CATALOGO      AUTORI      APPROFONDIMENTI      EVENTI      ARTE & ARTISTI      UNIVERSITÀ

Login (se sei già registrato) oppure Registrati
Oltre edizioni

Login (se sei già registrato) oppure Registrati
«Un olocausto italiano. Voci di soldati italiani dai lager» di Paolo Paganetto
SoloLibri.net di venerdě 15 aprile 2022
Due anni di sofferenza per tanti e la morte di molti, per colpa di pochi. Centinaia di migliaia di giovani italiani in prigionia: nella campagna d’odio razziale scatenata dalla sedicente “razza eletta” ottant’anni fa, c’č stata anche una persecuzione nei confronti dei nostri soldati...

di Felice Laudadio

Due anni di sofferenza per tanti e la morte di molti, per colpa di pochi. Centinaia di migliaia di giovani italiani in prigionia: nella campagna d’odio razziale scatenata dalla sedicente “razza eletta” ottant’anni fa, c’è stata anche una persecuzione nei confronti dei nostri soldati. Per ottocentomila, due anni da deportati nei campi di concentramento tedeschi in Europa. E cinquantamila non sono tornati. È stato un olocausto italiano, titolo efficace di un saggio antologico che raccoglie testimonianze dei militari nei lager, pubblicato dalle edizioni sestresi nella collana Passato prossimo e curato da Paolo Paganetto: Un olocausto italiano. Voci di soldati italiani dai lager (Oltre Edizioni, 2022).

Un documento corale, “per non dimenticare”, sottolinea nell’introduzione il saggista e docente di letteratura italiana Oliviero Arzuffi. E Armando Borrelli, in un’altra anticipazione, aiuta a definire il quadro storico: la tragedia di centinaia di migliaia di nostri connazionali, disarmati dai germanici in Italia, nei Balcani e nel Mediterraneo, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 con gli Alleati. Uomini e ragazzi delle tre Armi, di ogni provenienza regionale, di qualsiasi credo religioso e politico, che rifiutarono in maggioranza l’adesione alla Repubblica Sociale mussoliniana. Avrebbero così messo fine agli stenti, alla fame, alle malattie, al lavoro coatto, ma degli ottocentodiecimila IMI, nemmeno il 10% rispose sì, secondo le stime più recenti dello storico tedesco Schreiber e degli italiani Avagliano e Palmieri.

Rastrellati dov’erano e deportati (gli ufficiali negli oflag in Polonia, sottufficiali e soldati negli stalag a Mauthausen, Dora, Dachau...), vennero trattati da Italienische Militär-Internierten (Internati Militari Italiani, I.M.I.). Su disposizione di Hitler, dovevano essere considerati “traditori” dell’alleanza nazifascista e non prigionieri di guerra, con la relativa tutela della Convenzione di Ginevra del 1929. Questo lasciava all’industria tedesca la libertà d’impegnare forzatamente i soldati italiani nei campi di lavoro e soprattutto nella produzione bellica, con orari massacranti (10-12 ore al giorno), in stabilimenti sotto il costante bombardamento aereo alleato e in condizioni di alimentazione, igiene e sanità di pura sopravvivenza.

Esperienza vissuta anche da nomi che nell’Italia postbellica saranno noti in diversi settori: Guareschi, Rebora. Carpi, Lama, Novaro, Novello, Moretti. Questo libro, sottolinea Arzuffi, è il vissuto espresso dagli internati, in forma poetica e narrativa, ora solo sussurrata ora gridata, su appunti presi in diretta o dopo una riflessione postuma. Molte voci sono accompagnate da disegni, tanti gli artisti tra loro.
Un libro come memoria e riscatto”, che testimonia un amore incondizionato per la libertà, per l’onore e per un’italianità risorgimentale (eppure erano stati quasi tutti allievi delle scuole del ventennio), che li portò a rifiutare la connivenza coi nazisti, a costo anche della vita.

In poche ore, quegli ottocentomila (oltre un milione i rastrellati, ma non pochi riuscirono a sottrarsi nella confusione dei primi giorni) si ritrovarono ridotti da combattenti orgogliosi (e nostalgici delle loro case e affetti) a povera gente trattata senza pietà, stipata in vagoni merci per il trasporto animali. Era l’inizio di mesi di umiliazioni, di privazione della libertà e della dignità umana. Quella militare era già finita sotto i piedi, per colpa del Comando Supremo, che li aveva lasciati senza ordini.
Significativi i titoli dei primi paragrafi: “Tener duro”, “Merce umana”, “Morire nello squallore dell’esilio”, “Fallingbostel: mille in quattro baracche”.

Un libro di memorie, diari, racconti. Tra quelli più suggestivi, Ermanno Cunico rivela le ricadute pesanti sugli innocenti internati delle differenze culturali e di indole tra gli italiani e i tedeschi. L’impatto della varietà della nostra lingua contro la scarsa fantasia teutonica riusciva a creare drammi, anche per questioni banali.

Nel novembre 1944, un papà aveva concluso una cartolina raccomandando al figlio a Sandbostel di non preoccuparsi per loro a casa, ma di pensare solo a riportare a casa il telaio in buono stato. La censura tedesca si bloccò sulla parola "telaio", che il sottotenente avrebbe dovuto ricondurre in Italia a tutti i costi. Secondo il vocabolario era una “Macchina di metallo o legname per tessere - Nome di vari arnesi per diversi usi”. Per loro, quindi, doveva trattarsi di un aggeggio importante, forse un’arma segreta!
Venne informata la Gestapo: qualcosa di misterioso doveva essere nascosto nel lager. Baracca messa sottosopra, assi del pavimento smantellate, internati interrogati duramente.
Il diretto responsabile rischiò grosso. Non fu per niente facile convincere i tedeschi che il famoso telaio erano le ossa e la pelle dell’ufficiale, “l’unica cosa che il grande Reich aveva lasciato agli ufficiali italiani”.



leggi l'articolo integrale su SoloLibri.net
SCHEDA LIBRO   |   Segnala  |  Ufficio Stampa


CATALOGO      AUTORI      APPROFONDIMENTI      EVENTI      ARTE & ARTISTI      UNIVERSITÀ

Login (se sei già registrato) oppure Registrati
Oltre edizioni

Login (se sei già registrato) oppure Registrati
SoloLibri.net - venerdě 15 aprile 2022
Due anni di sofferenza per tanti e la morte di molti, per colpa di pochi. Centinaia di migliaia di giovani italiani in prigionia: nella campagna d’odio razziale scatenata dalla sedicente “razza eletta” ottant’anni fa, c’č stata anche una persecuzione nei confronti dei nostri soldati...

di Felice Laudadio

Due anni di sofferenza per tanti e la morte di molti, per colpa di pochi. Centinaia di migliaia di giovani italiani in prigionia: nella campagna d’odio razziale scatenata dalla sedicente “razza eletta” ottant’anni fa, c’è stata anche una persecuzione nei confronti dei nostri soldati. Per ottocentomila, due anni da deportati nei campi di concentramento tedeschi in Europa. E cinquantamila non sono tornati. È stato un olocausto italiano, titolo efficace di un saggio antologico che raccoglie testimonianze dei militari nei lager, pubblicato dalle edizioni sestresi nella collana Passato prossimo e curato da Paolo Paganetto: Un olocausto italiano. Voci di soldati italiani dai lager (Oltre Edizioni, 2022).

Un documento corale, “per non dimenticare”, sottolinea nell’introduzione il saggista e docente di letteratura italiana Oliviero Arzuffi. E Armando Borrelli, in un’altra anticipazione, aiuta a definire il quadro storico: la tragedia di centinaia di migliaia di nostri connazionali, disarmati dai germanici in Italia, nei Balcani e nel Mediterraneo, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 con gli Alleati. Uomini e ragazzi delle tre Armi, di ogni provenienza regionale, di qualsiasi credo religioso e politico, che rifiutarono in maggioranza l’adesione alla Repubblica Sociale mussoliniana. Avrebbero così messo fine agli stenti, alla fame, alle malattie, al lavoro coatto, ma degli ottocentodiecimila IMI, nemmeno il 10% rispose sì, secondo le stime più recenti dello storico tedesco Schreiber e degli italiani Avagliano e Palmieri.

Rastrellati dov’erano e deportati (gli ufficiali negli oflag in Polonia, sottufficiali e soldati negli stalag a Mauthausen, Dora, Dachau...), vennero trattati da Italienische Militär-Internierten (Internati Militari Italiani, I.M.I.). Su disposizione di Hitler, dovevano essere considerati “traditori” dell’alleanza nazifascista e non prigionieri di guerra, con la relativa tutela della Convenzione di Ginevra del 1929. Questo lasciava all’industria tedesca la libertà d’impegnare forzatamente i soldati italiani nei campi di lavoro e soprattutto nella produzione bellica, con orari massacranti (10-12 ore al giorno), in stabilimenti sotto il costante bombardamento aereo alleato e in condizioni di alimentazione, igiene e sanità di pura sopravvivenza.

Esperienza vissuta anche da nomi che nell’Italia postbellica saranno noti in diversi settori: Guareschi, Rebora. Carpi, Lama, Novaro, Novello, Moretti. Questo libro, sottolinea Arzuffi, è il vissuto espresso dagli internati, in forma poetica e narrativa, ora solo sussurrata ora gridata, su appunti presi in diretta o dopo una riflessione postuma. Molte voci sono accompagnate da disegni, tanti gli artisti tra loro.
Un libro come memoria e riscatto”, che testimonia un amore incondizionato per la libertà, per l’onore e per un’italianità risorgimentale (eppure erano stati quasi tutti allievi delle scuole del ventennio), che li portò a rifiutare la connivenza coi nazisti, a costo anche della vita.

In poche ore, quegli ottocentomila (oltre un milione i rastrellati, ma non pochi riuscirono a sottrarsi nella confusione dei primi giorni) si ritrovarono ridotti da combattenti orgogliosi (e nostalgici delle loro case e affetti) a povera gente trattata senza pietà, stipata in vagoni merci per il trasporto animali. Era l’inizio di mesi di umiliazioni, di privazione della libertà e della dignità umana. Quella militare era già finita sotto i piedi, per colpa del Comando Supremo, che li aveva lasciati senza ordini.
Significativi i titoli dei primi paragrafi: “Tener duro”, “Merce umana”, “Morire nello squallore dell’esilio”, “Fallingbostel: mille in quattro baracche”.

Un libro di memorie, diari, racconti. Tra quelli più suggestivi, Ermanno Cunico rivela le ricadute pesanti sugli innocenti internati delle differenze culturali e di indole tra gli italiani e i tedeschi. L’impatto della varietà della nostra lingua contro la scarsa fantasia teutonica riusciva a creare drammi, anche per questioni banali.

Nel novembre 1944, un papà aveva concluso una cartolina raccomandando al figlio a Sandbostel di non preoccuparsi per loro a casa, ma di pensare solo a riportare a casa il telaio in buono stato. La censura tedesca si bloccò sulla parola "telaio", che il sottotenente avrebbe dovuto ricondurre in Italia a tutti i costi. Secondo il vocabolario era una “Macchina di metallo o legname per tessere - Nome di vari arnesi per diversi usi”. Per loro, quindi, doveva trattarsi di un aggeggio importante, forse un’arma segreta!
Venne informata la Gestapo: qualcosa di misterioso doveva essere nascosto nel lager. Baracca messa sottosopra, assi del pavimento smantellate, internati interrogati duramente.
Il diretto responsabile rischiò grosso. Non fu per niente facile convincere i tedeschi che il famoso telaio erano le ossa e la pelle dell’ufficiale, “l’unica cosa che il grande Reich aveva lasciato agli ufficiali italiani”.



leggi l'articolo integrale su SoloLibri.net
SCHEDA LIBRO   |   Stampa   |   Segnala  |  Ufficio Stampa

TUTTI GLI EVENTI

OGT newspaper
oggi
01/09/2024

L'intervista a Carla Boroni

Se la cultura di questa città fosse un palazzo, lei sarebbe una delle colonne.
Professoressa e scrittrice, docente e saggista, Carla Boroni si spende da una vita fra libri e università, progetti e istituzioni. Spirito libero e pensiero indipendente, non per questo ha evitato di cimentarsi in avventure strutturate che comportano gioco di squadra e visione di prospettiva: laureata in pedagogia e in lettere, professore associato alla cattedra di letteratura italiana contemporanea (scienze della formazione) all’Università Cattolica nonché membro del Dipartimento di Italianistica e Comparatistica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e volumi che vanno da Ungaretti alle favole, dalla Storia alle ricette in salsa bresciana, variando registri espressivi e spaziando sempre.
Non a caso Fondazione Civiltà Bresciana non ha esitato a confermarla alla presidenza del suo Comitato Scientifico.
«Sono grata a presidente e vice presidente, Mario Gorlani e Laura Cottarelli - dice Carla Boroni -. Hanno creduto in me e insieme abbiamo formato questo comitato scientifico di persone che si danno molto da fare, ognuno nell’ambito della propria disciplina. Con loro è un piacere andare avanti, procedere lungo la strada intrapresa che ci ha già dato soddisfazioni. Con impegno ed entusiasmo immutati, anzi rinnovati».

Il Cda di Fcb ha riconosciuto il lavoro svolto a partire dalle pubblicazioni artistiche e architettoniche al Fondo Caprioli in avanzato stato di lavoro storico archivistico, da «Maggio di gusto» (sulle tradizioni culinarie nel bresciano), alla toponomastica, dal Centro Aleni sempre più internazionale alle mostre in sinergia con le province limitrofe, al riconoscimento della Rivista della Fondazione nella Classe A di molte discipline universitarie.
Attraverso una brescianità d’eccellenza e mai localistica siamo riusciti a coinvolgere le Università ma anche Accademie e Conservatori non solo cittadini, non trascurando quell’approccio pop che tanto fu caro al fondatore monsignor Antonio Fappani, con cui io e Sergio Onger iniziammo svolgendo un ruolo da direttori. Conferenze e iniziative, eventi e restauri, mostre e incontri, convenzioni e pubblicazioni: tanto è stato fatto, tanto ancora resta da fare.

Cosa vuole e può rappresentare Fondazione Civiltà Bresciana?
Tanti pensano che sia questo e stop, Civiltà Bresciana come indica il nome. In realtà noi a partire, non dico da Foscolo, ma da Tartaglia, Arici e Veronica Gambara, tutti grandi intellettuali che hanno lavorato per la città incidendo in profondità, cerchiamo di radicare al meglio i nostri riferimenti culturali. Dopodiché ci siamo aperti a Brescia senza remore.

Com’è composta la squadra?
Possiamo contare su tante competenze di rilievo. Marida Brignani, architetta e storica, si occupa di toponomastica. Gianfranco Cretti, ingegnere e storico cinese, del Centro GIulio Aleni. Massimo De Paoli, figlio del grande bomber del Brescia Calcio, storico dell’architettura, fa capo all’Università Statale di Brescia come Fiorella Frisoni, storica dell’arte, a quella di Milano. Licia Mari, musicologa, è attiva con l’Università Cattolica di Brescia come Simona Greguzzo con la Statale di Pavia quanto a storia moderna. Leonardo Leo, già direttore dell’Archivio di Stato, si occupa del Fondo Caprioli. L’esperto di enogastronomia è Gianmichele Portieri, giornalista e storico come Massimo Tedeschi, direttore della rivista della Fondazione. Massimo Lanzini, pure giornalista, specialista di dialetto e dialetti, prende il posto dell’indimenticabile Costanzo Gatta nel «Concorso dialettale» relativo ai Santi Faustino e Giovita.

Cosa c’è all’orizzonte adesso?
La priorità, in generale, è precisamente una: vogliamo dare alla brescianità un’allure di ampio respiro.
Al di là dell’anno da Capitale della Cultura, ad ampio raggio è in atto da tempo una rivalutazione, una ridefinizione della cultura di Brescia.
Io appartengo a una generazione che a scuola non poteva parlare in dialetto. Sono cresciuta a Berzo Demo e traducevo dal dialetto per esprimermi regolarmente in italiano. Mentre il dialetto a scuola era scartato, tuttavia, i poeti dialettali sono cresciuti enormemente, a partire da Pier Paolo Pasolini con le sue poesie a Casarsa.

Tanti anni di insegnamento: come sono cambiati gli studenti di generazione in generazione?
Checché se ne dica per me i ragazzi non sono cambiati tanto, anzi, non sono cambiati affatto. Sono quelli di sempre: se sentono che tu insegnante sei aperta nei loro confronti e li capisci davvero, ti seguono e la loro stima ti gratifica ogni giorno. Sono contentissima.

La chiave è l’apertura mentale?
Sì, sempre. Io vengo da un mondo cattolico privo di paraocchi, il mondo di don Fappani. Per esempio abbiamo fatto un libro con Michele Busi sui cattolici e la Strage: gravitiamo costantemente in un’area in cui non bisogna esitare a mettersi in discussione. Nel nostro Comitato Scientifico siamo tutti liberi battitori. Alla fine quello che conta è la preparazione, lo spessore.

Discorso logico ma controcorrente, nell’epoca di TikTok e della soglia di attenzione pari a un battito di ciglia.
Vero. All’università quando devo spiegare una poetica agli studenti propongo degli hashtag: #Foscolo, #illusioni, #disillusioni... Mi muovo sapendo di rivolgermi a chi è abituato a ragionare e ad esprimersi in 50 parole. Poi magari vengono interrogati e sanno tutto, ma devono partire da lì. I tempi cambiano e oggi funziona così.

Oggi a che punto è la Civiltà Bresciana, estendendo il concetto al di là della Fondazione?
Brescia ha sempre dovuto lottare, correre in salita, con la sua provincia così vasta e mutata nei secoli. Storia di dominazioni e resistenze, di slanci e prove d’ingegno. Adesso nella nostra Fondazione abbiamo persone di Cremona e Mantova, ci stiamo allargando, aprendo alle novità anche in questo senso. Così si può diventare meno Milano-centrici. Fieri delle nostre radici, ma senza paura di cambiare. Per crescere in un mondo che evolve rimanendo popolari. Per preservare la nostra cultura con lo sguardo proteso al futuro, sapendo che Brescia ha una grande qualità: può contare su una trasversalità di fondo a livello di rapporti intrecciati di stima che prescindono da ogni forma di appartenenza politica. Convergenze parallele virtuose che contribuiscono ad un gioco di squadra allargato.

LEGGI TUTTO