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«Tutto ciņ che vidi» su FIUME-STUDI ADRIATICI n. 45
FIUME - Studi adriatici di domenica 9 gennaio 2022
Il volume di Rosanna Turcinovich e Rossana Poletti Tutto ciņ che vidi. Parla Maria Pasquinelli si presenta sin dal titolo come particolarmente significativo e puntualizzante nel senso quasi sacrale del termine. Quel “Parla Maria Pasquinelli …”

di Donatella Schürzel
Il volume di Rosanna Turcinovich e Rossana Poletti Tutto ciò che vidi. Parla Maria Pasquinelli si presenta sin dal titolo come particolarmente significativo e puntualizzante nel senso quasi sacrale del termine. Quel “Parla Maria Pasquinelli …” è di una forza espressiva incredibile, se si pensa chi fu questa donna italiana con la pistola, sconosciuta fino al 1947 e rientrata in un silenzioso oblio sino a qualche anno fa. Le autrici, istriane entrambe, la prima per nascita figlia di rimasti, la seconda per origini figlia di esuli, hanno condiviso la ricerca e ordinato con un lavoro attento ed accurato, ma al tempo stesso rispettoso, i documenti affidati da Maria Pasquinelli a monsignor Antonio Santin, vescovo di Trieste per moltissimi anni e esule egli stesso da Rovigno d’Istria, che li fece conservare in una banca dove sono rimasti fino al 2007, quando la stessa Pasquinelli, ormai molto anziana, diede alla Turcinovich l’autorizzazione a leggerli ed utilizzarli. Ecco dunque commentati i documenti, gli scritti, le relazioni (tutto vidimato da notai e avvocati), di Maria Pasquinelli, la donna che nel 1947 per protesta contro le decisioni degli Stati vincitori della seconda guerra mondiale i quali decisero di assegnare l’Istria e Fiume alla Jugoslavia, uccise con un colpo di pistola il generale inglese Robert De Winton a Pola.
Questo importante lavoro ha avuto un precedente, La giustizia secondo Maria. Pola 1947: la donna che sparò al generale brigadiere Robert W. De Winton (Del Bianco, 2008) della stessa Rosanna Turcinovich che ha avuto la ventura di ricevere nel 2007 l’unica intervista rilasciata nella sua vita da Maria Pasquinelli. La maestra bergamasca, che poco più che trentenne sparò ad un generale del GMA uccidendolo, è stata certamente una donna particolare, difficile da comprendere per questo gesto, se non lo si colloca nell’intera vicenda della sua vita sofferta, insieme con quella di tutta quanta una regione d’Italia, e che, come dice Ezio Giuricin nella sua introduzione, “può trovare una spiegazione solo se contestualizzata, inserita nella complessa temperie storica e politica dell’Istria alla fine del secondo conflitto mondiale” (p. 17).
Il testo costituisce una lettura fondamentale per comprendere il quadro storico generale in cui vissero le genti del confine orientale, dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia tra il 1943 e il 1945. È possibile difatti, compiendo lo stesso percorso delle autrici, ripercorrere con la Pasquinelli la vicenda del 1943, cercando di eliminare deteriori luoghi comuni e di guardare al suo gesto, evidentemente ingiustificabile dal punto di vista etico (definito chiaramente disumano da Ezio Giuricin nella sua introduzione), considerandolo come un preciso «negativo», quasi fotografico, della catastrofica situazione della regione giuliana conclusasi tragicamente con l’esodo, portatore di tanta sofferenza e ingiustizia che ha segnato da allora la vita e l’animo di coloro che l’hanno subito.
Diego Zandel, curatore della collana in cui il testo è stato pubblicato, ne La voce di Fiume scrive: “Questo libro risulta particolarmente prezioso, sicuramente illuminante anche sul piano storico in modo da rendere chiaro e incontrovertibile la grande differenza, ad esempio, tra la Resistenza italiana al nazifascismo, che vedeva la partecipazione paritaria di tutte le forze politiche nel CLN, e la Lotta Popolare jugoslava, dominata esclusivamente dal Partito Comunista Jugoslavo, che puntava più sull’occupazione e annessione dell’intera Venezia Giulia piuttosto che alla sola liberazione, pronti a far fuori chiunque non condividesse l’obiettivo”.
In sintesi la vicenda di Maria Pasquinelli è questa. Nel 1942 la maestra era andata ad insegnare a Spalato con le migliori intenzioni di una vera pedagoga, disponibile nei confronti di tutti e particolarmente dei bisognosi di qualunque provenienza, senza minimamente guardare al credo politico, lei fascista sinceramente e puramente convinta, che dell’assistenza e della dedizione al prossimo aveva già dato prova andando come crocerossina nella Campagna d’Africa. L’11 settembre del 1943 assiste alla resa degli italiani ai partigiani slavi che saccheggiano la città e intanto compiono esecuzioni sommarie. Davanti ai suoi occhi scene di violenza raccapriccianti. Vede uccidere colleghi e dirigenti della scuola e quando arrivano in città i tedeschi, ottiene, pagando, di poter recuperare le salme degli italiani fucilati. Compie diversi viaggi in Italia e a Trieste, dove viene a conoscenza delle foibe istriane e chiede un incontro a Junio Valerio Borghese che le dà il mandato di andare a reperire maggiori informazioni e contatti in Istria. Qui verifica che i partigiani slavi hanno instaurato una strategia del terrore, scatenando in nome del nazionalismo slavo l’odio per gli italiani e assiste a delle atrocità che la segnano profondamente. Il totale senso di adesione e l’attaccamento profondo alla terra d’Istria, l’amor di patria incondizionato e lo spiccatissimo senso di giustizia la portano inevitabilmente verso l’epilogo drammatico, simile a quello delle eroine delle tragedie greche che non possono sfuggire al loro fato, nel giorno della firma del Trattato di pace, il 10 febbraio del 1947. Spara nell’italianissima Pola a Robert De Winton, rappresentante del Governo Alleato.
Come riportano le autrici pure nel titolo stesso del libro, nella mente della Pasquinelli c’era proprio “tutto ciò che vidi e non voglio più vedere. Non voglio più vivere. Oggi sparo e uccido chi consegnerà le chiavi di Pola ai comunisti”. Pola avrebbe dovuto tornare all’Italia. Ma l’obiettivo del dittatore comunista Tito era quello di prendere la città di antica romanità con tutta l’Istria in gran parte italiana. Come ben noto dai documenti oramai desecretati, l’ordine era di eliminare la popolazione italiana per fare posto a gente povera proveniente dall’interno della Croazia e Slovenia, dalla Bosnia, dall’Erzegovina, dal Kosovo invitando a «liberare» quella terra razziando e uccidendo. Chi non morì, scelse la via dell’esilio e a Pola rimasero solo un centinaio di italiani.
La Pasquinelli non fu uccisa come pensava e forse sperava, ma arrestata e processata circa un anno dopo a Trieste. Fu emessa la sentenza di morte, poi commutata nell’ergastolo. Non chiese mai la grazia, ma le fu concessa dal Capo dello stato dopo 18 anni di detenzione. Tornata in libertà, ma privata dei diritti civili, visse sempre in grandissima discrezione, impartendo lezioni private e non parlando mai della sua incredibile e tragica vicenda. Finché nel 2007 concesse la famosa unica intervista a Rosanna Turcinovich che l’aveva ascoltata rapita per ore per capire fino a dove può condurre l’amore patrio e il senso di giustizia disatteso. Poco prima di andarsene, a Bergamo nel 2013, le lasciò un biglietto vergato e firmato da lei con cui l’autorizzava a richiedere al Vescovado di Trieste la consegna del baule che custodiva tutte le interviste che ella stessa aveva effettuato per due anni alle famiglie degli infoibati, le liste con i nomi e cognomi e il luogo della foiba dove erano stati gettati. Quando Turcinovich e Poletti hanno finalmente avuto accesso a tutto quel materiale, hanno potuto constatare che si trattava di dettagliatissime cronache da giornalista di guerra della migliore formazione. Così hanno scoperto quale incredibile e umanamente pietosa ricerca avesse effettuato la Pasquinelli, andando ad indagare nelle vicende di tante povere vittime e delle loro famiglie. La giovane donna con un ardire eccezionale aveva affrontato tedeschi, slavi e italiani, fascisti e comunisti, tutti osservati con lo stesso sguardo indagatore, alla ricerca della verità e di quel poco onore che ancora si poteva rendere a dei martiri: quello di essere italiani che avevano dato la vita per il grande ideale dell’amor di patria. Quello stesso amor di patria che, ben si comprende dalle sue analisi e riflessioni, dai commenti volutamente oggettivi ed equidistanti, animava la stessa Maria ogni giorno della sua vita in quella Istria che per lei era un’amatissima regione d’Italia.
Dal libro emerge quanto la Pasquinelli avesse ben compreso cosa significasse vivere in terre di confine ed essere non sempre esattamente definibili di un’etnia o di un’altra, ma un qualcosa che travalica separazioni tanto nette ed essere perfettamente in grado di coesistere sulla stessa terra. A queste considerazioni pervengono anche le autrici nel momento in cui scrivono: “In tempi recenti, storici croati hanno dichiarato pubblicamente che gli istriani e fiumani italiani non sono altro che croati opportunisti che avevano scelto la lingua e la cultura italiane per essere ammessi nelle stanze del potere”; “Sì, me lo sono sentita dire anch’io in Croazia – dice Turcinovich – che i miei antenati erano croati, come mai allora scrivevano in latino e poi in italiano? E come si spiega che 350 mila abitanti dell’Istria e della Dalmazia, se erano croati, abbiano preferito abbandonare tutto e perfino morire soltanto perché si sentivano italiani?” (p. 324).
È effettivamente molto interessante l’analisi che, attraverso le relazioni, i commenti, la localizzazione di molte foibe con i rilevamenti effettuati e i recuperi di salme, i nomi addirittura riportati in lunghi elenchi attentamente annotati dalla Pasquinelli e fedelmente riprodotti dalle autrici, non ricostruisce solo cronachisticamente fatti e vicende estremamente complesse ed intricate, ma in modo pressoché inoppugnabile la storia. Quanto avevano raccontato per lunghissimi anni soprattutto gli esuli e parte dei rimasti (quando fu loro possibile iniziare a raccontare la verità e le atrocità avvenute in Istria, a Fiume e in Dalmazia dal settembre del 1943 a molti anni dopo, a guerra finita), poi suffragato da molti documenti degli Archivi di Stato finalmente visionabili dagli studiosi dopo cinquant’anni, viene in pieno risalto attraverso la lettura degli essenziali, ma puntuali documenti della Pasquinelli. Tutto viene considerato da questa piccola donna piena di passione politica e civile: il nazismo e il comunismo, gli italiani e gli slavi, il fascismo che quasi trascolora in lei di fronte all’amor patrio, quello di stampo risorgimentale, che certamente costituiva parte degli ideali della Pasquinelli e non quello demagogicamente fatto proprio dal fascismo; e ancora la lotta partigiana, le milizie titine e i battaglioni del CLN italiano, la brigata Osoppo e l’incontro con grandi personaggi del tempo, come Junio Valerio Borghese, che però non dà sufficientemente peso alle parole e richieste della giovane donna. Di ogni località piccola o grande che sia segue le vicende, con particolare attenzione per alcune come Rovigno, per i forti contrasti politici che la caratterizzavano, o Arsia o ovviamente l’italianissima Pola. Le atmosfere cupe, piene di pericolo e drammaticamente tese emergono chiaramente dalle sue righe scritte da ottima giornalista.
Tanta complessità viene ben esplicata dal già citato Ezio Giuricin che sostiene: “in Istria, a Fiume, a Trieste e, in buona parte, in Dalmazia, il fascismo, l’antifascismo, la Resistenza, la lotta di liberazione, la lotta nazionale e quella di classe hanno assunto dei tratti specifici, dinamiche e percorsi diversi da quelli del resto d’Europa” (p. 17). E così fu eliminato chiunque non condividesse i progetti espansionistici di Tito e potesse costituire un ostacolo, vero o presunto, all’affermazione del suo regime. Nel silenzio dell’Italia ufficiale, dell’Europa, degli alleati, quando tutti in realtà sapevano quanto stava avvenendo, gli articoli dei giornali conservati dalla Pasquinelli, accompagnati dalla lista delle testate, con i pezzi e i giorni in cui furono scritti, testimoniano di un silenzio vile e colpevole che la protagonista di quei giorni, nel momento culminante per la sorte della regione giuliana non poté più sopportare e sostenere. Così compì il suo gesto nefasto. Rosanna Turcinovich e Rossana Poletti nel loro alternare le proprie riflessioni e il racconto dei documenti della Pasquinelli si chiedono se l’assassina fosse una pazza. E le conclusioni cui pervengono sono tutt’altro, era “soltanto un’italiana”, come dirà al processo, profondamente delusa dalla sua patria, dal suo esercito, dai suoi politici: per due anni viaggiò tra Milano e Pola cercando di far capire la situazione al confine orientale italiano, come sparivano gli italiani. A nessuno sembrava importare nulla. Gli atti del processo con le testimonianze riportate nell’ultima parte del libro fanno emergere l’integrità morale della Pasquinelli che si macchiò certamente di un crimine gravissimo, ma “non ha voluto colpire un uomo, ma un simbolo. È stata mossa non dalla volontà di compiere un crimine, ma dal desiderio di esprimere, con il suo gesto, un atto di protesta contro un’ingiustizia inferta al suo popolo. È stata guidata da un sentimento profondo, comune, universalmente condiviso: “l’amore per la sua Patria” (p. 24).


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FIUME - Studi adriatici - domenica 9 gennaio 2022
Il volume di Rosanna Turcinovich e Rossana Poletti Tutto ciņ che vidi. Parla Maria Pasquinelli si presenta sin dal titolo come particolarmente significativo e puntualizzante nel senso quasi sacrale del termine. Quel “Parla Maria Pasquinelli …”

di Donatella Schürzel
Il volume di Rosanna Turcinovich e Rossana Poletti Tutto ciò che vidi. Parla Maria Pasquinelli si presenta sin dal titolo come particolarmente significativo e puntualizzante nel senso quasi sacrale del termine. Quel “Parla Maria Pasquinelli …” è di una forza espressiva incredibile, se si pensa chi fu questa donna italiana con la pistola, sconosciuta fino al 1947 e rientrata in un silenzioso oblio sino a qualche anno fa. Le autrici, istriane entrambe, la prima per nascita figlia di rimasti, la seconda per origini figlia di esuli, hanno condiviso la ricerca e ordinato con un lavoro attento ed accurato, ma al tempo stesso rispettoso, i documenti affidati da Maria Pasquinelli a monsignor Antonio Santin, vescovo di Trieste per moltissimi anni e esule egli stesso da Rovigno d’Istria, che li fece conservare in una banca dove sono rimasti fino al 2007, quando la stessa Pasquinelli, ormai molto anziana, diede alla Turcinovich l’autorizzazione a leggerli ed utilizzarli. Ecco dunque commentati i documenti, gli scritti, le relazioni (tutto vidimato da notai e avvocati), di Maria Pasquinelli, la donna che nel 1947 per protesta contro le decisioni degli Stati vincitori della seconda guerra mondiale i quali decisero di assegnare l’Istria e Fiume alla Jugoslavia, uccise con un colpo di pistola il generale inglese Robert De Winton a Pola.
Questo importante lavoro ha avuto un precedente, La giustizia secondo Maria. Pola 1947: la donna che sparò al generale brigadiere Robert W. De Winton (Del Bianco, 2008) della stessa Rosanna Turcinovich che ha avuto la ventura di ricevere nel 2007 l’unica intervista rilasciata nella sua vita da Maria Pasquinelli. La maestra bergamasca, che poco più che trentenne sparò ad un generale del GMA uccidendolo, è stata certamente una donna particolare, difficile da comprendere per questo gesto, se non lo si colloca nell’intera vicenda della sua vita sofferta, insieme con quella di tutta quanta una regione d’Italia, e che, come dice Ezio Giuricin nella sua introduzione, “può trovare una spiegazione solo se contestualizzata, inserita nella complessa temperie storica e politica dell’Istria alla fine del secondo conflitto mondiale” (p. 17).
Il testo costituisce una lettura fondamentale per comprendere il quadro storico generale in cui vissero le genti del confine orientale, dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia tra il 1943 e il 1945. È possibile difatti, compiendo lo stesso percorso delle autrici, ripercorrere con la Pasquinelli la vicenda del 1943, cercando di eliminare deteriori luoghi comuni e di guardare al suo gesto, evidentemente ingiustificabile dal punto di vista etico (definito chiaramente disumano da Ezio Giuricin nella sua introduzione), considerandolo come un preciso «negativo», quasi fotografico, della catastrofica situazione della regione giuliana conclusasi tragicamente con l’esodo, portatore di tanta sofferenza e ingiustizia che ha segnato da allora la vita e l’animo di coloro che l’hanno subito.
Diego Zandel, curatore della collana in cui il testo è stato pubblicato, ne La voce di Fiume scrive: “Questo libro risulta particolarmente prezioso, sicuramente illuminante anche sul piano storico in modo da rendere chiaro e incontrovertibile la grande differenza, ad esempio, tra la Resistenza italiana al nazifascismo, che vedeva la partecipazione paritaria di tutte le forze politiche nel CLN, e la Lotta Popolare jugoslava, dominata esclusivamente dal Partito Comunista Jugoslavo, che puntava più sull’occupazione e annessione dell’intera Venezia Giulia piuttosto che alla sola liberazione, pronti a far fuori chiunque non condividesse l’obiettivo”.
In sintesi la vicenda di Maria Pasquinelli è questa. Nel 1942 la maestra era andata ad insegnare a Spalato con le migliori intenzioni di una vera pedagoga, disponibile nei confronti di tutti e particolarmente dei bisognosi di qualunque provenienza, senza minimamente guardare al credo politico, lei fascista sinceramente e puramente convinta, che dell’assistenza e della dedizione al prossimo aveva già dato prova andando come crocerossina nella Campagna d’Africa. L’11 settembre del 1943 assiste alla resa degli italiani ai partigiani slavi che saccheggiano la città e intanto compiono esecuzioni sommarie. Davanti ai suoi occhi scene di violenza raccapriccianti. Vede uccidere colleghi e dirigenti della scuola e quando arrivano in città i tedeschi, ottiene, pagando, di poter recuperare le salme degli italiani fucilati. Compie diversi viaggi in Italia e a Trieste, dove viene a conoscenza delle foibe istriane e chiede un incontro a Junio Valerio Borghese che le dà il mandato di andare a reperire maggiori informazioni e contatti in Istria. Qui verifica che i partigiani slavi hanno instaurato una strategia del terrore, scatenando in nome del nazionalismo slavo l’odio per gli italiani e assiste a delle atrocità che la segnano profondamente. Il totale senso di adesione e l’attaccamento profondo alla terra d’Istria, l’amor di patria incondizionato e lo spiccatissimo senso di giustizia la portano inevitabilmente verso l’epilogo drammatico, simile a quello delle eroine delle tragedie greche che non possono sfuggire al loro fato, nel giorno della firma del Trattato di pace, il 10 febbraio del 1947. Spara nell’italianissima Pola a Robert De Winton, rappresentante del Governo Alleato.
Come riportano le autrici pure nel titolo stesso del libro, nella mente della Pasquinelli c’era proprio “tutto ciò che vidi e non voglio più vedere. Non voglio più vivere. Oggi sparo e uccido chi consegnerà le chiavi di Pola ai comunisti”. Pola avrebbe dovuto tornare all’Italia. Ma l’obiettivo del dittatore comunista Tito era quello di prendere la città di antica romanità con tutta l’Istria in gran parte italiana. Come ben noto dai documenti oramai desecretati, l’ordine era di eliminare la popolazione italiana per fare posto a gente povera proveniente dall’interno della Croazia e Slovenia, dalla Bosnia, dall’Erzegovina, dal Kosovo invitando a «liberare» quella terra razziando e uccidendo. Chi non morì, scelse la via dell’esilio e a Pola rimasero solo un centinaio di italiani.
La Pasquinelli non fu uccisa come pensava e forse sperava, ma arrestata e processata circa un anno dopo a Trieste. Fu emessa la sentenza di morte, poi commutata nell’ergastolo. Non chiese mai la grazia, ma le fu concessa dal Capo dello stato dopo 18 anni di detenzione. Tornata in libertà, ma privata dei diritti civili, visse sempre in grandissima discrezione, impartendo lezioni private e non parlando mai della sua incredibile e tragica vicenda. Finché nel 2007 concesse la famosa unica intervista a Rosanna Turcinovich che l’aveva ascoltata rapita per ore per capire fino a dove può condurre l’amore patrio e il senso di giustizia disatteso. Poco prima di andarsene, a Bergamo nel 2013, le lasciò un biglietto vergato e firmato da lei con cui l’autorizzava a richiedere al Vescovado di Trieste la consegna del baule che custodiva tutte le interviste che ella stessa aveva effettuato per due anni alle famiglie degli infoibati, le liste con i nomi e cognomi e il luogo della foiba dove erano stati gettati. Quando Turcinovich e Poletti hanno finalmente avuto accesso a tutto quel materiale, hanno potuto constatare che si trattava di dettagliatissime cronache da giornalista di guerra della migliore formazione. Così hanno scoperto quale incredibile e umanamente pietosa ricerca avesse effettuato la Pasquinelli, andando ad indagare nelle vicende di tante povere vittime e delle loro famiglie. La giovane donna con un ardire eccezionale aveva affrontato tedeschi, slavi e italiani, fascisti e comunisti, tutti osservati con lo stesso sguardo indagatore, alla ricerca della verità e di quel poco onore che ancora si poteva rendere a dei martiri: quello di essere italiani che avevano dato la vita per il grande ideale dell’amor di patria. Quello stesso amor di patria che, ben si comprende dalle sue analisi e riflessioni, dai commenti volutamente oggettivi ed equidistanti, animava la stessa Maria ogni giorno della sua vita in quella Istria che per lei era un’amatissima regione d’Italia.
Dal libro emerge quanto la Pasquinelli avesse ben compreso cosa significasse vivere in terre di confine ed essere non sempre esattamente definibili di un’etnia o di un’altra, ma un qualcosa che travalica separazioni tanto nette ed essere perfettamente in grado di coesistere sulla stessa terra. A queste considerazioni pervengono anche le autrici nel momento in cui scrivono: “In tempi recenti, storici croati hanno dichiarato pubblicamente che gli istriani e fiumani italiani non sono altro che croati opportunisti che avevano scelto la lingua e la cultura italiane per essere ammessi nelle stanze del potere”; “Sì, me lo sono sentita dire anch’io in Croazia – dice Turcinovich – che i miei antenati erano croati, come mai allora scrivevano in latino e poi in italiano? E come si spiega che 350 mila abitanti dell’Istria e della Dalmazia, se erano croati, abbiano preferito abbandonare tutto e perfino morire soltanto perché si sentivano italiani?” (p. 324).
È effettivamente molto interessante l’analisi che, attraverso le relazioni, i commenti, la localizzazione di molte foibe con i rilevamenti effettuati e i recuperi di salme, i nomi addirittura riportati in lunghi elenchi attentamente annotati dalla Pasquinelli e fedelmente riprodotti dalle autrici, non ricostruisce solo cronachisticamente fatti e vicende estremamente complesse ed intricate, ma in modo pressoché inoppugnabile la storia. Quanto avevano raccontato per lunghissimi anni soprattutto gli esuli e parte dei rimasti (quando fu loro possibile iniziare a raccontare la verità e le atrocità avvenute in Istria, a Fiume e in Dalmazia dal settembre del 1943 a molti anni dopo, a guerra finita), poi suffragato da molti documenti degli Archivi di Stato finalmente visionabili dagli studiosi dopo cinquant’anni, viene in pieno risalto attraverso la lettura degli essenziali, ma puntuali documenti della Pasquinelli. Tutto viene considerato da questa piccola donna piena di passione politica e civile: il nazismo e il comunismo, gli italiani e gli slavi, il fascismo che quasi trascolora in lei di fronte all’amor patrio, quello di stampo risorgimentale, che certamente costituiva parte degli ideali della Pasquinelli e non quello demagogicamente fatto proprio dal fascismo; e ancora la lotta partigiana, le milizie titine e i battaglioni del CLN italiano, la brigata Osoppo e l’incontro con grandi personaggi del tempo, come Junio Valerio Borghese, che però non dà sufficientemente peso alle parole e richieste della giovane donna. Di ogni località piccola o grande che sia segue le vicende, con particolare attenzione per alcune come Rovigno, per i forti contrasti politici che la caratterizzavano, o Arsia o ovviamente l’italianissima Pola. Le atmosfere cupe, piene di pericolo e drammaticamente tese emergono chiaramente dalle sue righe scritte da ottima giornalista.
Tanta complessità viene ben esplicata dal già citato Ezio Giuricin che sostiene: “in Istria, a Fiume, a Trieste e, in buona parte, in Dalmazia, il fascismo, l’antifascismo, la Resistenza, la lotta di liberazione, la lotta nazionale e quella di classe hanno assunto dei tratti specifici, dinamiche e percorsi diversi da quelli del resto d’Europa” (p. 17). E così fu eliminato chiunque non condividesse i progetti espansionistici di Tito e potesse costituire un ostacolo, vero o presunto, all’affermazione del suo regime. Nel silenzio dell’Italia ufficiale, dell’Europa, degli alleati, quando tutti in realtà sapevano quanto stava avvenendo, gli articoli dei giornali conservati dalla Pasquinelli, accompagnati dalla lista delle testate, con i pezzi e i giorni in cui furono scritti, testimoniano di un silenzio vile e colpevole che la protagonista di quei giorni, nel momento culminante per la sorte della regione giuliana non poté più sopportare e sostenere. Così compì il suo gesto nefasto. Rosanna Turcinovich e Rossana Poletti nel loro alternare le proprie riflessioni e il racconto dei documenti della Pasquinelli si chiedono se l’assassina fosse una pazza. E le conclusioni cui pervengono sono tutt’altro, era “soltanto un’italiana”, come dirà al processo, profondamente delusa dalla sua patria, dal suo esercito, dai suoi politici: per due anni viaggiò tra Milano e Pola cercando di far capire la situazione al confine orientale italiano, come sparivano gli italiani. A nessuno sembrava importare nulla. Gli atti del processo con le testimonianze riportate nell’ultima parte del libro fanno emergere l’integrità morale della Pasquinelli che si macchiò certamente di un crimine gravissimo, ma “non ha voluto colpire un uomo, ma un simbolo. È stata mossa non dalla volontà di compiere un crimine, ma dal desiderio di esprimere, con il suo gesto, un atto di protesta contro un’ingiustizia inferta al suo popolo. È stata guidata da un sentimento profondo, comune, universalmente condiviso: “l’amore per la sua Patria” (p. 24).


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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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