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Una poetessa tra gli orrori della guerra: Lina Galli e il dramma dell’esodo dei giuliani
Il Piccolo di sabato 19 marzo 2022
Esce per le edizioni Gammarņ a cura di Roberto Spazzali un libro che raccoglie gli appunti dell’artista nata a Parenzo e morta a Trieste

di Paolo Marcolin



«Viviamo in un enorme campo di concentramento, dicono gli istriani che fuggono dall’Istria. Il settanta per cento degli uomini validi ha abbandonato le cittadine e vive desolatamente da profughi. Sono rimasti laggiù soltanto i vecchi, i fanciulli, i più poveri. Perché questa fuga? Perché su tutti grava il pericolo della deportazione per la sola e semplice ragione che sono italiani». Così scriveva Lina Galli in uno dei quaderni redatti negli anni successivi alla fine della guerra. Sono fogli, quaderni, biglietti, testimonianze, cronache dei giornali dell’epoca, raccolte da Galli (nata a Parenzo nel 1899 e scomparsa a Trieste nel 1993, nota soprattutto per la sua attività di poetessa) con lo scopo di far sapere quello che era successo in Istria e così tener viva la voce degli italiani che ancora ci vivevano.

Un corpus di carte cui l’autrice non ha mai dato forma organica e che nel 2006 è stato donato da Luigi Galli e Maria Pia Galli all’Istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata.

Piero Delbello, il direttore, a sua volta ha affidato il materiale alo storico Roberto Spazzali, che ha provveduto al riordino e all’inventariazione. Ora quel materiale è stato riunito per la prima volta in un volume dal titolo “…dei crepuscoli a settembre tutta la rovina. L’Istria tra guerra e dopoguerra negli appunti di Lina Galli” (Gammarò, 151 pagg., 16 euro), con l’introduzione e le note storiche a cura di Spazzali. Le pagine della Galli si devono leggere, avverte il curatore, come le voci di dentro di una comunità sospesa tra sofferenze, ansie, paure e speranze; chi le ha raccolte intendeva amplificare il volume di una protesta dolente, fermare la cronaca, non scrivere un testo di storia.

 

 
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Un intento che la Galli aveva in comune con Maria Pasquinelli, la donna che sparò al generale de Winton per protestare contro l’assegnazione di Pola alla Jugoslavia. Anche lei aveva raccolto testimonianze e preparato memoriali che aveva inviato a Badoglio e Mussolini. Sarebbe interessante, nota Spazzali, sapere se Galli e Pasquinelli si sono conosciute o solo incontrate. Entrambe le donne, spiega lo storico, volevano denunciare gli abusi dei titini, ma se la Galli si limitò alla testimonianza, Pasquinelli cercò di tradurla in un’azione di carattere politico.

 

Quando comincia il suo lavoro la Galli ha quasi cinquant’anni; maestra elementare, dopo una prima esperienza nella scuola di Parenzo si era trasferita a Trieste, dove avrebbe insegnato fino al 1964. Dal 1935 fino al 1987 ha pubblicato raccolte di poesie e novelle e assieme a Livia Veneziani ha scritto la biografia di Italo Svevo, uscita per la prima volta nel 1950. Anche nella lirica ha toccato i temi della guerra e dell’esodo e il titolo del libro è un verso della poesia “La vedrò”, dedicata a Parenzo e tratta dalla silloge “Notte sull’Istria”. Affrontare la materia della guerra, delle violenze e delle foibe deve esserle costato tanto, come risulta dai dieci abbozzi incompleti, altrettanti tentativi dattiloscritti e manoscritti mai portati a compimento. Era un’impresa che aveva sentito come un obbligo morale anche perché coinvolta personalmente dalla scomparsa del fratello Benedetto, forse infoibato nell’ottobre 1943, il che spiega il suo travaglio emotivo e la sua pervicacia nel proseguire l’opera. I suoi appunti fermano quello che succede dopo l’armistizio del 1943. «Nei giorni tra l’11 e il 14 settembre le bande partigiane, un’accozzaglia di gente male armata entrarono da padrone nelle cittadine istriane inermi e indifese».

Le sue cronache si avvalgono anche dei reportage del giornalista del Piccolo Mario Granbassi, inviato in Istria in quei giorni. «Nei ventitrè giorni di occupazione i danni materiali subiti dalla popolazione furono ingenti. Nella fabbrica di sardine Ampelea di Isola fu fatta man bassa di tutte le merci esistenti in deposito. A Lussino e a Cherso furono fatte razzie nelle case dei contadini. A Parenzo fu vuotato il silos, a Capodistria furono depredati i depositi del monte di Pietà. Ma i danni ai beni erano ancora un nulla in confronto all’angoscia per la propria vita. Nessuno si sentiva più sicuro. È il terrore. L’ordine degli arresti partiva dal segreto tribunale di Pisino diretto da Ivan Motika, che condannò senza mai interrogare alcuno».

Un aspetto che Spazzali porta in evidenza è quello degli istriani che avevano risposto al richiamo della fratellanza italo slava e poi avevano deciso di lasciare l’Istria cercando di cancellare le tracce della loro iniziale scelta. Tra le carte di Galli si legge così di Antonio Rovatti di Capodistria, detto Toni Cromo, che fonda il partito cristiano sociale ed entra nel Cln, ma nel maggio del 1945 è presidente del Comitato popolare cittadino per poi rifugiarsi a Trieste nel 1947. Nelle annotazioni di Galli si delinea, scrive Spazzali, «il naufragio degli italiani della Venezia Giulia, l’assenza di una cultura democratica e la bassa percezione iniziale del pericolo». Molti speravano che un intervento esterno potesse salvarli ma, conclude lo storico «nel 1945 a differenza del 1918, non c’era nessuna nave italiana ad attendere agli approdi, non c’era nessuna potenza occidentale disposta a compromettere gli equilibri per difendere una regione tutto sommato marginale».


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Esce per le edizioni Gammarņ a cura di Roberto Spazzali un libro che raccoglie gli appunti dell’artista nata a Parenzo e morta a Trieste

di Paolo Marcolin



«Viviamo in un enorme campo di concentramento, dicono gli istriani che fuggono dall’Istria. Il settanta per cento degli uomini validi ha abbandonato le cittadine e vive desolatamente da profughi. Sono rimasti laggiù soltanto i vecchi, i fanciulli, i più poveri. Perché questa fuga? Perché su tutti grava il pericolo della deportazione per la sola e semplice ragione che sono italiani». Così scriveva Lina Galli in uno dei quaderni redatti negli anni successivi alla fine della guerra. Sono fogli, quaderni, biglietti, testimonianze, cronache dei giornali dell’epoca, raccolte da Galli (nata a Parenzo nel 1899 e scomparsa a Trieste nel 1993, nota soprattutto per la sua attività di poetessa) con lo scopo di far sapere quello che era successo in Istria e così tener viva la voce degli italiani che ancora ci vivevano.

Un corpus di carte cui l’autrice non ha mai dato forma organica e che nel 2006 è stato donato da Luigi Galli e Maria Pia Galli all’Istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata.

Piero Delbello, il direttore, a sua volta ha affidato il materiale alo storico Roberto Spazzali, che ha provveduto al riordino e all’inventariazione. Ora quel materiale è stato riunito per la prima volta in un volume dal titolo “…dei crepuscoli a settembre tutta la rovina. L’Istria tra guerra e dopoguerra negli appunti di Lina Galli” (Gammarò, 151 pagg., 16 euro), con l’introduzione e le note storiche a cura di Spazzali. Le pagine della Galli si devono leggere, avverte il curatore, come le voci di dentro di una comunità sospesa tra sofferenze, ansie, paure e speranze; chi le ha raccolte intendeva amplificare il volume di una protesta dolente, fermare la cronaca, non scrivere un testo di storia.

 

 
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Quando comincia il suo lavoro la Galli ha quasi cinquant’anni; maestra elementare, dopo una prima esperienza nella scuola di Parenzo si era trasferita a Trieste, dove avrebbe insegnato fino al 1964. Dal 1935 fino al 1987 ha pubblicato raccolte di poesie e novelle e assieme a Livia Veneziani ha scritto la biografia di Italo Svevo, uscita per la prima volta nel 1950. Anche nella lirica ha toccato i temi della guerra e dell’esodo e il titolo del libro è un verso della poesia “La vedrò”, dedicata a Parenzo e tratta dalla silloge “Notte sull’Istria”. Affrontare la materia della guerra, delle violenze e delle foibe deve esserle costato tanto, come risulta dai dieci abbozzi incompleti, altrettanti tentativi dattiloscritti e manoscritti mai portati a compimento. Era un’impresa che aveva sentito come un obbligo morale anche perché coinvolta personalmente dalla scomparsa del fratello Benedetto, forse infoibato nell’ottobre 1943, il che spiega il suo travaglio emotivo e la sua pervicacia nel proseguire l’opera. I suoi appunti fermano quello che succede dopo l’armistizio del 1943. «Nei giorni tra l’11 e il 14 settembre le bande partigiane, un’accozzaglia di gente male armata entrarono da padrone nelle cittadine istriane inermi e indifese».

Le sue cronache si avvalgono anche dei reportage del giornalista del Piccolo Mario Granbassi, inviato in Istria in quei giorni. «Nei ventitrè giorni di occupazione i danni materiali subiti dalla popolazione furono ingenti. Nella fabbrica di sardine Ampelea di Isola fu fatta man bassa di tutte le merci esistenti in deposito. A Lussino e a Cherso furono fatte razzie nelle case dei contadini. A Parenzo fu vuotato il silos, a Capodistria furono depredati i depositi del monte di Pietà. Ma i danni ai beni erano ancora un nulla in confronto all’angoscia per la propria vita. Nessuno si sentiva più sicuro. È il terrore. L’ordine degli arresti partiva dal segreto tribunale di Pisino diretto da Ivan Motika, che condannò senza mai interrogare alcuno».

Un aspetto che Spazzali porta in evidenza è quello degli istriani che avevano risposto al richiamo della fratellanza italo slava e poi avevano deciso di lasciare l’Istria cercando di cancellare le tracce della loro iniziale scelta. Tra le carte di Galli si legge così di Antonio Rovatti di Capodistria, detto Toni Cromo, che fonda il partito cristiano sociale ed entra nel Cln, ma nel maggio del 1945 è presidente del Comitato popolare cittadino per poi rifugiarsi a Trieste nel 1947. Nelle annotazioni di Galli si delinea, scrive Spazzali, «il naufragio degli italiani della Venezia Giulia, l’assenza di una cultura democratica e la bassa percezione iniziale del pericolo». Molti speravano che un intervento esterno potesse salvarli ma, conclude lo storico «nel 1945 a differenza del 1918, non c’era nessuna nave italiana ad attendere agli approdi, non c’era nessuna potenza occidentale disposta a compromettere gli equilibri per difendere una regione tutto sommato marginale».


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OGT newspaper
oggi
01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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