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Un olocausto italiano. Voci di soldati italiani nei lager
L'ottavo di giovedì 3 febbraio 2022
IMI. Dietro questa sigla, neutra e fredda, c’è il mondo degli internati militari italiani. La burocrazia ossessiva e cieca portò i tedeschi a definire in tal modo i soldati e gli ufficiali italiani, prima rastrellati e poi deportati (perché di deportazione si trattò) in Germania, subito dopo l’8 settembre 1943, data della firma dell’armistizio. Quasi una macabra ironia della storia se si pensa che, all’inizio, furono dichiarati prigionieri di guerra. Fu Hitler stesso a intervenire e per evitare che in quanto tali venissero riconosciute le tutele della Convenzione di Ginevra, fece cambiare il loro status. E quella di internati militari divenne la cornice normativa con cui si chiudeva a questi soldati ogni possibile tutela

di Geraldine Meyer

IMI. Dietro questa sigla, neutra e fredda, c’è il mondo degli internati militari italiani. La burocrazia ossessiva e cieca portò i tedeschi a definire in tal modo i soldati e gli ufficiali italiani, prima rastrellati e poi deportati (perché di deportazione si trattò) in Germania, subito dopo l’8 settembre 1943, data della firma dell’armistizio. Quasi una macabra ironia della storia se si pensa che, all’inizio, furono dichiarati prigionieri di guerra. Fu Hitler stesso a intervenire e per evitare che in quanto tali venissero riconosciute le tutele della Convenzione di Ginevra, fece cambiare il loro status. E quella di internati militari divenne la cornice normativa con cui si chiudeva a questi soldati ogni possibile tutela.

Stiamo parlando di circa 600 mila uomini che rifiutarono, dopo l’armistizio, di combattere per la Repubblica Sociale Italiana e per l’esercito tedesco. Questa scelta fu ciò davanti a cui si trovarono questi militari. Una storia che è quella di un limbo giuridico in cui vennero a trovarsi soldati e ufficiali, doppiamente colpiti e abbandonati. Abbandonati dal loro paese a cui avevano dato gli anni migliori della loro vita e considerati traditori dai tedeschi.

Una storia di internamento nei campi di concentramento e sterminio ma anche una storia di resistenza estrema se si pensa che circa il 70% degli ufficiali e il 78% dei soldati internati si rifiutò di prestare giuramento alla RSI divenendo, di fatto, in molti casi, manodopera sfruttabile, almeno nelle intenzioni dei tedeschi.

Un olocausto italiano, curato da Paolo Paganetto, ricostruisce attraverso testimonianze e racconti, quella che fu una vera e propria tragedia nella tragedia. Quella di luoghi di orrore come Mauthausen o Dachau, e quella di uomini in divisa che si trovarono a perdere quei riferimenti ideali per cui avevano combattuto. E qui è necessaria una sorta di sospensione del giudizio per leggere queste pagine per ciò che rappresentano: la testimonianza di un abbandono esistenziale e storico.

Forse la parola olocausto a qualcuno potrebbe risultare stridente. Ma non lo è alla luce di quanto riportato in questo libro. Che non solo racconta di condizioni disumane di prigionia ma, ancor più, parla di un disfarsi di quelle coordinate difficili da comprendere per noi che non sappiamo cosa significhi indossare una divisa.

Racconti, poesie, disegni che ci conducono all’interno di qualcosa che (lo si comprende leggendo) è legittimo definire olocausto. Fame, freddo, morte, arbitrio e violenza a cui si aggiunge il senso di disorientamento di chi si trova, all’improvviso, dalla parte sbagliata degli accordi geopolitici e di guerra.

Un olocausto italiano è davvero il racconto corale della tragedia dei soldati che rifiutarono, quando davvero divenne difficile farlo, “ogni connivenza con il fascismo” visto, a quel punto, come non solo criminale ma, ancor più, come il peggiore tradimento alla patria.

Un libro che va letto contestualizzando la storia e le vicende geopolitiche di quegli anni per permettere di avvertirne la complessità e le conseguenze. Come scrive Armando Borrelli nell’inquadramento storico a prefazione del libro: “La responsabilità specifica dello sfacelo può essere determinata e fatta ricadere su pochi uomini: il compito di questa indagine spetta alla storia.”

E compito di questo libro è restituire la voce di quegli uomini, soldati, internati, che viveva il dissidio psicologico di sapere di un’Italia che non poteva e non voleva difenderli, ma che loro continuavano a sentire come un’entità a cui restare fedeli.



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IMI. Dietro questa sigla, neutra e fredda, c’è il mondo degli internati militari italiani. La burocrazia ossessiva e cieca portò i tedeschi a definire in tal modo i soldati e gli ufficiali italiani, prima rastrellati e poi deportati (perché di deportazione si trattò) in Germania, subito dopo l’8 settembre 1943, data della firma dell’armistizio. Quasi una macabra ironia della storia se si pensa che, all’inizio, furono dichiarati prigionieri di guerra. Fu Hitler stesso a intervenire e per evitare che in quanto tali venissero riconosciute le tutele della Convenzione di Ginevra, fece cambiare il loro status. E quella di internati militari divenne la cornice normativa con cui si chiudeva a questi soldati ogni possibile tutela

di Geraldine Meyer

IMI. Dietro questa sigla, neutra e fredda, c’è il mondo degli internati militari italiani. La burocrazia ossessiva e cieca portò i tedeschi a definire in tal modo i soldati e gli ufficiali italiani, prima rastrellati e poi deportati (perché di deportazione si trattò) in Germania, subito dopo l’8 settembre 1943, data della firma dell’armistizio. Quasi una macabra ironia della storia se si pensa che, all’inizio, furono dichiarati prigionieri di guerra. Fu Hitler stesso a intervenire e per evitare che in quanto tali venissero riconosciute le tutele della Convenzione di Ginevra, fece cambiare il loro status. E quella di internati militari divenne la cornice normativa con cui si chiudeva a questi soldati ogni possibile tutela.

Stiamo parlando di circa 600 mila uomini che rifiutarono, dopo l’armistizio, di combattere per la Repubblica Sociale Italiana e per l’esercito tedesco. Questa scelta fu ciò davanti a cui si trovarono questi militari. Una storia che è quella di un limbo giuridico in cui vennero a trovarsi soldati e ufficiali, doppiamente colpiti e abbandonati. Abbandonati dal loro paese a cui avevano dato gli anni migliori della loro vita e considerati traditori dai tedeschi.

Una storia di internamento nei campi di concentramento e sterminio ma anche una storia di resistenza estrema se si pensa che circa il 70% degli ufficiali e il 78% dei soldati internati si rifiutò di prestare giuramento alla RSI divenendo, di fatto, in molti casi, manodopera sfruttabile, almeno nelle intenzioni dei tedeschi.

Un olocausto italiano, curato da Paolo Paganetto, ricostruisce attraverso testimonianze e racconti, quella che fu una vera e propria tragedia nella tragedia. Quella di luoghi di orrore come Mauthausen o Dachau, e quella di uomini in divisa che si trovarono a perdere quei riferimenti ideali per cui avevano combattuto. E qui è necessaria una sorta di sospensione del giudizio per leggere queste pagine per ciò che rappresentano: la testimonianza di un abbandono esistenziale e storico.

Forse la parola olocausto a qualcuno potrebbe risultare stridente. Ma non lo è alla luce di quanto riportato in questo libro. Che non solo racconta di condizioni disumane di prigionia ma, ancor più, parla di un disfarsi di quelle coordinate difficili da comprendere per noi che non sappiamo cosa significhi indossare una divisa.

Racconti, poesie, disegni che ci conducono all’interno di qualcosa che (lo si comprende leggendo) è legittimo definire olocausto. Fame, freddo, morte, arbitrio e violenza a cui si aggiunge il senso di disorientamento di chi si trova, all’improvviso, dalla parte sbagliata degli accordi geopolitici e di guerra.

Un olocausto italiano è davvero il racconto corale della tragedia dei soldati che rifiutarono, quando davvero divenne difficile farlo, “ogni connivenza con il fascismo” visto, a quel punto, come non solo criminale ma, ancor più, come il peggiore tradimento alla patria.

Un libro che va letto contestualizzando la storia e le vicende geopolitiche di quegli anni per permettere di avvertirne la complessità e le conseguenze. Come scrive Armando Borrelli nell’inquadramento storico a prefazione del libro: “La responsabilità specifica dello sfacelo può essere determinata e fatta ricadere su pochi uomini: il compito di questa indagine spetta alla storia.”

E compito di questo libro è restituire la voce di quegli uomini, soldati, internati, che viveva il dissidio psicologico di sapere di un’Italia che non poteva e non voleva difenderli, ma che loro continuavano a sentire come un’entità a cui restare fedeli.



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OGT newspaper
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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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