine sui sospetti superstiti, una serie di visite psicofisiche e anagrafiche (si scandagliano in profondità gli alberi genealogici), per individuare l’ultimo degli ebrei in vita.

Konig non si fermerà fino a quando non l’avrà eliminato, identificandolo attraverso la tortura e altri metodi brutali, che il capo del nazismo trova sconvenienti, sul piano della politica internazionale. Non apprezza la pratica di filmare gli interrogatori feroci, che ha indignato l’opinione pubblica in America. In quel Paese si indignano facilmente, sebbene le autorità statunitensi si siano dimostrate zelanti nel consegnare alla Germania fino al più piccolo semita.

A proposito di voci, raccontano che la bellissima moglie tradisse Konig con un circonciso. Pare siano state le SS a informare il maggiore. Due giorni dopo è morta, di morte violenta. Il vedovo conserva un calco in cera della testa della giovane, una riproduzione perfetta, impressionante, anche macabra.

L’ultimo ebreo esiste davvero. È l’io narrante del romanzo. Riesce a fuggire dalla Germania con l’aiuto dei comunisti clandestini, i pochi rimasti. Raggiunge Roma, che scopriamo trasformata dal Duce. L’urbanistica littoria ha continuato a sbancare vecchi quartieri e liberare grandi spazi, per la maggior gloria della capitale e del fascismo. Mussolini è anziano, non ricorre più alla luce sempre accesa nello studio di Palazzo Venezia per mostrarsi infaticabile, ma la mania di grandezza è la stessa.

Sulla via Ardeatina, nei pressi delle catacombe di San Callisto, ha fatto realizzare il più grande parco pubblico di Roma, un prato enorme sopra le cave Ardeatine di pozzolana. Si dice che sotto siano sepolti centinaia di ebrei e di antifascisti, uccisi con un colpo alla nuca. Crolli provocati da esplosioni avrebbero occultato tutto.
Del ghetto ebraico nel centro non è rimasto nulla. I vecchi palazzi sono stati abbattuti, anche la Sinagoga. Al loro posto, un enorme piazzale, Largo dell’amicizia italo-tedesca, dal Tevere alla fontana delle tartarughe, dietro il Teatro Marcello.
Eccidi nascosti e spazi vuoti al posto della storia, una prospettiva terrificante, un vero incubo.



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OGT newspaper
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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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