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«Un olocausto italiano. Voci di soldati italiani nei lager»
Mangialibri di mercoledì 13 aprile 2022
C’è un olocausto non da molti conosciuto, perché spesso passato in sordina, quando non in totale silenzio nei libri di storia: quello che subirono tutti quei soldati italiani che, trovatisi sotto il gioco nazista nel periodo immediatamente successivo all’8 settembre 1943, da veri patrioti scelsero la strada più ardua, ossia le sofferenze, la fame, la sete, il gelo, le malattie dei campi di concentramento...

di Giuseppe Cirillo

C’è un olocausto non da molti conosciuto, perché spesso passato in sordina, quando non in totale silenzio nei libri di storia: quello che subirono tutti quei soldati italiani che, trovatisi sotto il gioco nazista nel periodo immediatamente successivo all’8 settembre 1943, da veri patrioti scelsero la strada più ardua, ossia le sofferenze, la fame, la sete, il gelo, le malattie dei campi di concentramento, piuttosto che accettare di tradire lo Stato italiano come essi lo intendevano e desideravano, ossia non quello della Repubblica di Salò e dell’occupazione militare nazista, entrambi particolarmente pressanti e insistenti nelle quotidiane richieste di arruolamento. In effetti, i Tedeschi avevano fatto in modo, con varie pressioni internazionali, che gli Internati Militari Italiani si trovassero del tutto non protetti, isolati in un totale limbo giuridico, ove non approdava nemmeno la Convenzione di Ginevra: il tutto per soddisfare la sete di rappresaglia, oltre che per sperare in un coatto rimpinguamento “in extremis” delle proprie ormai deboli e smunte fila. Probabilmente, ad attanagliare i cuori e le menti dei patrioti, fu la consapevolezza di esser stati lasciati “soli” dalle proprie istituzioni, oltre che di esser considerati nulla più che traditori dai Tedeschi, e tutto ciò molto più e ancor prima della fame, del freddo e degli stenti. Assistiamo perciò, ad esempio, al racconto di come - pur in un clima di stenti e di estrema tristezza ed incertezza - alcuni degli internati siano riusciti a organizzare un giornale che forniva notizie quotidiane di prima o, al massimo, di seconda mano; o, ancora, all’incredibile perizia tecnica di un elemento del gruppo, radiotecnico d’eccezione, che fu in grado di costituire ben due impianti radio, piccoli ma perfetti e molto efficaci, in grado di tenere al corrente il gruppo di internati di importanti notizie belliche internazionali…

Ben trentasei i racconti, in forma di prosa, cronaca o talvolta poesia con annessi anche disegni che compongono questo lavoro curato da Paolo Paganetto, amministratore della casa editrice ligure Oltre, suddiviso in tre parti: nella prima si ritraggono eventi e sensazioni della fase immediatamente successiva all’8 settembre, connotata ancora da un margine di incertezza sulla sorte degli “IMI”, gli internati militari italiani, come, nel loro gelido linguaggio burocratico, i Tedeschi definivano questi nostri compatrioti; nella seconda questa incertezza diviene per molti tragica ed effettiva sicurezza; nella terza viene invece esplorata la dimensione di vita di chi ce l’ha fatta, è riuscito contro ogni aspettativa a ritornare vivo dall’esperienza e a raccontarla ai posteri, molti dei quali nulla sapevano di quanto stesse accadendo a questo assai cospicuo numero di militari (si parla di circa 600 mila persone, oltre il70% dei quali si rifiutò di aderire all’arruolamento e venne perciò considerata, almeno nelle intenzioni, bassa manovalanza biecamente sfruttabile dai teutonici). Un racconto corale sempre cangiante nel punto di vista, pur nell’unicità della tematica, che per essere compreso a fondo va calato con precisione nella geopolitica del periodo: è il solo modo per capire che l’operazione è davvero doverosa onde poter dare voce, una volta per tutte, a uomini veri che lo Stato italiano, in quella fase, non poteva né voleva ascoltare proprio mentre costoro compivano l’estremo gesto di fedeltà alla propria Nazione.



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Mangialibri - mercoledì 13 aprile 2022
C’è un olocausto non da molti conosciuto, perché spesso passato in sordina, quando non in totale silenzio nei libri di storia: quello che subirono tutti quei soldati italiani che, trovatisi sotto il gioco nazista nel periodo immediatamente successivo all’8 settembre 1943, da veri patrioti scelsero la strada più ardua, ossia le sofferenze, la fame, la sete, il gelo, le malattie dei campi di concentramento...

di Giuseppe Cirillo

C’è un olocausto non da molti conosciuto, perché spesso passato in sordina, quando non in totale silenzio nei libri di storia: quello che subirono tutti quei soldati italiani che, trovatisi sotto il gioco nazista nel periodo immediatamente successivo all’8 settembre 1943, da veri patrioti scelsero la strada più ardua, ossia le sofferenze, la fame, la sete, il gelo, le malattie dei campi di concentramento, piuttosto che accettare di tradire lo Stato italiano come essi lo intendevano e desideravano, ossia non quello della Repubblica di Salò e dell’occupazione militare nazista, entrambi particolarmente pressanti e insistenti nelle quotidiane richieste di arruolamento. In effetti, i Tedeschi avevano fatto in modo, con varie pressioni internazionali, che gli Internati Militari Italiani si trovassero del tutto non protetti, isolati in un totale limbo giuridico, ove non approdava nemmeno la Convenzione di Ginevra: il tutto per soddisfare la sete di rappresaglia, oltre che per sperare in un coatto rimpinguamento “in extremis” delle proprie ormai deboli e smunte fila. Probabilmente, ad attanagliare i cuori e le menti dei patrioti, fu la consapevolezza di esser stati lasciati “soli” dalle proprie istituzioni, oltre che di esser considerati nulla più che traditori dai Tedeschi, e tutto ciò molto più e ancor prima della fame, del freddo e degli stenti. Assistiamo perciò, ad esempio, al racconto di come - pur in un clima di stenti e di estrema tristezza ed incertezza - alcuni degli internati siano riusciti a organizzare un giornale che forniva notizie quotidiane di prima o, al massimo, di seconda mano; o, ancora, all’incredibile perizia tecnica di un elemento del gruppo, radiotecnico d’eccezione, che fu in grado di costituire ben due impianti radio, piccoli ma perfetti e molto efficaci, in grado di tenere al corrente il gruppo di internati di importanti notizie belliche internazionali…

Ben trentasei i racconti, in forma di prosa, cronaca o talvolta poesia con annessi anche disegni che compongono questo lavoro curato da Paolo Paganetto, amministratore della casa editrice ligure Oltre, suddiviso in tre parti: nella prima si ritraggono eventi e sensazioni della fase immediatamente successiva all’8 settembre, connotata ancora da un margine di incertezza sulla sorte degli “IMI”, gli internati militari italiani, come, nel loro gelido linguaggio burocratico, i Tedeschi definivano questi nostri compatrioti; nella seconda questa incertezza diviene per molti tragica ed effettiva sicurezza; nella terza viene invece esplorata la dimensione di vita di chi ce l’ha fatta, è riuscito contro ogni aspettativa a ritornare vivo dall’esperienza e a raccontarla ai posteri, molti dei quali nulla sapevano di quanto stesse accadendo a questo assai cospicuo numero di militari (si parla di circa 600 mila persone, oltre il70% dei quali si rifiutò di aderire all’arruolamento e venne perciò considerata, almeno nelle intenzioni, bassa manovalanza biecamente sfruttabile dai teutonici). Un racconto corale sempre cangiante nel punto di vista, pur nell’unicità della tematica, che per essere compreso a fondo va calato con precisione nella geopolitica del periodo: è il solo modo per capire che l’operazione è davvero doverosa onde poter dare voce, una volta per tutte, a uomini veri che lo Stato italiano, in quella fase, non poteva né voleva ascoltare proprio mentre costoro compivano l’estremo gesto di fedeltà alla propria Nazione.



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01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

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