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La “pulizia etnica” compiuta dai partigiani comunisti titini contro gli italiani
Barbadillo di mercoledě 2 marzo 2022
Le edizioni Pagine, Gammarň e Oltre pubblicano testi di Menia, Turcinovich e Galli sui crimini di guerra e i crimini comuni degli jugoslavi nell'ultimo conflitto mondiale

di Manlio Triggiani

Il giorno del Ricordo è stato istituito per legge per non dimenticare le vittime dei tragici crimini compiuti nell’ultima guerra mondiale dai partigiani comunisti jugoslavi in Istria, Dalmazia, Carnaro con lo sterminio e la “pulizia etnica” di italiani. Un Olocausto che causò trentamila morti. Un crimine contro l’umanità che spinse oltre 300mila italiani ad abbandonare le proprie case e le proprie terre per scampare all’operazione di pulizia etnica che i comunisti, per volere del dittatore Tito, stavano compiendo. Operazione appoggiata anche dal Pci: così molti comunisti italiani collaborarono con i comunisti titini contro gli italiani.
Ogni anno arrivano in libreria opere sulle stragi al confine orientale e da qualche tempo anche libri negazionisti. Da poco sono usciti due volumi di testimonianze che da sole confutano le false ipotesi dei negazionisti. A parte l’ormai classico libro 10 Febbraio dalle foibe all’esodo, di Roberto Menia, studioso di quel periodo storico e delle foibe, che ha raccolto le storie di tante famiglie dalmate, istriane, triestine, narrando la sequela di torture, violenze, supplizi (gli italiani venivano gettati vivi nelle foibe, cavità carsiche della zona). Stragi che durarono fino al 1947. Seguì l’esodo: gli italiani superstiti infatti furono costretti a scegliere se divenire jugoslavi e restare in quelle terre o rimanere italiani ma andare via: quasi tutti scelsero l’esodo. Poi, il 10 febbraio del 1947, a Parigi, fu siglato il diktat di pace con il quale le potenze alleate, vincitrici della seconda guerra mondiale, tolsero all’Italia Pola, gran parte dell’Istria, Fiume, Zara, le isole adriatiche, per assegnarle alla Jugoslavia. Una decisione dei vincitori finalizzata a colpire l’Italia. Gli alleati, infatti, preferirono sostenere gli jugoslavi titini, autori di crimini di guerra e crimini comuni.
Altri due libri, fra gli altri, sono in libreria: uno della giornalista Rosanna Turcinovich, Esuli due volte e l’altro …dei crepuscoli a settembre, tutta la rovina, della poetessa triestina Lina Galli (1899-1993). Turcinovich spiega con dati, statistiche e documenti storici l’impatto dell’esodo sulle famiglie italiane, come la dittatura comunista spinse gli italiani a fuggire. Un piano preordinato dal Partito comunista jugoslavo che si abbattè sulle popolazioni di quella terra da sempre italiana. I pochi che rimasero dovettero sottomettere la propria vita alle imposizioni dello Stato titino. Turcinovich narra la condizione degli esuli che, dopo aver perso tutto, soprattutto la propria terra, furono costretti, per ragioni economiche, a lasciare l’Italia e furono inviati – senza poter scegliere – nelle destinazioni individuate dall’Iro (International refugee organization), organizzazione internazionale per i rifugiati che distribuiva in Usa, Canada, Australia i profughi europei. E’ vero che lo Stato italiano del dopoguerra non si interessò molto alla sorte di questi profughi e il loro destino fu davvero triste e travagliato. Turcinovich racconta storie, vicende, testimonianze, molte raccolte di prima mano al raduno mondiale dei dalmato-giuliani che si tenne in Canada nel 2000 potendo così ricostruire buchi neri della storia di questa emigrazone forzata di italiani che in gran parte hanno mantenuto la propria identità. Un libro da leggere, reso più prezioso dal Premio Tomizza.
Interessante anche il lavoro di Lina Galli, frammenti sparsi, ricordi, poesie inedite tutto scritto fra il 1945 e il 1957 per narrare l’Istria fra guerra e dopoguerra. Un libro che ha valore poetico e testimonianza. Lo storico Roberto Spazzali ha raccolto questi testi donati all’Istituto regionale per la cultura istriana, fiumana e dalmata da Luigi e Maria Pia Galli, eredi della poetessa, e li ha curati premettendo un inquadramento storico.
Un libro che colma un vuoto testimoniale, dove sono riportate vicende, drammi, fatti anche poco o per nulla conosciuti. Un documento equilibrato che mostra come un’artista ricca di sensibilità si trovò a vivere momenti tragici e difficili per lei e per la propria comunità di italiani d’Istria, Dalmazia e Fiume.


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Il giorno del Ricordo è stato istituito per legge per non dimenticare le vittime dei tragici crimini compiuti nell’ultima guerra mondiale dai partigiani comunisti jugoslavi in Istria, Dalmazia, Carnaro con lo sterminio e la “pulizia etnica” di italiani. Un Olocausto che causò trentamila morti. Un crimine contro l’umanità che spinse oltre 300mila italiani ad abbandonare le proprie case e le proprie terre per scampare all’operazione di pulizia etnica che i comunisti, per volere del dittatore Tito, stavano compiendo. Operazione appoggiata anche dal Pci: così molti comunisti italiani collaborarono con i comunisti titini contro gli italiani.
Ogni anno arrivano in libreria opere sulle stragi al confine orientale e da qualche tempo anche libri negazionisti. Da poco sono usciti due volumi di testimonianze che da sole confutano le false ipotesi dei negazionisti. A parte l’ormai classico libro 10 Febbraio dalle foibe all’esodo, di Roberto Menia, studioso di quel periodo storico e delle foibe, che ha raccolto le storie di tante famiglie dalmate, istriane, triestine, narrando la sequela di torture, violenze, supplizi (gli italiani venivano gettati vivi nelle foibe, cavità carsiche della zona). Stragi che durarono fino al 1947. Seguì l’esodo: gli italiani superstiti infatti furono costretti a scegliere se divenire jugoslavi e restare in quelle terre o rimanere italiani ma andare via: quasi tutti scelsero l’esodo. Poi, il 10 febbraio del 1947, a Parigi, fu siglato il diktat di pace con il quale le potenze alleate, vincitrici della seconda guerra mondiale, tolsero all’Italia Pola, gran parte dell’Istria, Fiume, Zara, le isole adriatiche, per assegnarle alla Jugoslavia. Una decisione dei vincitori finalizzata a colpire l’Italia. Gli alleati, infatti, preferirono sostenere gli jugoslavi titini, autori di crimini di guerra e crimini comuni.
Altri due libri, fra gli altri, sono in libreria: uno della giornalista Rosanna Turcinovich, Esuli due volte e l’altro …dei crepuscoli a settembre, tutta la rovina, della poetessa triestina Lina Galli (1899-1993). Turcinovich spiega con dati, statistiche e documenti storici l’impatto dell’esodo sulle famiglie italiane, come la dittatura comunista spinse gli italiani a fuggire. Un piano preordinato dal Partito comunista jugoslavo che si abbattè sulle popolazioni di quella terra da sempre italiana. I pochi che rimasero dovettero sottomettere la propria vita alle imposizioni dello Stato titino. Turcinovich narra la condizione degli esuli che, dopo aver perso tutto, soprattutto la propria terra, furono costretti, per ragioni economiche, a lasciare l’Italia e furono inviati – senza poter scegliere – nelle destinazioni individuate dall’Iro (International refugee organization), organizzazione internazionale per i rifugiati che distribuiva in Usa, Canada, Australia i profughi europei. E’ vero che lo Stato italiano del dopoguerra non si interessò molto alla sorte di questi profughi e il loro destino fu davvero triste e travagliato. Turcinovich racconta storie, vicende, testimonianze, molte raccolte di prima mano al raduno mondiale dei dalmato-giuliani che si tenne in Canada nel 2000 potendo così ricostruire buchi neri della storia di questa emigrazone forzata di italiani che in gran parte hanno mantenuto la propria identità. Un libro da leggere, reso più prezioso dal Premio Tomizza.
Interessante anche il lavoro di Lina Galli, frammenti sparsi, ricordi, poesie inedite tutto scritto fra il 1945 e il 1957 per narrare l’Istria fra guerra e dopoguerra. Un libro che ha valore poetico e testimonianza. Lo storico Roberto Spazzali ha raccolto questi testi donati all’Istituto regionale per la cultura istriana, fiumana e dalmata da Luigi e Maria Pia Galli, eredi della poetessa, e li ha curati premettendo un inquadramento storico.
Un libro che colma un vuoto testimoniale, dove sono riportate vicende, drammi, fatti anche poco o per nulla conosciuti. Un documento equilibrato che mostra come un’artista ricca di sensibilità si trovò a vivere momenti tragici e difficili per lei e per la propria comunità di italiani d’Istria, Dalmazia e Fiume.


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OGT newspaper
oggi
01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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