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Storia di Azadeh e di tutti i profughi
FinazAlternativa di lunedě 21 febbraio 2022
Il tema della potestŕ territoriale sul Nagorno-Karabakh, regione geografica senza sbocco sul mare, situata nel Caucaso meridionale e di fatto appartenente geograficamente all’Altopiano armeno, č contesa tra l’Armenia e l’Azerbaigian...

di Giambattista Pepi
Il tema della potestà territoriale sul Nagorno-Karabakh, regione geografica senza sbocco sul mare, situata nel Caucaso meridionale e di fatto appartenente geograficamente all’Altopiano armeno, è contesa tra l’Armenia e l’Azerbaigian e ha dato origine a un conflitto armato scoppiato il 30 gennaio 1992 e durato fino al 1994, quando gli stati belligeranti firmarono l’accordo di Biskek. L’accordo, più volte violato da entrambe le parti, impose un cessate il fuoco, senza portare, però, ad una risoluzione effettiva della controversia, lasciando la regione sotto il controllo armeno. Tanto vero che il conflitto riesplose per pochi giorni nel 2016 e, più recentemente, il 27 settembre 2020 per concludersi il 20 novembre con la firma di un altro cessate il fuoco tra armeni e azeri grazie alla mediazione del presidente della Federazione russa, Vladimir Putin che ha portato allo scambio dei prigionieri e dei caduti.  La storia del Nagorno-Karabakh – l’antica provincia armena di Artsakh – attraversa due millenni, nei quali è passato sotto il controllo di diversi imperi. Nasce dagli eventi verificatisi dopo la Prima guerra mondiale; poco prima della fine dell’Impero ottomano, poi quando l’Impero russo collassò nel 1917 passò sotto il controllo dei bolscevichi. Il disfacimento dell’Unione Sovietica durante la presidenza di Michail Gorbacev, portò la maggioranza armena di questa regione, riconosciuta internazionalmente come parte dell’Azerbaigian a proclamare la repubblica autonoma dell’Artsakh. Questa circostanza è stata all’origine delle ostilità tra armeni e azeri che, presumibilmente, è destinata a durare ancora. Ora le armi tacciono, ma il fuoco cova sotto le ceneri, pronto a divampare e a causare lutti e distruzioni e a lasciare gli esuli di questa terra martoriata sospesi in un limbo perpetuo.  Questa guerra che ha incendiato il Caucaso e i suoi esuli, sono, rispettivamente, lo sfondo e i protagonisti del libro Storia di Azadeh (Oltre Edizioni, 362 pagine, 19,90 euro) di Sabina Nurakhmedova.

La brava scrittrice azera, in questo romanzo appassionato, racconta con grande equilibrio questo conflitto, denunciando nell’assurdità di una guerra, quella tra l’Azerbaigian e l’Armenia, l’assurdità di tutte le guerre per le conseguenze che provocano nei destini di moltissime persone, come lei, costretti a lasciare il proprio Paese, la propria casa, la propria famiglia e trovare rifugio in una terra straniera, ignota e ostile.

In questa opera, l’autrice (nata a Baku, laureata nella facoltà di geografia dell’Università nazionale kazaka Al-Farabi, ha lavorato nell’ambasciata italiana  di Astana, oggi Nur-Sultan per oltre un decennio, mentre oggi vive in Italia, è sposata ed ha due figli), svela lo stato d’animo dei profughi, i loro sentimenti, i loro bisogni, le loro speranze vissuti all’interno di una situazione eccezionale nell’attesa “che il pericolo in patria cessi e che presto potrà esserci un ritorno, una ritrovata normalità”. Ma “passano i giorni, che si accumulano in mesi e poi in anni che, con la loro imperterrita indifferenza alle vicende umane, fanno sedimentare tutto, smorzano desideri ed entusiasmi e anestetizzano dolori e rancori”. Quel trascorrere del tempo che “inevitabilmente finisce per far sentire” gli esuli “cittadini in terra straniera e stranieri in patria, che ammanta tutto della polvere delle cose vecchie, datate, delle quali è fin disdicevole parlare, il passato da relegare negli angoli della memoria, celato e da raccontare malvolentieri, persino ai propri figli e nipoti”.

Un libro che può condurre solo a una conclusione amara che, repetita juvant (le cose ripetute aiutano?) l’inutilità di questa guerra, come di tutte le guerre, ovunque e in qualunque epoca combattute. Capaci solo di portare dolore, morte e distruzioni e infliggere sofferenze e procurare patimenti a milioni di persone innocenti sradicate dalle terre d’origine e catapultate in un purgatorio senza fine.



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Il tema della potestŕ territoriale sul Nagorno-Karabakh, regione geografica senza sbocco sul mare, situata nel Caucaso meridionale e di fatto appartenente geograficamente all’Altopiano armeno, č contesa tra l’Armenia e l’Azerbaigian...

di Giambattista Pepi
Il tema della potestà territoriale sul Nagorno-Karabakh, regione geografica senza sbocco sul mare, situata nel Caucaso meridionale e di fatto appartenente geograficamente all’Altopiano armeno, è contesa tra l’Armenia e l’Azerbaigian e ha dato origine a un conflitto armato scoppiato il 30 gennaio 1992 e durato fino al 1994, quando gli stati belligeranti firmarono l’accordo di Biskek. L’accordo, più volte violato da entrambe le parti, impose un cessate il fuoco, senza portare, però, ad una risoluzione effettiva della controversia, lasciando la regione sotto il controllo armeno. Tanto vero che il conflitto riesplose per pochi giorni nel 2016 e, più recentemente, il 27 settembre 2020 per concludersi il 20 novembre con la firma di un altro cessate il fuoco tra armeni e azeri grazie alla mediazione del presidente della Federazione russa, Vladimir Putin che ha portato allo scambio dei prigionieri e dei caduti.  La storia del Nagorno-Karabakh – l’antica provincia armena di Artsakh – attraversa due millenni, nei quali è passato sotto il controllo di diversi imperi. Nasce dagli eventi verificatisi dopo la Prima guerra mondiale; poco prima della fine dell’Impero ottomano, poi quando l’Impero russo collassò nel 1917 passò sotto il controllo dei bolscevichi. Il disfacimento dell’Unione Sovietica durante la presidenza di Michail Gorbacev, portò la maggioranza armena di questa regione, riconosciuta internazionalmente come parte dell’Azerbaigian a proclamare la repubblica autonoma dell’Artsakh. Questa circostanza è stata all’origine delle ostilità tra armeni e azeri che, presumibilmente, è destinata a durare ancora. Ora le armi tacciono, ma il fuoco cova sotto le ceneri, pronto a divampare e a causare lutti e distruzioni e a lasciare gli esuli di questa terra martoriata sospesi in un limbo perpetuo.  Questa guerra che ha incendiato il Caucaso e i suoi esuli, sono, rispettivamente, lo sfondo e i protagonisti del libro Storia di Azadeh (Oltre Edizioni, 362 pagine, 19,90 euro) di Sabina Nurakhmedova.

La brava scrittrice azera, in questo romanzo appassionato, racconta con grande equilibrio questo conflitto, denunciando nell’assurdità di una guerra, quella tra l’Azerbaigian e l’Armenia, l’assurdità di tutte le guerre per le conseguenze che provocano nei destini di moltissime persone, come lei, costretti a lasciare il proprio Paese, la propria casa, la propria famiglia e trovare rifugio in una terra straniera, ignota e ostile.

In questa opera, l’autrice (nata a Baku, laureata nella facoltà di geografia dell’Università nazionale kazaka Al-Farabi, ha lavorato nell’ambasciata italiana  di Astana, oggi Nur-Sultan per oltre un decennio, mentre oggi vive in Italia, è sposata ed ha due figli), svela lo stato d’animo dei profughi, i loro sentimenti, i loro bisogni, le loro speranze vissuti all’interno di una situazione eccezionale nell’attesa “che il pericolo in patria cessi e che presto potrà esserci un ritorno, una ritrovata normalità”. Ma “passano i giorni, che si accumulano in mesi e poi in anni che, con la loro imperterrita indifferenza alle vicende umane, fanno sedimentare tutto, smorzano desideri ed entusiasmi e anestetizzano dolori e rancori”. Quel trascorrere del tempo che “inevitabilmente finisce per far sentire” gli esuli “cittadini in terra straniera e stranieri in patria, che ammanta tutto della polvere delle cose vecchie, datate, delle quali è fin disdicevole parlare, il passato da relegare negli angoli della memoria, celato e da raccontare malvolentieri, persino ai propri figli e nipoti”.

Un libro che può condurre solo a una conclusione amara che, repetita juvant (le cose ripetute aiutano?) l’inutilità di questa guerra, come di tutte le guerre, ovunque e in qualunque epoca combattute. Capaci solo di portare dolore, morte e distruzioni e infliggere sofferenze e procurare patimenti a milioni di persone innocenti sradicate dalle terre d’origine e catapultate in un purgatorio senza fine.



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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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